Quando si ricorda il '68 sembra sempre che quelli che lo celebrano non parlino dello stesso evento. La memoria è dominata dalla nostalgia o dalla rimozione, ambedue fuorvianti. Ma non sempre si tratta di labilità dei ricordi. C'è anche, da parte delle istituzioni del potere, una smemoratezza voluta, sicché, di decennio in decennio, più che celebrazioni si mettono in scena tumulazioni. Col cinquantesimo siamo arrivati ad una sepoltura trionfale. Talvolta fra i becchini anche alcuni degli stessi protagonisti di quel movimento.
Perché di quella insorgenza è stata via via ridotta la portata, immiserito il significato, fino a rendere difficile far capire come mai quella ribellione abbia potuto essere così generalizzata, abbia coinvolto un'intera generazione in tutti i continenti e nel giro di uno stesso strettissimo tempo.
Si è trattato di un'operazione voluta. Selettiva. Il potere egemonico dominante ha saputo operare quella che Gramsci avrebbe chiamato una straordinaria "rivoluzione passiva" (come altre nella storia): recuperando del '68 qualche innovazione, ma solo quelle indolori, la sua faccia più povera - il libertarismo individualista - cancellando tutto quello che nel movimento era invece realmente alternativo al sistema; e dunque pericoloso (ironicamente in Italia usiamo dire che il '68 viene ormai caratterizzato come "droga sesso e rock and roll", una rivolta contro genitori e professori).
Si capisce così perché ai giovani di oggi l'anniversario non interessi granché: se l'immagine trasmessa dai media è questa, a loro di quella storia importa poco, visto che, almeno in termini di libertà di costumi, hanno già ottenuto quanto volevano.
Ma la storia vera non è questa. La novità del '68 è stata, tutto al contrario, il tentativo di liberare la libertà dalla versione riduttiva del libertarismo borghese, lo sforzo di fondare le sue radici nei rapporti sociali di produzione, e dunque in un contesto collettivo.
Non si può infatti dimenticare che, ovunque, all'origine di quella ribellione, ci sono state le grandi sollevazioni contro la prepotenza dei forti, la guerra del Vietnam, il movimento anti razzista americano, l'ineguaglianza; e che a incoraggiare il movimento degli studenti occidentali sono state la rivoluzione cubana e la figura del Che, l'eroe simbolo di una sfida totale. Questo è stato anche il precoce '68 americano, il movimento nato a Berkley già nel '66; e anche il grande raduno di Woodstok che seguì non fu solo un concerto, sebbene negli Stati Uniti non ci sia stato alcun rapporto con la classe operaia, nemmeno anni dopo, quando fu occupata l'università di Columbia e furono operati ben 800 arresti. Il rapporto con le fabbriche, che gli studenti hanno subito cercato in Europa, era pensabile solo qui, dove gli operai erano molto politicizzati e un dialogo era dunque pensabile.
Ovunque, ad esser messi in discussione, insomma, non sono stati solo genitori e prof, ma il sistema in quanto tale (il sistema capitalista, termine ormai sparito da ogni celebrazione). Così rendendo chiaro che per esser davvero liberi occorreva un orizzonte ben più radicalmente alternativo.
Certo il '68 ha avuto declinazioni diverse da paese a paese; e diverse sono state anche le correnti che hanno attraversato ciascuno di loro. E però è vero che c'è stato un forte nucleo comune, l'idea - sia pure più percepita che elaborata - di esser arrivati ad un passaggio d'epoca, al termine di una fase di sviluppo produttivo che aveva offerto, in occidente, reddito, beni e un significativo accrescimento della scolarizzazione; nel terzo mondo la decolonizzazione. Ma anche la consapevolezza che proprio quel tipo di sviluppo appariva oramai incapace di rispondere ai nuovi bisogni qualitativi che esso stesso aveva evocato. E mentre sulle nuove nazioni indipendenti già incombeva un'altra forma di oppressione: il neocolonialismo.
Se il '68 ha mobilitato innanzitutto gli studenti è proprio per via di questa sia pure embrionale presa di coscienza in soggetti sociali diversi da quelli che avevano tradizionalmente animato la contestazione anticapitalista, la classe operaia. La base materiale dell'insorgenza è stata per loro la scoperta della contraddizione fra una scolarità enormemente aumentata, ovunque, e che tuttavia apriva la strada ad una collocazione sociale ben al di sotto dello status sperato; e che il risultato dell'apprendimento finiva per esser privatizzato. Entrava insomma in scena una nuova figura, l'intellettuale proletarizzato, prodotto da una scuola pubblica allargata ma in cui le disuguaglianze sociali anziché ricomporsi come sperato si moltiplicavano grazie a nuove esclusioni non codificate.
I movimenti, proprio perché si muovono, hanno antenne che mancano alle grandi organizzazioni politiche tradizionali, paralizzate dalla loro obesità. E così il '68 è stato capace di anticipare tematiche oggi attuali ma allora ancora invisibili ai partiti di sinistra che, infatti, vi opposero una ottusa sordità: i guasti del consumismo sulla società e sull'ambiente; l'alienazione del lavoro; le malattie sociali; la privatizzazione delle conoscenze; la meritocrazia esasperata; lo svuotamento della democrazia....
Si trattò di una precoce critica alla modernità, al progresso che, nell'orizzonte del capitalismo, cominciava a mostrare tutte le sue brutture, l'intuizione che i problemi non nascevano da un ritardo dello sviluppo, ma piuttosto da quello stesso sviluppo.
In questo senso si può ben dire che il '68 non è stato affatto un movimento irrealista, piuttosto realisticamente preveggente. Anche perché nacque nel contesto dei meravigliosi anni '60, che furono ovunque caratterizzati da nuove e ricche scoperte culturali che sprovincializzarono gli apprendimenti fino ad allora dominanti, quando il marxismo ortodosso aveva potuto incontrare la sociologia americana, la scuola di Francoforte, la New Left britannica, oltre che Franz Fanon e il pensiero che arrivava dal terzo mondo. In questo senso non si trattò affatto di un moto puramente spontaneo, ma frutto di un inedito processo di acculturamento. Il '68, insomma, fu un movimento colto.
Oggi si può ironizzare sulle tre M che figuravano sui cartelli inalberati durante i cortei - Marx, Mao, Marcuse - ma a condizione di non negare che avevano un senso: Mao, perché al di là dei guai prodotti dalla rivoluzione culturale (di cui peraltro si sapeva poco o niente), bisognava ben bombardare il quartier generale sordo di casa propria; Marcuse, perché, portando alla politica una nuova e indispensabile dimensione, al di là del potere e del danaro - il personale, la felicità - aveva conferito ben altra ricchezza all'idea di libertà. Quanto a Marx, perché quanto si desiderava appariva ormai possibile, ma impossibile nell'ambito del capitalismo. (Ricordo ancora un commento di Marcuse, allora assai citato, ad un brano di Marx della "Ideologia tedesca" in cui si parla del mondo da costruire e si dice che ci sarà il tempo e il modo per arredare la propria casa, cucinare buoni pasti, fare della bella musica. Il vecchio filosofo di Francoforte commentava che le nuove tecnologie avevano liberato il sogno di Marx di ogni aspetto utopico, perché una nova vita pienamente umana era ormai possibile, era solo bloccata dai rapporti sociali di produzione esistenti).
Una delle documentazioni più utili per capire come il problema del rapporto fra la propria libertà e quella di tutti, dunque il problema del sistema, sia stata assolutamente trasversale nel movimento, il nocciolo comune della rivolta sessantottina, è costituito dalla registrazione di una trasmissione televisiva messa in onda dalla BBC il 13 giugno 1968, proprio agli esordi. Condotto da Robert McKenzie, commentatore di politica estera della rete, presenti leaders, appena venuti alla ribalta, di quasi tutti i paesi implicati. Ecco alcune delle loro affermazioni: Cohn Bendit, Parigi: "Noi critichiamo qualsiasi società in cui gli individui sono passivi, non hanno il potere di cambiare nulla di quanto sono costretti a fare"; Lewis Cole, Columbia University, New York: "Gli studenti non credono più che l'attuale società possa garantire loro un effettivo diritto di scelte sociali che assicuri un certo grado di libertà"; Iasuo Ischii, Tokio: "Lottiamo soprattutto per una società dove la democrazia non sia formale, in cui l'individuo è considerato astrattamente uguale agli altri individui mentre in realtà non lo è a causa delle differenze economiche e sociali"; Karl Dietrich Wolff, Berlino: "Siete in errore se pensate che il nostro sia solo un movimento studentesco, perché non lo è affatto. Riguarda tutti il fatto che nelle nostre società occidentali ci sia un continuo spreco di ricchezza e che esse si mantengono in piedi con metodi repressivi nelle fabbriche e nelle scuole"; Jan Kavan,Praga: "Secondo noi la nostra non era di fatto una società socialista come si proclamava. Non è questione di libertà intellettuali, noi chiediamo di garantire le libertà fondamentali non solo degli intellettuali, ma anche dei lavoratori"; Dragana Stavijel, Belgrado: "Noi non reclamiamo soltanto i nostri diritti, ma di tutti quelli che, siano studenti che lavoratori, si propongano come meta il socialismo, la democrazia di cui abbiamo bisogno"; Ekkehart Krippendorff, Berlino: "Le società socialiste hanno risolto certe contraddizioni di base insite nelle società capitaliste, hanno espropriato la proprietà privata e i mezzi di produzione, adesso dobbiamo lottare per la loro socializzazione"; Luca Meldolesi, Roma: "Tutti gli studenti universitari sono in rivolta, ma voi vi sbagliate quando parlate di classe studentesca. Fino a quando le università erano fondate sui privilegi della classe che comanda non c'erano problemi, ora vengono ammessi molti più studenti, i quali vengono divisi, distinti, selezionati. Questo ha creato nelle università e nella società capitalista un nuovo potenziale di rivolta"; Tariq Ali, Londra/Pakistan: "Quello che ci unisce è il convincimento che il capitalismo è inumano e ingiusto".
C'è, fra i partecipanti, anche uno spagnolo, Luca Martin De Hijas, che si limita solo a ricordare che nel suo paese il movimento è clandestino, e che il problema essenziale e prioritario è dunque la libertà".
L' analisi - o, se volete, la percezione - secondo cui il maggior benessere prodotto dai successi del neocapitalismo non ha affatto reso obsoleta la contestazione, ma l'ha anzi arricchita di nuovi contenuti - è stata in realtà, in Europa, il vero punto di attrito con i partiti tradizionali della sinistra, segnatamente con il PCI e il PCF, ancora convinti che si dovesse stimolare lo sviluppo produttivo e restare nei limiti del compromesso sociale che era stato strappato nel dopoguerra; e, soprattutto, ancora intenti a ricercare alleanze di tipo frontista, senza vedere che erano entrati sulla scena politica nuovi e diversi soggetti sociali, diventati attivi in rapporto a bisogni e contraddizioni nuove. Innanzitutto gli studenti, che per un pezzo continuarono a chiamare con diffidenza "figli di papà", rivoluzionari improvvisati e irresponsabili, cui cercarono di impedire i rapporti con la classe operaia. Un atteggiamento pagato assai caro, perché persero così l'occasione di raccogliere la grande spinta alternativa che si era sollevata.
Certo, nonostante ovunque possa esser rintracciato questo nocciolo comune, la vicenda sessantottina non si svolse dappertutto in modo analogo. Nemmeno in Europa.
In Italia, per esempio, proprio il giudizio sulla fase storica - se il paese fosse ancora arretrato e dovesse quindi completare la rivoluzione borghese o se invece già fossero dominanti, intrecciate con quelle antiche, le contraddizioni del capitalismo avanzato - era stato un tema molto divisivo all'interno del PCI già prima del 1968. Dette luogo al conflitto fra la corrente di destra del PCI e quella di sinistra, guidata da Piero Ingrao, che portò alla fine alla radiazione dal Partito del gruppo che, portando quella polemica al di là del "lecito", dette vita a Il Manifesto (prima rivista, poi quotidiano, infine anche un partito, il Pdup, entro cui, non a caso, confluì nel 1970 un grosso pezzo del movimento sessantottino).
In Italia le prime manifestazioni cominciarono già nel '67, quando, una dopo l'altra, una serie di Università vennero occupate dagli studenti in polemica con un progetto di legge di riforma - la famigerata Legge 2314 - presentata dal ministro democristiano Gui (che puntava ad una subdola subordinazione degli studi alle imprese). La prima a muoversi fu l'università Cattolica di Milano, un evento significativo perché l'apporto dei giovani cresciuti nelle organizzazioni religiose segnate dall'influenza del Concilio Vaticano II fu assai rilevante. E infatti, oltre alle scuole, furono occupate anche le cattedrali.
Accadde che, mentre si era nel pieno dell'agitazione, venne a Roma, per uno dei rituali incontri col (non amato) Partito Comunista italiano, una delegazione del Partito Comunista francese. Che, stupita per quanto stava avvenendo, rimproverò i "fratelli" italiani, dicendo: "Da noi una cosa simile non potrebbe accadere, perché noi abbiamo il pieno controllo dei movimenti". Mancava solo qualche mese al famoso "maggio francese". Da cui il PCF fu preso alla sprovvista e cui reagì nel peggiore dei modi. Innanzitutto in nome della pretesa di essere il solo titolare della rappresentanza operaia, al punto che la CGT, il sindacato comunista, rifiutò l'incontro con l'UNEF, l'organizzazione studentesca, che lo aveva chiesto per concordare un'azione comune contro il governo. Fino, addirittura, a dare il proprio avallo all'espulsione dalla Francia dell' "anarchico tedesco" Dany Cohn Bendit, il più famoso leader del '68 parigino.
Nonostante gli scontri fra studenti e un sindacato inviperito che si verificarono da subito davanti ai cancelli delle grandi fabbriche anche in Italia, la vicenda nel nostro paese si sviluppò diversamente. Perché c'era un PC diverso, e dunque anche un sindacato, che alla fine si aprirono al contagio e proprio questa contaminazione reciproca consentì la veicolazione delle nuove forme di lotta e dei nuovi contenuti rivendicativi suggeriti dagli studenti. Nel '69, in occasione della straordinaria mobilitazione suscitata dal rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici - quella che fu chiamata "autunno caldo" - una saldatura si era raggiunta. È da quella stagione che nacquero nuove forme di rappresentanza, politiche e non più solo sindacali: i Consigli di Fabbrica, e quelli di Zona, così come una serie di formazioni che durarono nel tempo e contribuirono a coinvolgere tecnici e intellettuali, introducendo importanti cambiamenti, culturali e organizzativi: Psichiatria democratica, Medicina democratica, Magistratura democratica e persino Polizia democratica. E in un primo tempo ebbe anche un importante riflesso parlamentare, perché portò all'approvazione di storiche riforme : lo Statuto dei lavoratori, l'introduzione del sistema sanitario nazionale pubblico, la revisione del sistema pensionistico; qualche anno più tardi, sotto la spinta di un movimento femminista che nel '68 aveva avuto il suo detonatore, il divorzio e poi la legalizzazione dell'aborto.
Il '68 italiano, meno appariscente di quello francese che paralizzò per settimane la capitale, durò però assai più a lungo, sia pure per via delle organizzazioni della nuova sinistra in cui si consolidò già dall'inizio degli anni '70 e che nel '76 approdarono anche, sia pure con una piccola pattuglia, in parlamento con una lista unitaria, Democrazia proletaria.
Ma quello fu anche l'inizio del suo declino, perché il PCI, che pure aveva finito per fruire della spinta a sinistra che il '68 aveva impresso a tutta la società italiana, scelse la sciagurata via del "compromesso storico", un tentativo di accordo subalterno con la Democrazia Cristiana, malamente finito alla fine del decennio. La disillusione, per molti la rabbia per quanto venne considerato il tradimento della sinistra storica, fu una delle cause, non certo la sola, che favorì il drammatico sbocco terrorista.
Il '77, che in Italia venne considerato da alcuni una sorta di secondo '68, portò in effetti a una nuova ondata di manifestazioni nelle università. Ma i contenuti della protesta e le forme di lotta erano cambiate, e quello fu l'inizio del declino e poi della sconfitta: da un lato l'ala della c.d. "autonomia operaia", il cui slogan era "non per il lavoro, ma contro il lavoro", portò a scontri molto violenti e a troncare ogni rapporto reale con le fabbriche; dall'altro, la componente c.d. degli "indiani metropolitani", come risposta all'ulteriore proletarizzazione degli studenti, si rifugiò in una protesta esistenziale sempre meno politica.
In Francia ad essere preso alla sprovvista dal movimento non era stato, del resto, solo il PCF: subito dopo l'esplosione dell'Università di Nanterre, Le Monde scrive che si è trattato di "un nuovo fenomeno atipico e marginale". Poi, invece, arriva l'incendio della Sorbonne, che per un mese - il famoso maggio - paralizza la città, bloccata dalle barricate erette dagli studenti per difendersi dai brutali attacchi della polizia. Inaspettatamente una parte significativa della popolazione simpatizza con gli insorti.
È tutt'ora difficile spiegare come il '68 francese abbia potuto dilagare così in fretta e con tanta forza, fino a innescare una protesta anche operaia che alla fine il sindacato è costretto, nonostante la diffidenza, a legittimare proclamando il grande sciopero generale del 13 maggio. Da cui partono, una dopo l'altra, le occupazioni di fabbriche dislocate in tutto il paese, anche qui assemblee che presentano non poche similitudini con quelle che si tengono nelle Università occupate, fatalmente debordanti i limiti entro cui la CGT avrebbe voluto tenerle. Quanto lega l'esplosione operaia a quella studentesca è una componente libertaria e l'idea che la rivoluzione non sia solo un fatto economico politico ma culturale e morale, che deve produrre una nuova concezione del lavoro, del consumo, della famiglia, che deve generare un nuovo tipo di rapporti fra gli esseri umani. Al centro l'obiettivo - inedito - della felicità. Resa impossibile dall'inciviltà del sistema.
Caratteristico del 68 francese non è solo la virulenza della protesta e però la sua breve durata: è lo straordinario coinvolgimento degli intellettuali e degli artisti. Che c'è un po' dovunque, ma in nessun paese nelle proporzioni della Francia. E che qui, mentre quasi subito si spegne la protesta studentesca e operaia, recuperata in pochi mesi dalle istituzioni, continuerà ad animare a lungo la scena politico-culturale, sia pure producendo conflitti di non poco conto fra i protagonisti: Sartre e gli esistenzialisti da un lato, Althusser e gli strutturalisti dall'altra, per citare solo i nomi più preminenti (Foucault, in Tunisia durante il maggio, entra in scena parecchio più tardi).
Del tutto diversi, ma di enorme importanza, furono gli effetti del '68 tedesco. Anche quello cominciato già prima, inizialmente per merito della riflessione avviata da molti intellettuali aggregati dalla rivista Kursbuch, diretta da Hans Magnus Elsenberger, presto animata dal gruppo studentesco della SDS e dagli Jusos, la irrequieta organizzazione giovanile della SPD. In questo paese l'antiautoritarismo si caricava infatti di significati particolari, perché il tema non poteva non mettere in causa la specifica tradizione prussiana, il militarismo e il nazismo. Fu questo il veicolo che portò la nuova generazione di tedeschi a rompere il velo che era stato steso per quasi due decenni sulla vergogna del passato e a innescare una vera, ritardata, ma potente democratizzazione del paese.
Diverso ancora fu il '68 giapponese, di cui si è sempre parlato poco e fu però movimento molto forte. Ebbi occasione di incontrare i leaders dello Zengakuren a Tokio nel 1969, penetrando grazie ad una parola d'ordine fornitami a Roma, nelle università occupate e difese da manipoli armati di canne di bambù su cui era innescata una lametta da barba. Sapevano già tutto de Il manifesto, sebbene della rivista fossero usciti solo pochi numeri, e nei lunghi colloqui che avemmo cercarono di convincermi che il loro paese viveva una condizione storica molto particolare. Si trattava di una società antica, che era stata modernizzata grazie a uno stupro (proprio così) americano, dunque solo superficialmente. Per questo fragilissima: un atto di violenza - parola che, ricordo, declinavano in tedesco da bravi lettori di Marx, dicendo "Gewalt" - avrebbe avuto l'effetto di un colpetto dato con le dita su un bicchiere di cristallo : il sistema si sarebbe sbriciolato.
Tokyo era sotto la cappa tragica della vicina guerra del Vietnam, al canale USA della radio ininterrotti annunci in codice per le truppe al fronte, in città molti i soldati americani autorizzati a venirvi a passare un weekend di riposo ogni mese, provenienti dalla prima linea, da cui giungevano anche i cadaveri che qui venivano imbalsamati e spediti a casa. "Cosa vuoi - mi dicevano gli Zengakuren - che adesso ci mettiamo a ripercorrere il cammino che avete fatto voi per cent'anni, prima le 8 ore, poi il rifiuto del cottimo, e così via?"
L'illusione di aver trovato una scorciatoia portò molti di loro ad imboccare la strada del terrorismo (ben prima di quanto accadde a fine anni '70 per qualche frangia del movimento in Germania e in Italia ). Ebbi modo di partecipare ad alcuni incontri clandestini con i primi nuclei della Red Army e degli Wetherman americani che qui reclutavano i disertori e poi però finirono, anche loro, per scegliere in patria la via di un disastroso brevissimo terrorismo.
In Giappone l'avventura dissennata della Red Army durò di più: l'ultimo drappello fu sterminato solo qualche anno fa quando i pochi sopravvissuti furono scovati in una capanna nascosta fra le montagne. Gli operai invece non furono toccati dal movimento, e ricordo che continuarono a lungo, quando volevano protestare, ad indossare un bracciale rosso (ne conservo ancora uno) con su scritto "siamo molto arrabbiati". Era il sostitutivo dello sciopero.
E poi c'è stato il diversissimo '68 dell'est Europa. Meno difforme solo in Jugoslavia, dove qualche similitudine ebbe l'occupazione dell'università di Belgrado, ribattezzata in quei giorni "università rossa Karl Marx". Di analogo, altrove - e vista la diversità del contesto non poteva che essere così - c'è solo, nel mondo sovietizzato, una generalizzata insorgenza giovanile, che ridà anima e forza a una protesta popolare che, dopo il '56, era stata messa a tacere, contro un potere burocratizzato e antidemocratico. Come è noto tutto ha inizio nel gennaio del 1968, quando Dubcek assume le redini del PC e del governo in Cecoslovacchia, avviando un nuovo corso che suscita entusiasmo non solo in quel paese, ma anche in tutti quelli del Patto di Varsavia. In Cecoslovacchia si aprono subito inediti spazi di libertà che consentono la contaminazione con la musica, il costume, la letteratura dei sessantottini di oltrecortina. Un'esplosione di speranze brutalmente bruciata dall'irruzione dei carri armati sovietici a Praga il 21 agosto. Significativamente fermati dai ragazzi praghesi tutti "capelloni", che circondano i militari sovietici invitandoli a ballare con loro (lo racconta Umberto Eco, in una memorabile corrispondenza da Praga), gridando ironicamente "Lenin svegliati, Breznev è diventato pazzo" . Un po' per incredulità di quanto sta accadendo, un po' perché quella è la cultura giovanile che è loro arrivata.
Bersaglio dell'invasione di Mosca non sono - come verrà dichiarato anche da non poche altre organizzazioni comuniste ( fra cui quella cubana) - le forze controrivoluzionarie, ma il partito comunista cecoslovacco di Dubcek. Che infatti, già il 22, riunisce il suo congresso straordinario in clandestinità.
Le tesi di quella straordinaria assise riunita in una fabbrica alla periferia della capitale occupata, fortunosamente recapitateci nei mesi successivi, furono pubblicate nel primo numero della rivista Il manifesto, nata pochi mesi dopo; e proprio per via di quanto accaduto a Praga. E' l'esito della rottura che si verifica nel PCI, che ha anche altre motivazioni, ma che proprio su questa vicenda si approfondisce. Il Pci ha, è vero, assunto una posizione di condanna vigorosa, a differenza di altri partiti "fratelli", ma il PCUS viene accusato "per l'errore" commesso, laddove il Manifesto è giunto alla conclusione che quel sistema non è più riformabile. Il gruppo promotore della rivista verrà radiato dal partito e dal '69 si troverà pienamente coinvolto nel movimento del '68, che già sta strutturandosi in una molteplicità di gruppi politici. Scarsissimamente interessati - ecco il fatto sconcertante - a quanto accade oltre la cortina di ferro. In Italia, come nel resto dell'Europa occidentale.
Ricordo ancora, già nei giorni immediatamente successivi l'invasione di Praga, la nostra meraviglia per l'assenza di reazioni che riscontrammo fra una larga parte di giovani sessantottini. Sconvolti eravamo noi comunisti, a loro il clamoroso fallimento sovietico che si registrava, appariva lontano, quasi non li riguardasse. Tutt'al più presero una posizione di equidistanza fra Dubcek e Breznev, sospettosi del nuovo corso cecoslovacco che appariva loro una pericolosa svolta a destra.
Rudi Dutscke è il solo leader sessantottino che si interessò al tentativo riformatore di Dubcek, e infatti nell'aprile si era recato a Praga, poco prima di esser gravemente ferito nell'attentato subito durante una manifestazione a Berlino. Tuttavia osservando che "c'era il rischio di una temporanea esaltazione delle forze democratiche borghesi" e di una "infiltrazione di idee antisocialiste". Altrettanto incerta la posizione assunta dopo l'agosto dalla SDS (Sozialisticher Deuthsche Studentenbund) in un documento di cui 20 anni dopo Dany Cohn Bendit farà autocritica.
In Italia, una dopo l'altra, tutte le pubblicazioni della nuova sinistra, dalle più qualificate come Quaderni Piacentini a Classe e Stato, a Nuovo Impegno, alle pubblicazioni trozkiste, così come il gruppo di Lotta Continua e Potere Operaio, non colsero l'enormità di quanto accaduto. (In un documento di Potere Operaio di Pisa, subito dopo il suicidio di Jan Palak, si ribadisce che nell'analisi "dei nuovi tecnocrati di Praga" ( gli economisti del nuovo corso di Dubcek ) "i modelli neocapitalistici occidentali vengono spregiudicatamente saccheggiati". L'allusione è soprattutto alle proposte antiegualitarie dei riformatori cecoslovacchi laddove in Italia il movimento è impegnato nella lotta egualitaria nelle fabbriche.) Come ricorda uno dei più celebri esiliati cechi,Yri Pelikan, a Roma – scrisse - fui accolto e aiutato solo dal gruppo del Manifesto.
In Francia stessa diffidenza e sostanziale indifferenza, come del resto nel fortissimo '68 della Columbia University di New York, duramente represso (più di 800 gli studenti arrestati). A loro, in piena offensiva del Tet, interessa soprattutto il Viet Nam e dunque denunciare il ministro della difesa del proprio paese che usa la ricerca della Columbia per la guerra imperialista.
Non che questa distanza dal dramma praghese significasse simpatia per l'Unione sovietica. Anzi. Ma la contestazione del regime di Mosca avviene su un alto terreno e in nome di altri popoli, quelli del terzo mondo. Col ‘68 esplode un'altra nuova presa di coscienza: dopo la crisi dei missili a Cuba il mondo sembrava avviato verso una relativa tranquilla coesistenza sotto l'egida sovietico-americana, un equilibrio nel quadro neocapitalista. E invece non è così: il terzo mondo appena decolonizzato in questo quadro non regge, la resistenza vietnamita non è che la punta più avanzata di un sommovimento più generale. E l'Unione sovietica ai sessantottini appare uno dei due gendarmi che pretendono di salvare la pace combattendo ogni sussulto che rischierebbe di turbare il quadro. Pensare di contenere questo subbuglio entro il meschino quadro del piccolo riformismo moderato della sinistra tradizionale è diventato impossibile. In questo senso è vero che il 68, che quasi ovunque contesta lo statu quo imposto dalla concezione che della coesistenza hanno le due grandi potenze, è "cinese", una critica diversa da quella delle generazioni precedenti formate dal pensiero comunista, che vivono drammaticamente la crisi irreversibile del modello sovietico di società.
Non ho parlato in questa schematica ricostruzione del '68 del femminismo. Perché, diversamente da quanto si dice nelle agiografiche celebrazioni ufficiali, il 68 non è stato femminista. Anzi: ancora molto machista, pochissime le donne che parlano nelle assemblee, di solito adibite ai lavori più umili, sì da essere chiamate: "angeli del ciclostile". Il che non vuol dire che il movimento non abbia avuto un impatto sul femminismo che era però nato prima, sia pure nell'ambito di piccoli gruppi, ed è cresciuto quasi ovunque parallelamente e silenziosamente per esplodere solo quattro o cinque anni più tardi. Per effetto del '68, nel senso che quel movimento - che era nato sull'onda di uno scatto di soggettività collettiva - ha dato alle donne il coraggio di prendere la parola. E però quella presa di parola si è rivolta contro le organizzazioni scaturite dal '68, opponendovi la propria problematica rimasta invisibile, fino al punto , in molti casi, di farle deflagrare. È accaduto in Italia con il clamoroso abbandono da parte delle donne di Lotta Continua, la più sorda al loro messaggio; ma con qualche conseguenza anche in un gruppo come il Manifesto-Pdup, che pure con molto anticipo aveva dato spazio sulla rivista - già nel '69 - ai primi passi del femminismo. A metà degli anni '70 parecchi collettivi di donne, sia pure senza astio, scelsero la via della pratica politica separata.
Celebrando nell' Aula Magna della facoltà di lettere dell'università di Roma, storica culla del movimento romano, l'inizio del cinquantenario del 68, Paolo Mieli, all'epoca militante di Lotta Continua, poi diventato presidente del più potente gruppo editoriale italiano, quello che pubblica il Corriere della Sera, ha detto una cosa molto vera. Tornando con la memoria a quella stagione ha parlato soprattutto di quanto importante fu per gli adolescenti di allora l'uscita dalla solitudine, dalla dimensione individuale che il movimento consentì, la felicità della scoperta dell'altro, del fare collettivo, del diventare protagonisti. Del mettersi in gioco, o come si diceva allora, del "portare il Viet Nam dentro di sé". Un dato esistenziale che fu uno dei tratti comuni ed essenziali del 68.
In realtà si trattò della scoperta della politica e, insieme, della soggettività necessaria a praticarla. Ecco: se dovessi parlare di quel che oggi è restato vivo e di quanto è morto del 68, di cosa resti e di cosa non resti - un esercizio cui in questa sede mi sottraggo - proprio questa scoperta di allora mi pare oggi costituire la perdita più grave. La politica non è più considerata felicità. Ne è mutato il significato, impoverito da una crisi della democrazia di terribile gravità. Ecco, questa perdita, è la più grave sconfitta subita dal 68, non l'avevamo prevista.
Rita Di Leo, una sociologa italiana importante, ha appena scritto un libro per il centenario della Rivoluzione d'ottobre, intitolato da "Lenin a Zukenberg". La sua conclusione è che dopo millenni in cui si è cercato di costruire l'uomo politico, cioè sociale, saremmo tornati, per via dei "Khomeinisti dell'algoritmo", all'uomo primitivo, l'uomo a-sociale. E dunque non ci resterebbe che prepararsi alla barbarie. Sono meno apocalittica di lei, e oltretutto non ritengo Zukemberg il solo colpevole. Ma sono preoccupata.
Cosa resta del’68? È la domanda che puntualmente pongono tutti, in particolare quelli che non l’hanno vissuto direttamente. Perché per i protagonisti credo sia più naturale identificarsi nella risposta che a questo interrogativo ebbe a dare Giovanni Arrighi: il ‘68 è stato simile solo a un’altra grande sollevazione, quella dell’Ottocentoquarantotto: due insorgenze generazionali simili e contemporanee, geograficamente trasversali, la prima a tutta l’Europa, la seconda a tutto il mondo. Nessuna delle due ha vinto. Ma dopo di loro il mondo non è stato più lo stesso.