Nel corso dell’ultimo anno, il domandarci come sarà la nostra condizione urbana ha fatto emergere (facili) posizioni bipolari: pro e contro la città, e chi vede una netta linea tra il mondo prima e quello dopo della pandemia. Com’è noto, i fallimenti dell’architettura e dell’urbanistica ci insegnano il valore di una certa prudenza predittiva. Se il Covid-19 produrrà un’innovazione sostanziale e duratura nel tempo delle forme urbano-globali di vita, sarà necessario valutarlo, soppesando trasformazioni di sistemi, di pratiche tanto sociali che culturali. La premessa, dunque, è che sono necessari studi puntuali dei cambiamenti scaturiti dall’urto pandemico per prefigurare scenari urbani di senso, utili ad orientarne le trasformazioni.
Nel rallentare il giudizio, possiamo però affermare che l’emergenza Covid-19 fornisce un espediente utile ad evidenziare alcuni processi già in atto, sottolineando l’impellenza di una presa di coscienza, e quindi di azione, rispetto ad alcune condizioni di base del vivere individuale e collettivo. La domanda centrale che interroga la città, in fondo, è sempre la stessa: come vivere insieme?
Le conseguenze della pandemia al tempo di un mondo ormai prevalentemente urbano tendono a radicalizzare le possibili risposte che proviamo qui a ripercorrere, affrontando alcune dimensioni contraddittorie della città acutizzate dalla pandemia. Le prime riguardano le reazioni che si misurano sulla dimensione estesa dell’urbano, sottolineandone i malintesi linguistici e tecnici. Una seconda riflessione riguarda le misure che si alternano sotto l’impatto di una crescete digitalizzazione e regolamentazione, illuminando incongruenze e pericoli generati nel (ri)definire i concetti di distanza e prossimità. Ciò ci conduce verso un ambito relazionale apparentemente mutilato dalla pandemia soprattutto nei contesti più densi, ma che già si trova in parte compromesso dalla natura stessa della città. Infine, il rapporto tra sicurezza e conservazione di un patrimonio urbano potenzialmente tutto da proteggere, contrasta con la dimensione tanto culturale che vitale che è presupposto degli stessi termini da cui muovono tali pratiche, ordinarie o d’emergenza.
Urbanità, misure, relazioni, patrimoni tracciano quindi un discorso a catena che passa in disamina assunti critici emersi con la pandemia per esplicitarne i punti di giunzione con dinamiche territoriali che hanno origini lontane. Ed è in questo disvelamento che si ravvedono prime aperture operative di quell’orditura intricata che oggi sostiene il vivere comune della città-mondo.
Urbanità. Fuori, dentro, di più
Accusando la città di insostenibilità da un punto di vista del benessere, dell’ambiente, ma anche culturale e sociale, posizioni anti-urbane prefigurano nell’uscita verso “fuori” da esso, vie salvifiche di sopravvivenza collettiva post-Covid-19. Si tratta di convinzioni che si sostanziano anche su atteggiamenti affioranti su contesti geografici, nazionali e internazionali, diversi: dalle gate communities, allo sprawl, a nuove forme ideali di comunità urbane. Se il virus ha infatti evidenziato la fragilità del nostro corpo, il rifiuto della città, di cui queste manifestazioni sono espressione ed a cui si somma l’allentamento dei sistemi di rappresentanza e di partecipazione democratica, evidenzia la crescente difficoltà di vivere la città. Evidenzia, in altre parole, l’essere la città, per ragioni diverse, respingente.
Tali affermazioni, sembrano però non considerare un più interessante dibattito internazionale che nell’ultimo decennio riflette rispetto a come e dove si definisca effettivamente la condizione urbana. Secondo i due studiosi più noti in questo campo di studi, Neil Brenner e Christian Schmid, la processualità e l’interconnessione dei fenomeni urbani fa decadere quella – già critica – dicotomia tra città e campagna, ridefinendo la condizione urbana come ubiqua, planetaria.
Rispetto a questo quadro, sembra utile riesaminare le “fughe dalla città”, registrate in molti contesti nazionali a seguito delle restrizioni per il contenimento del contagio. La fortunata espressione “city quitter”, dopotutto, fa già parte del dibattito mainstream dal 2018. Karen Rosenkranz la introduce per raccontare la crescente preferenza accordata dalla classe creativa – notoriamente portata a scegliere la città – ai territori rurali, contribuendo così alla contaminazione della campagna con modi di vita, capacità e relazioni urbanocentriche. Ad accomunare le riflessioni introduttive della Rosenkranz con quelle presentate da OMA e Rem Koolhaas nel più recente Countryside è la ricerca di una dimensione originale dell’abitare, lontana dalle forme noiosamente familiari delle cities e alla ricerca di un senso nuovo del vivere e forse anche dell’urbano.
Tuttavia, è necessario indagare a fondo su chi siano i protagonisti di questa fuga. I dati odierni raccontano infatti di un vettore in uscita dalla città mosso soprattutto da ceti sociali con capacità economiche o cognitive medio-alte, tracciando i contorni di un fenomeno caratterizzato da un certo elitarismo. Se questo allontanamento, dunque, non sembra riguardare la grande massa urbana, è vero anche che è proprio in questa ricerca di altrove che si manifesta la radicalizzazione dell’urban age.
Un recente articolo su L’Espresso chiarisce che la fuga dalle metropoli dei city quitters nostrani, incoraggiati dalla pandemia, porta con sé un significativo carico di urbano. Secondo l’indagine, infatti, non solo chi sceglie oggi di trasferirsi in campagna non è motivato da scelte lavorative nel settore agricolo, ma soprattutto intende mantenere uno stile di vita e una mentalità cittadina, alimentate attraverso abitudini e relazioni costantemente intessute con la città più prossima e con quelle meglio collegate internazionalmente. L’altrove, sembra quindi collocarsi nello spazio del desiderio, che induce a realizzare progetti di vita individuali ma ricercando un maggiore equilibrio tra l’agire antropico e l’ambiente naturale.
Misure. Sulla distanza, la prossimità e il digitale
La regolazione dei comportamenti indotta dalla pandemia ha ri-acceso il dibattito rispetto ai concetti di distanza e prossimità, di densità e capacità urbana, costringendone un ri-calibramento in relazione alle sfide attuali. È evidente che le nuove geografie dell’urbano che abbiamo richiamato sopra sono rese possibili anche dalla progressiva estensione della rete digitale e dalla pervasività dei processi di digitalizzazione incrementati con le restrizioni imposte dal Covid-19. Secondo Clark ciò sancisce il definitivo ingresso nella nostra quotidianità di una città virtuale che si aggiunge a quella fisica, inaugurando l’ibridazione dello spazio abitato. Sempre più frequente è il ricorso al termine di augmented cities per indicare questa nuova condizione, dove mondo fisico e mondo digitale interagiscono potenziandosi reciprocamente.
Sebbene questa nuova realtà non abbia la forza di sbaragliare le possibilità offerte dalla concretezza dello spazio fisico, essa concorre a modificare il nostro modo di pensare e governare il territorio, alterando e producendo un’ulteriore complessificazione di cosa si intende con prossimità e distanza.
La distanza, il suo rispetto, è divenuto il “gesto” sociale per eccellenza. La mancata rielaborazione di questa idea presenta dunque anche il rischio di un’abitudine verso una condizione di controllo degli ambienti urbani di cui Richard Sennett avverte la persistenza anche quando «avremo i mezzi medici per sopprimere la malattia».
Il distanziamento sociale è stato imposto con regole e norme, vere e proprie prescrizioni assunte come necessarie e indispensabili alla salvezza reciproca. Il rischio è che questa prassi si perpetui e divenga il metro per misurare le nuove distanze con cui abitare la città. Probabilmente, anche per scongiurare questa deriva, sempre Sennett ricorda che la densità e la concentrazione sono costitutive della città e l’effetto di agglomerazione che queste realizzano stimola le attività economiche. Densità e concentrazione sono anche principi essenziali per contrastare gli effetti del cambiamento climatico ma possono non esserlo per assicurare una città sana. Pertanto, lavorare con le distanze e le densità è la sfida di architetti e urbanisti chiamati a ripensare lo spazio urbano per coniugare la salute pubblica con la vita sociale.
Il tema della distanza è quindi complesso, se non contraddittorio. Si pensi ai ritmi urbani che nelle sequenze temporali alternano il diradamento e la concentrazione, come nei trasporti. Si può abitare la distanza e mettersi in sicurezza, ma nel momento in cui ci si sposta necessariamente ci si raduna, e ci si assembra, in un mezzo di trasporto che fa della compressione spaziale la sua efficienza. La formula della città dei 15 minuti mentre si diffonde con crescente successo, porta con sé una sorta di progressivo confinamento nello spazio prossimo facendo venire meno uno dei caratteri essenziali della città: l’esplorazione dello spazio ignoto e non conosciuto, l’esperienza dell’imprevisto, dell’inconsueto.
Prossimità e distanza in questo senso rimandano a questioni più ampie legate ai termini di locale e globale, che Bruno Latour tenta di risolvere ponendo il “terrestre” come terzo attrattore. Una figura che non esclude, nel suo ancoraggio ad una posizione localizzata spazialmente (prossima), aperture globali (distanti) che si trovano espresse nel modo di trascendere identità e confini nazionali. Tradotto in termini operativi, ciò ci riporta alle alternative culturali ma anche tecnologiche fin qui accennate, per governare la transizione della città, ma soprattutto delle sue menti, verso scenari di sostenibilità urbana e sociale.
Relazioni. Sugli altri e sulle tecniche abitative del Mondo
Le nuove condizioni di vita imposte dall’emergenza Covid-19 ci costringono a prendere consapevolezza dei limiti umani del vivere. Fuori dalle strade, dalle piazze, dagli aeroporti, dai treni, da Piazza San Pietro o da Times Square, i confini della casa inducono alle estreme conseguenze i malesseri di una condizione urbana ormai da tempo in deficit: di spazio, di natura, di relazioni. Le già citate fughe verso contesti dotati di più spazio, aria, luce e verde ripropongono la necessità di elementi e qualità dell’abitare già al centro del pensiero moderno, evidenziando la sostanziale anti-modernità dell’architettura e della città attuale.
Emanuele Coccia sulla base di una riflessione che affronta la (in)naturalità degli ecosistemi urbani propone una visione aggiornata della modernità, il cui punto di partenza è la costatazione dell’innato autismo della città, patologia innescata dal completo azzeramento relazionale che essa pone con le forme non-umane del vivente. Città selvaggia, dunque, in virtù di una spietatezza generativa di diverse illusioni, tra cui quelle di autonomia dell’uomo e della sua capacità di dominio sull’ambiente circostante. La relazione è ridefinita dall’autore come «luogo di ogni tecnica», mettendo così in luce una visione allegra della natura che si alimenta attraverso un dialogo interspecifico tra specie diverse. È solo in virtù di questa relazione dialogica che la costante invenzione delle specie diviene possibile, rendendo la natura stessa intimamente tecnica.
Di conseguenza, costringendo all’esilio forme diverse di vita, è la città a risultare priva di questo sapere tecnico, manifestandosi nel suo essere innaturale. L’antidoto (auspicio) suggerito da Coccia riguarda perciò la reintroduzione di questo tipo di relazioni, di elementi di trivialità, nel tessuto sociale della città per aprire la strada a nuove prospettive di modernità e di vita in comune. Non sembri un paradosso o una provocazione ma la diffusione del virus e le azioni di contrasto messe a punto dalla tecnica, fino alla predisposizione di più vaccini e di una campagna vaccinale che si colloca entro gli spazi urbani, sembrano evidenziare una riflessione in questa direzione.
Nella stessa tensione relazionale possiamo collocare la capacità di abitare lo spazio così com’è. Un abitare che è esplorazione, conoscenza e appropriazione del mondo, nel senso di renderlo appropriato per le nostre esigenze e necessità, e non nel senso di esserne proprietari. Esplorazione a cui si richiede una capacità di adattamento del singolo alle condizioni date, motivata da una prospettiva di rigenerazione ecologica radicata su un ripensamento di tempi e modi di stare nell’urbano, trasformandolo.
In questo quadro, la veloce riconquista dell’ambiente da parte di forme non-umane – dall’acqua di Venezia ai pinguini al museo – vissuta durante il lockdown ci mostra nuovi scenari di convivenza, svelando un mondo resiliente perché capace di mostrarsi appena dispone di spazio. Si viene perciò a definire anche la possibilità di un diverso rapporto tra urbano e natura, che già si avverte negli studi interessati al territorio-paesaggio. Non è solo l’urbanizzato in area vasta ma anche nuove definizioni che includono riferimenti alla post-metropoli, alle città territorio che rimandano alla dimensione estesa delle principali città italiane, ma anche agli aggregati urbani distribuiti come filamenti lungo le regioni adriatiche o la costa tirrenica. Si tratta di realtà che costituiscono già una frontiera avanzata di questo intreccio, dove la città ha acquisito una sua natura che però natura non è. È l’espressione di una natura seconda, di un mondo di artifici messi al mondo per abitarlo e che oggi coprono tutto il globo, con alcune aree ormai quasi sature.
Patrimoni. E le mosse tattiche di conservazione e sicurezza
La gestione della pandemia, nota Annalisa Metta, essendo giocata soprattutto sulla modulazione dei corpi e quindi sui divieti nello spazio pubblico, porta alle estreme conseguenze la realtà di una cultura urbana profondamente dedita al divieto. Se, racconta l’autrice, queste logiche attraversano indistintamente le città italiane, l’impossibilità di sedersi a Piazza di Spagna, come pure quella di mangiare seduti a terra e l’obbligo di rispettare i dress code di Venezia, dimostrano soprattutto il fare proibitivo e – paradossalmente – funzionalista dei patrimoni storici urbani. In generale, la tensione verso l’azzeramento dell’incontro spontaneo, improprio, misurato su questi paesaggi di pietra definisce un campo di indagine su cui è utile ritornare a riflettere rispetto alle più ampie questioni che riguardano le città attuali, e soprattutto in virtù degli effetti generati dalla pandemia.
Sebbene l’avversione al cambiamento sia etimologicamente connessa alla conservazione, negli ultimi venti anni la riformulazione dell’idea di paesaggio e di patrimonio (tanto culturale che naturale) capace di abbracciare potenzialmente tutto il globo, come pure il confronto con la progressiva riduzione delle risorse globali, dichiara l’urgenza di un suo approccio dinamico, perché obbligato ad ospitare (proteggere) la vita. Nell’ipotesi di conservazione-trasformazione-valorizzazione di quello che c’è, l’atto di riconoscimento si presenta quindi come atto fondativo, segnando posizionamenti che già sono mosse etiche ed estetiche dell’azione progettuale. È il caso di molti progetti bottom-up, o piuttosto di esperienze, promosse da comunità variamente organizzate e di cui si registra da più di un decennio un crescente interesse internazionale e istituzionale.
Come nella crisi economica del 2008, nella gestione della pandemia l’approccio tattico ha conquistato rapidamente la città disegnando soluzioni troppo poco o troppo a lungo discusse, ponendo dubbi sulla reale possibilità di presa di questi interventi. Tuttavia, la normalizzazione dello stato di emergenza necessario per il contenimento del contagio celebra soprattutto il riconoscimento della natura e del potenziale del progetto effimero in tutte le sfere del vivere. Mettendo da parte giudizi valoriali su architettura-temporanea vs. architettura-architettura (cioè che dura), quello che si vuole sottolineare è come oggi i luoghi pubblici e quelli privati, aperti o chiusi, che siano marcati, dipinti o inibiti, chiamano tutti a partecipare al progetto di convivenza della città. Ritorna, dunque, con l’impegno richiesto alle persone, una dimensione totale dell’urbano e, qui, il senso pieno della fragile architettura cittadina emersa con la pandemia. Antecedenti come la lunga stagione nicoliniana dell’Estate Romana (1976-1985) già dimostrano che l’effimero riguarda un progetto urbanistico complesso. L’ironia che guida il patto tra la gente e la politica romana di quegli anni si salda sulla convinzione che aprire la città al diverso, gioioso e sperimentale sia il miglior antidoto contro la paura, e via preferenziale verso forme protette e sicure di città. È chiaro che la dinamicità di pratiche culturali che spesso incorporano gradi elevati di informalità, come oggi accade sistematicamente nel riuso dei beni culturali del centro storico di Napoli, comportino anche un rischio in termini di preservazione delle stesse opere culturali. Tuttavia, il nostro tentativo è quello di affiancare l’emergere di (e i benefici prodotti da) queste realtà a quegli studi sempre più numerosi che concordano nell’affermare l’impossibilità di operare secondo progettualità mirate a “salvare tutto”. Presupposto che apre alle possibilità di esplorare approcci alternativi ai materiali storici, capaci di agire con maggiore disinvoltura su beni notoriamente iper-regolamentati, per integrare aspetti sociopolitici ed economici che superino le logiche di fruizione meramente turistico-culturale tanto messe a nudo nella loro fragilità dalla pandemia.
Conclusioni. Della città e dei cittadini, o dell’abitarci
Nel rapporto tra pandemia e città bisogna innanzitutto registrare l’effetto di accelerazione che la prima ha giocato nei confronti di spazi di sperimentazione e di innovazione. Le soluzioni predisposte in risposta all’emergenza si sono talvolta imposte con una rapidità inconsueta. Si pensi al rapporto tra casa e luogo di lavoro, o anche alla dislocazione a distanza della didattica, agli incontri in digitale, e ancora alla regolazione nell’uso degli spazi pubblici e degli eventi culturali.
In questo quadro, le contraddittorietà della condizione urbana che abbiamo attraversato in questo testo possono essere intese come una buona traccia per muovere verso nuovi scenari operativi. Nel confermare le intuizioni iniziali rispetto alla necessità di una maggiore riflessività nell’avanzare posizioni soluzioniste e definitorie, gli appunti fin qui tracciati sembrano mostrare due tendenze, apparentemente divergenti, e forse difficilmente conciliabili.
La prima consegue allo scenario planetario ed espanso dell’urbano, dove tutto il vivente si esprime nelle molteplici interrelazioni con il tutto. Se ne deduce che per governare sistemi di tale complessità sia necessaria una più ampia e pervasiva gestione dei dati nella quotidianità del vivere, la cui pervasività può significare una espansione ulteriore della sfera di influenza del digitale e quindi una maggiore ibridazione della condizione urbana. Un sapere sempre più tecnico, che pone il rischio di un suo irrigidimento anche in termini di controllo, come prefigurato da molti. La seconda tendenza trova radicamento nelle scelte degli stili di vita degli individui, con riferimento a quello che viene indicato come nuovo umanesimo, cioè una ritrovata relazione tra l’uomo e il suo ambiente, più consapevole delle implicazioni che l’azione dell’uomo ha sugli altri esseri viventi. Contrariamente allo scenario precedentemente descritto, si intercetta dunque una propensione all’ “allentamento” della presa e delle pretese umane sull’ambiente, spinta dalla necessità / consapevolezza della presenza di altri.
In entrambi i casi, si evidenzia che la domanda costitutiva della città che fa da incipit al nostro saggio – come vivere insieme? – non può più essere limitata e confinata ai rapporti tra i corpi umani e lo spazio, e quindi alle forme di aggregazione che la società ha saputo esprimere. Oggi questa domanda si esplica in relazione alle molteplici connessioni dell’abitare e riguarda l’assunzione di uno sguardo ampio, che si concretizza in capacità progettuali diffuse che devono confrontarsi con le questioni urbane nella loro unitarietà. Un tema non nuovo, già incoraggiato a livello europeo attraverso politiche integrate, criteri di coesione territoriale e di innovazione sociale, la cui applicazione risulta però ancora stentata.
D’altra parte, nell’affrontare riflessioni fortemente radicate in pratiche e attitudini anche antiche dell’urbano, alcune qualità integrative trovano eco nel presente delle nostre riflessioni. Tutte, infatti, suggeriscono che non si tratta di pensare solo spazi, distanze, e segni, ma di diffondere comportamenti, senso comune, resilienza fisica e mentale.
Le urbanità contemporanee pongono in evidenza la possibilità di posizionarsi come cittadini globali pur “atterrando” in contesti e situazioni fortemente localizzate, per combinare misure urbane e concettuali anche divergenti. Similmente, la lezione dell’abitare così com’è induce a considerare legami multilivello, temporali e spaziali, definendo prospettive di adattamento che trovano ragione sulla disponibilità personale e collettiva a collaborare in progetti comuni. Se non è possibile, né forse auspicabile, un ritorno ad abitare un “prima” della pandemia, le contraddizioni misurate in questi ambiti urbani raccontano quindi di un riposizionamento nel mondo nuovo di città secondo un diverso rapporto evolutivo-generativo con l’esistente, che la vuole inclusiva e aspecifica perché abitata dai molti, nei moltissimi modi in cui la realtà si presenta.