SCIENZA E RICERCA

Adriatico. Fragilità, tutela e conservazione

Le barene e le tegnùe, forme naturali emerse e habitat sommersi, ambienti da tutelare, scrigni di biodiversità. E ancora, le seppie, gli squali e le razze, i delfini, le tartarughe. Abbiamo chiuso il secondo episodio di Adriatico introducendo il tema della vulnerabilità e ora, seguendo un ideale filo rosso capace di collegare i temi e le storie, dedichiamo il terzo episodio alla bellezza preziosa e fragile della laguna e del mare, alle specie vulnerabili e maggiormente minacciate, con particolare attenzione all'impegno e agli interventi di protezione e conservazione. 

Barene

"A vederla sembra un'isola, in realtà è una forma naturale tipica del paesaggio della laguna di Venezia - spiega Alberto Baràusse, ricercatore in Ecologia all'università di Padova, che torna a guidarci in questo nuovo episodio -. La barena è particolare perché si trova soltanto nell'intervallo di marea, è solo a questa altezza che la vegetazione, che tollera molto bene il sale, è in grado di crescere. Sopra la quota di marea crescono altre piante, prettamente terrestri, sotto l'intervallo, invece, la sommersione del suolo è così frequente da non permettere la sopravvivenza delle piante di barena".

Sono ambienti molto delicati, affascinanti e ricchi di biodiversità, che devono essere protetti. "Ci sono piante che si trovano solo qui, c'è un endemismo in laguna di Venezia. Sono presenti molti insetti e, nelle acque basse, alcuni uccelli nidificano. Inoltre, vi trovano rifugio piccoli pesci che poi, crescendo, vanno ad alimentare la pesca di tipo tradizionale che si fa in laguna".

Riprese e montaggio: Massimo Pistore

"Le barene sono importanti anche perché sul loro suolo viene sequestrata e poi stoccata una quantità di carbonio incredibile: sono gli ambienti del pianeta Terra che stoccano più carbonio per metro quadro, anche più delle foreste di mangrovie". 

In laguna di Venezia, dove c'è una grande concentrazione di barene, esiste però un grave problema determinato dall'erosione. Questi ambienti "stanno sparendo, principalmente per causa umana": per tutelarli, l'università di Padova ha sperimentato e messo in pratica delle protezioni innovative basate sull'utilizzo di materiali totalmente biodegradabili. Si tratta di interventi di ingegneria naturalistica in cui vengono utilizzati fascine di legno e refluimenti di fango, prelevati in loco per ridurre i costi ed evitare gli impatti ambientali legati al trasporto. Questa combinazione di legno e fango protegge le sponde delle barene e ne riscostruisce piccole porzioni. "Il fango viene poi colonizzato dalla piante di barena: sono le radici stesse infatti a trattenerlo, così non viene trascinato via dalle maree".

Questo nuovo modo di sperimentare la protezione delle barene è stato avviato con il progetto Life Vimine, grazie anche alla collaborazione dei pescatori lagunari, custodi della cosiddetta Conoscenza ecologica locale (Local ecological knowledge) e impegnati nella manutenzione ordinaria delle protezioni e del territorio. "Le barene forniscono all'uomo diversi servizi ecosistemici: stoccano il carbonio, purificano l'acqua dalle sostanze inquinanti e dai nutrienti, moderano il moto ondoso, impedendo a quest'ultimo di fare danni in laguna. Perciò, quando andiamo a conservarle o a ricostruirle, è importante verificare che la biodiversità e questi servizi ecosistemici non vengano intaccati".  

Seppie

A descrivere l'impegno di ricerca e le azioni di intervento per la tutela delle seppie sono Federica Poli, borsista post dottorato, e Federico Calì, dottorando: "La seppia è una risorsa, una risorsa che però negli ultimi anni ha subito un calo [...] la sua biologia riproduttiva è particolare: durante il periodo primaverile si avvicina alle coste per la deposizione delle uova su strutture sommerse, prevalentemente naturali, ma negli ultimi anni anche su substrati artificiali o di nylon, per esempio cime abbandonate o residui di vecchie reti. La pesca della seppia viene fatta proprio nel periodo primaverile con l'utilizzo delle nasse da parte dei pescatori artigianali: sfruttando l'effetto rifugio - questa specie entra istintivamente nelle nasse per deporre le uova e cercare riparo -, le seppie vengono dunque catturate".

Si rende necessario attuare delle scelte che siano in grado di compensare la perdita delle uova che vengono distrutte durante le operazioni di pesca, cercando una soluzione condivisa con i pescatori di mare e di laguna per incrementare la natalità delle seppie per l'anno successivo (si tratta di una specie a ciclo annuale). "Stiamo provando a sfruttare dei collettori per le uova, da posizionare sia all'esterno che all'interno delle nasse, cercando di individuare delle aree di nursery protette, per appenderli e permettere alle uova di schiudersi", racconta Federica Poli. Leader del progetto Sepoline è Chesta, istituto di ricerca di Ravenna, l'ateneo di Padova contribuisce sul campo e a livello scientifico. "Come collettori esterni stiamo utilizzando delle fascine di alloro: non solo il progetto prevede l'utilizzo di materiali biodegradabili, ma risponde a una tradizione dei pescatori che hanno sempre sfruttato gli allori per raccogliere le uova all'interno delle nasse". 


Guarda anche la video novel Dalla parte delle seppie, con la voce narrante di Andrea Pennacchi, che "traduce" in immagini lo studio From Trap to Nursery. Mitigating the Impact of an Artisanal Fishery on Cuttlefish Offspring, condotto da Valentina Melli, Emilio Riginella, Marco Nalon, Carlotta Mazzoldi del dipartimento di Biologia dell'università di Padova, Stazione Idrobiologica di Chioggia, pubblicato su PlosOne nel 2014, grazie al quale è stata testata l'efficacia e l'idoneità di un esperimento pensato per mitigare l'impatto della pesca con trappole sulle uova di seppia nell'Adriatico settentrionale, attraverso il coinvolgimento diretto dei pescatori.

Squali e razze

"Squali e razze sono tra gli animali più antichi che vivono nei nostri oceani, a livello mondiale ne esistono più di mille specie", spiega Licia Finotto, borsista post-dottorato che si occupa di ecologia e conservazione degli elasmobranchi. "Purtroppo di alcune di queste specie si sa poco, perché non sono abbondanti e vivono in aree difficilmente raggiungibili. Tuttavia, anche grazie all'utilizzo della genetica, vengono scoperte in continuazione nuove specie. L'Adriatico ne ospita moltissime, spesso difficili da notare per chi frequenta solo le spiagge perché non si avvicinano alla riva. Nella maggior parte dei casi si tratta di piccole specie che vivono in prossimità dei fondali. Abbiamo però anche squali pelagici, come le verdesche o squali azzurri, squali volpe e anche squali mako". Dopo averli presentati, Finotto sposta l'attenzione sulla loro vulnerabilità: "Oltre a essere affascinanti, sono anche tra le specie più vulnerabili e maggiormente minacciate di estinzione a livello mondiale. E a livello mediterraneo lo stato di conservazione è ancora più critico. Le minacce, che possono andare a ridurne le popolazioni, sono varie: dall'eccessivo sfruttamento da parte della pesca alle catture accidentali, e ancora l'inquinamento, la distruzione degli habitat dove depongono le uova o partoriscono i piccoli, i cambiamenti climatici".

"Essendosi evoluti in assenza di minacce antropiche, iniziano a riprodursi a età e taglie elevate, facendo così aumentare le possibilità di cattura prima della riproduzione". Per questo, in varie parti del mondo, sono state istituite delle aree marine protette. In diverse aree dove invece continuano a essere pescate sono state messe in campo misure gestionali, come l'introduzione di una taglia minima commerciabile o di una quantità massima di squali che può essere catturata e venduta ogni anno".

Parte dei progetti della Stazione idrobiologica D'Ancona si muove in questo senso, puntando alla sostenibilità, studiando in primo luogo la loro biologia, soprattutto quella riproduttiva, oppure monitorandone gli spostamenti. Questo è il caso del progetto Tracking sharks for conservation, che punta anche sulla collaborazione con i pescatori. "Salendo a bordo dei pescherecci, possiamo taggare gli animali per identificarli e poi rilasciarli. Nell'eventualità che questi vengano catturati, per noi sarà possibile rintracciarne gli spostamenti e valutarne il tasso di accrescimento nel periodo trascorso in libertà".

Di pesca sportiva parla invece Matteo Barbato, dottorando che, come Licia Finotto, si occupa di ecologia e conservazione degli elasmobranchi: "Stiamo collaborando con chi fa pesca sportiva, in particolare con chi pratica il drifting. Non è così raro che avvengano delle catture accidentali di squali pelagici e altri elasmobranchi che utilizzano le acque aperte. I dati che otteniamo vengono incrociati con quelli raccolti grazie alle collaborazioni con i pescatori professionisti: questo ci permette di individuare alcuni habitat sensibili utilizzati per il parto e ricostruire gli spostamenti di animali che possono compiere vaste migrazioni".

Carlo Zampieri è un dottorando e si occupa di modellistica ecologica applicata alla conservazione degli elasmobranchi: "Quando si parla di conservazione e di gestione delle attività antropiche che vanno a interferire con l'ambiente naturale è bene sapere che, prima di qualsiasi azione di tutela, va valutata la sua efficacia a lungo termine nell'ambiente in cui si vuole andare a lavorare. Per fare questo è necessario raccogliere dati sul campo e poi metterli insieme in quello che noi chiamiamo modello ecologico, una rappresentazione della realtà, ovviamente un po' semplificata, che, attraverso un software, ci permette di fare previsioni sul futuro ed effettuare esperimenti che altrimenti non sarebbe possibile replicare in un laboratorio".

Cetacei e tartarughe marine

"Nel Mediterraneo esistono otto specie di cetacei, quasi tutti odontoceti, e una specie di misticeti, ovvero la balenottera comune". In questo episodio ritroviamo anche Sandro Mazzariol, docente di Patologia e Anatomia patologica veterinaria, impegnato appunto nella conservazione dei cetacei. "Queste otto specie vivono in tutto il Mediterraneo, a esclusione dell'Adriatico che, per le sue caratteristiche geografiche, consente la vita regolare solo del tursiope". E per quanto riguarda le tartarughe marine? "Nel Mediterraneo ci sono tre specie: due si riproducono all'interno del bacino mediterraneo, mentre una proviene dall'Atlantico. La tartaruga verde e la caretta caretta si riproducono lungo le coste del nord Africa e le coste asiatiche e, soprattutto la caretta caretta, vengono in Adriatico a crescere fino a che non raggiungono le dimensioni utili per la riproduzione". 

"L'Adriatico conta circa seimila tursiops truncatus, la specie residente, che è il classico delfino da delfinario, in tutto il suo bacino: questi animali si muovo liberamente in tutte le acque, separandosi tra Italia e Croazia. Abbiamo invece circa ventimila esemplari di caretta caretta in Adriatico: queste tendono a stazionare prevalentemente tra marzo e ottobre vicino alla foce del Po, perché è un'area ricca di nutrienti".

Di fronte alla foce del Po vivono circa 500 esemplari di tursiope: il monitoraggio avviene dalla barca attraverso la catalogazione delle pinne dorsali, a cui segue un lavoro di confronto per poter identificare gli individui. "Per la caretta caretta gli approcci di monitoraggio sono più complessi, li stiamo mettendo a punto utilizzando droni e altre tecnologie".

I tursiopi e le tartarughe marine che vivono in Alto Adriatico interferiscono frequentemente con le attività antropiche, soprattutto con la pesca. I tursiopi seguono i pescherecci, trovando alimento ma anche potenziali pericoli, con il rischio di rimanere intrappolati nelle reti, "ma la tipologia di pesca che crea maggiori problemi al tursiope è la rete da posta perché questi animali vanno a depredare le reti, strappandole per prendere i pesci e, con il cibo, trascinano parti di rete che possono accumularsi all'interno dello stomaco impedendone l'alimentazione o strozzandoli". Le tartarughe marine sono minacciate dai traini, per esempio le volanti, che lavorano sul fondo. Ma le minacce principali sono costituite dal rumore sottomarino, che abbassa le difese immunitarie di questi animali, e dagli inquinanti dai fiumi, come i pfas, e i batteri che arrivano dagli allevamenti.

"Negli ultimi anni la Regione Veneto ha avviato una collaborazione con l'ateneo di Padova, il Parco del Delta del Po e i pescatori: quest'ultimi vengono formati per eseguire azioni di monitoraggio e per asportare la plastica sul fondo del mare e portarla poi a terra". Sono state inoltre istituite aree protette Natura2000, in costruzione di fronte al Delta del Po, che saranno a disposizione del tursiope e della caretta caretta. L'ateneo padovano si occupa di cetacei e tartarughe marine dal 2002 e nel 2010 ha costituito la Cetacean strandings emergency response team.

Tegnùe

Da dove deriva il nome tegnùe? Nel dialetto locale significa trattenute. Questi affioramenti rocciosi infatti trattengono le reti dei pescatori.

Carlotta Mazzoldi, docente di Biologia marina, li descrive come "ambienti molto ricchi di biodiversità e di specie commerciali e per questo è abbastanza intuitivo comprendere come potessero essere una risorsa importante anche per la pesca". In questi ambienti si possono trovare, infatti, astici, saraghi, corvine. "Sono ambienti ricchi ma anche fragili - ricordiamo che sono affioramenti biocostruiti che possono essere rotti se impattati dagli attrezzi da pesca - e, proprio per proteggerli, è stata istituita una zona protetta a tutela biologica dove sono vietate tutte le attività di pesca e prelievo e dove è richiesta attenzione anche nell'ancorare le barche".


Sull'origine delle tegnùe: lo studio del 2017, pubblicato su Scientific reports, coordinato dall’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Ismar-Cnr), ha visto la collaborazione dell'ateneo di Padova, dell'Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (Ogs), Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e Consejo nacional de investigaciones científicas y técnicas (Conicet) in Argentina.


Botanica marina

"Quando si parla di mare si parla quasi sempre di animali, ma dobbiamo tenere presente che la componente vegetale è determinante: sono organismi che svolgono il processo della fotosintesi e quindi sono in grado di ossigenare i nostri mari", spiega Isabella Moro, docente di Botanica, esperta di biodiversità ed ecologia di alghe e piante acquatiche. "Purtroppo negli ultimi anni abbiamo assistito a una tropicalizzazione dei mari, anche dell'Adriatico, e si è osservato un aumento delle temperature". Con quali conseguenze? "In primo luogo la comparsa di forme non autoctone, mi riferisco soprattutto a delle macroalghe, importate accidentalmente attraverso vari vettori di introduzione, che hanno trovato delle condizioni tali da riuscire ad avere la meglio sulla comunità macroalgale dell'Adriatico, sulle forme autoctone".

Queste forme importate sono molto simili a quelle autoctone e quindi sono difficili da discriminare: "Attraverso studi moderni e approcci molecolari, io sono riuscita a identificare due diverse forme di un'ulva, morfologicamente identiche ma che differiscono per la sequenza genica. Questa forma altamente invasiva è riuscita in alcune aree a sostituire completamente quelle autoctone. Siamo di fronte a un grosso problema di alterazione della biodiversità locale". Grazie alla collaborazione tra l'ateneo padovano e un gruppo di ricerca dell'università del Portogallo, alcuni studi preliminari, che richiederanno ulteriori indagini, "hanno evidenziato però un aspetto positivo, perché le caratteristiche biochimiche di questa forma importata potrebbero essere utilizzate in ambiti legati ad alcune patologie". 

Protagonisti del terzo episodio

Alberto Barausse, ricercatore in Ecologia - Università di Padova. Si occupa di modellistica ecologica e gestione e conservazione degli ecosistemi costieri

Ivan Bognolo, pescatore Laguna centrale

Federica Poli, borsista post dottorato - Università di Padova. Si occupa di ecologia e riproduzione di specie ittiche e pesca lagunare

Federico Calì, dottorando - Università di Bologna (in collaborazione con Università di Padova). Si occupa di gestione della pesca nel mar Adriatico

Licia Finotto, borsista post-dottorato - Università di Padova. Si occupa di ecologia e conservazione degli elasmobranchi

Matteo Barbato, dottorando - Università di Padova. Si occupa di ecologia e conservazione degli elasmobranchi

Carlo Zampieri, dottorando - Università di Padova. Si occupa di modellistica ecologica applicata alla conservazione degli elasmobranchi

Sandro Mazzariol, docente di Patologia e Anatomia patologica veterinaria - Università di Padova. Si occupa di medicina e conservazione dei cetacei

Carlotta Mazzoldi, docente di Biologia Marina - Università di Padova. Si occupa di biologia di specie ittiche commerciali e di pesca

Isabella Moro, docente di Botanica - Università di Padova. Si occupa di biodiversità ed ecologia di alghe e piante acquatiche


Un'idea di Francesca Boccaletto e Massimo Pistore
Riprese e montaggio: Massimo Pistore
Responsabile di produzione: Francesca Boccaletto
Fotografie: Andrea Signori e Massimo Pistore
in collaborazione con Stazione idrobiologica Umberto D'Ancona, Chioggia 
Dipartimento di Biologia, ​Università di Padova

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012