Oscar wilde scrisse che la memoria è il diario che ognuno di noi porta sempre con sé. Dobbiamo però fargli un appunto: può capitare che qualche volta si perda. E questa perdita della memoria, spesso, rientra in una forma di demenza causata dalla malattia di Alzheimer. Pur essendo una malattia piuttosto nota, è altrettanto stigmatizzata e temuta. Le principali preoccupazioni riguardano la sua attuale incurabilità, il grande sforzo dei famigliari del malato per prendersene cura, l’assistere alla progressiva perdita di autonomia, intelletto, memoria. La sindrome di Alzheimer è una malattia piuttosto complessa e variabile di cui la medicina si occupa da molti anni e, sebbene non sia stata trovata ancora una cura definitiva, passi da gigante sono stati fatti dalla ricerca sul fronte del rallentamento della progressione, dell’assistenza al malato e della riabilitazione. Abbiamo parlato di questa malattia con il professor Carlo Gabelli, medico e ricercatore dell’Azienda ospedaliera di Padova e direttore del Centro Regionale per lo studio e la cura dell’invecchiamento cerebrale.
La demenza.
Il termine demenza è generico e indica quel declino delle facoltà mentali che interferisce con le attività della vita quotidiana. La malattia di Alzheimer è solo una delle tipologie di demenza, sebbene la più comune perché rappresenta il 60-70% dei casi. La seconda tipologia per diffusione è invece la demenza vascolare, che si verifica dopo un ictus. Ci possono essere altre condizioni che possono provocare sintomi di demenza, per esempio carenze vitaminiche e disfunzioni tiroidee. La malattia di Alzheimer. Si tratta di una malattia neurodegenerativa che comporta la graduale perdita delle facoltà cognitive, in particolare la memoria ma non in modo esclusivo. Il professor Gabelli specifica che “è diventato il paradigma della demenza perché è la malattia neurodegenerativa più diffusa”. In Italia i pazienti con demenza sono circa 1 milione e 200 mila, di cui si stima che più della metà siano affetti da Alzheimer. Nel mondo le persone colpite sono 50 milioni, ma entro il 2050 si stima che i malati triplicheranno, perché nelle aree geografiche del sud del mondo (Africa, Sud America, estremo Oriente) la popolazione sta invecchiando più rapidamente rispetto all’Europa. Contemporaneamente in altre zone l’incidenza della malattia si sta riducendo e questo restituisce un po’ di speranza per il futuro. Il morbo di Alzheimer colpisce prevalentemente le persone anziane, ma non solo.
Spesso si ritiene che la malattia di Alzheimer, o i suoi sintomi, rappresentino un normale elemento dell’invecchiamento, ma questa credenza non è del tutto corretta. Il massimo fattore di rischio noto è l’aumentare dell’età, e la maggior parte delle persone affette ha più di 65 anni, ma nel 5% dei malati è stata riscontrata un’insorgenza precoce tra i quaranta e i sessant’anni. La malattia di Alzheimer è progressiva, ovvero i sintomi di demenza peggiorano con il passare del tempo. Si è inoltre scoperto che ha una durata estremamente lunga, inizia almeno due decenni prima dei suoi sintomi. I sintomi sono “sono piuttosto subdoli”, sottolinea il professor Gabelli, “ a volte vengono poco notati”, infine ha una durata di almeno 10 anni dopo la diagnosi.
Intervista integrale al professore Carlo Gabelli. Servizio di Elisa Speronello
Le cause.
“Stiamo comprendendo gradualmente la causa della malattia di Alzheimer. Pensavamo di sapere quasi tutto qualche tempo fa, ma abbiamo capito che ha delle basi molto più complesse” dice il professor Gabelli riguardo i motivi dell’insorgenza della malattia. In un passato recente la ricerca scientifica si è concentrata sui depositi della proteina beta amiloide, poiché ritenuti connessi con la malattia, quindi sono stati elaborati dei farmaci che però non hanno portato ai risultati sperati. Quindi si è capito che i depositi della proteina sono rilevanti, ma rappresentano l’unica fase della malattia.
I sintomi.
Il sintomo più comune e noto è la perdita di memoria, soprattutto delle informazioni apprese recentemente. Con l’avanzare della malattia i sintomi si aggravano fino ad arrivare al disorientamento, ai cambiamenti di umore e di comportamento; ci possono essere sospetti infondati relativi ai famigliari o amici, allucinazioni, confusione mentale sempre più marcata. Infine, oltre a non riconoscere più familiari e amici, il malato può avere difficoltà a parlare, deglutire e a camminare.
La diagnosi.
La diagnosi della malattia avviene sia a livello clinico che a livello strumentale. Oltre ai sintomi guida che fanno sospettare l’esistenza di un disturbo cognitivo serio, ci sono dei test psicologici, tarati per età, che danno una valutazione quantitativa delle diverse aree cognitive (attenzione, memoria, funzioni visospaziali, etc). Inoltre ci sono le tecniche di neuroimaging che permettono di vedere se il cervello è in sofferenza per varie cause, vascolari o di altro genere, o se sta andando incontro a un’atrofia precoce. Alle tecniche di imaging tradizionale si sono aggiunte tecniche di neuroimaging avanzato con cui si va a vedere come funziona il cervello, quanto glucosio consuma nelle diverse aree, o se c’è un accumulo della proteina beta amiloide. Da qualche anno sono disponibili dei traccianti specifici della beta amiloide e quindi è possibile capire se il paziente ne ha un quantitativo anomalo accumulato nel cervello. Infine sono disponibili dei test biologici e genetici che permettono di conoscere il rischio genetico e se sono già presenti delle quantità anomale di proteine connesse con la neurodegenerazione.
Le cure.
“Al momento non abbiamo dei farmaci risolutivi” spiega Gabelli, ma sono disponibili dei farmaci che, seppur non riescano a bloccare l’evoluzione della malattia, possono agire sui suoi sintomi. “Siamo in attesa della decisione delle autorità americane su una molecola che potrebbe essere molto utile in certe circostanze”, continua il direttore del CRIC di Padova, “ma non mi aspetto che sia totalmente risolutiva. Quindi dovremmo avere più strategie, tra cui quelle di prevenzione”.
“ Bisogna tenere conto che studiare il cervello ha un alto grado di complessità, lo possiamo esplorare solo in modo indiretto attraverso le tecniche di imaging, o con dei campionamenti biologici, perché è chiuso in una scatola professore Carlo Gabelli, direttore del CRIC di Padova
La prevenzione.
Prevenire la malattia di Alzheimer è diventato il punto cardine, viste le stime di aumento dei casi e visti i limiti delle terapie farmacologiche attualmente disponibili. Dalla Finlandia uno studio ha dimostrato che unendo attività fisica, stimolazione cognitiva, alimentazione corretta e prevenzione del rischio dei fattori cardiovascolari (ipertensione, diabete, dislipidemia), il rischio di sviluppare la malattia diminuisce del 30% L’attività fisica, praticata almeno 3 ore alla settimana, produce delle sostanze antinfiammatorie che causano un miglioramento del funzionamento del cervello.
La ricerca.
Dopo un periodo in cui si è focalizzata su alcune molecole che non si sono rivelate utili, o solo in parte, la ricerca sta facendo molti passi avanti, ma “bisogna tenere conto” sottolinea il professor Gabelli, “che studiare il cervello ha un alto grado di complessità, lo possiamo esplorare solo in modo indiretto attraverso le tecniche di imaging, o con dei campionamenti biologici, perché è chiuso in una scatola e non possiamo averlo sempre sottomano”. Un’ulteriore fonte di complessità è data dalla lunghezza della malattia. Partendo da queste considerazioni, la ricerca è riuscita a identificare alcune dinamiche fondamentali della malattia, come il ruolo della proteina beta amiloide, della genetica e dell’infiammazione generale. Gabelli guarda positivamente al futuro della ricerca: “Abbiamo capito meglio alcuni meccanismi fondamentali, ora dobbiamo mettere in pratica queste conoscenze con strategie farmacologiche per ridurre la malattia”.
Intervista integrale alla professoressa Donata Gollin. Servizio di Elisa Speronello
Altri tipi di terapia. Proprio perché non è ancora stata trovata una cura definitiva alla malattia di Alzheimer, molto è stato fatto per rallentare lo sviluppo della malattia e per alzare la qualità di vita dei malati in termini di terapie non farmacologiche. Oltre all’attività fisica, che ha dimostrato importanti risultati sulle dinamiche di riparazione del tessuto cerebrale, e all’influenza di una sana alimentazione sulla progressione della malattia, molto efficace è la riabilitazione cognitiva. Ne abbiamo parlato con la logopedista Donata Gollin, che al Centro regionale per lo studio e la cura dell’invecchiamento cerebrale di Padova. “Per questo tipo di malattie”, sottolinea la professoressa, “non ci sono soluzioni definitive, quindi la guarigione non è l’obiettivo, però guarire e curare non sono sinonimi”. L’obiettivo della riabilitazione cognitiva quindi non è ripristinare una funzione persa, ma valorizzare le capacità presenti e mantenerle, preservando anche il valore umano e sociale del malato. Questo tipo di terapie hanno faticato a trovare riconoscimento tra i pazienti e chi si occupa di loro, proprio perché, inizialmente, il malato veniva considerato “senza speranza”. La professoressa racconta che ha dovuto faticare per convincere le resistenze dei familiari, quando nei primi anni 2000 ha iniziato il suo lavoro. Attualmente le resistenze sono cambiate: oggi tenere in forma il cervello è “un po’ come tenere in forma il corpo, e quindi trovo una ricettività molto diversa”.
Il nostro cervello, non solo quando si è neonati, ha bisogno di stimoli continui. In alcune età della vita gli stimoli cominciano a diminuire, nel pensionamento per esempio. Ma ogni paziente è un universo a sé, quindi ha bisogno di diversi tipi di stimolazione e per questo motivo la seduta di riabilitazione è cucita sul paziente e sulle sue necessità.