CULTURA

Anche i campioni piangono

Conosciamo più o meno tutti lo schema utilizzato nelle biografie dei calciatori e degli sportivi in generale: somiglia un po' a quello delle favole, dove c'è un eroe che si stava facendo i fatti suoi, magari in una favela o in una scuola dove tutti lo prendevano in giro per le sue origini. Ma poi la svolta: viene folgorato sulla via di Damasco da uno sport X, che lo salva dal destino Y, fosse anche quello della mediocrità. Il fato gli mette di fronte sfide difficili ed esperienze dolorose, ma alla fine l'eroe vince e arriva nell'Empireo letterario sportivo. È uno schema che funziona, perché, sotto sotto, a chi non piacciono le favole?

I redattori di l'Ultimo Uomo, però, non si sono accontentati, e sono andati in cerca di quegli sportivi che la narrativa ha lasciato indietro: quelli che, pur arrivati a vette inarrivabili, sono caduti, con la stessa intensità. E infatti hanno scritto un libro, edito da Einaudi, che porta proprio il titolo "La caduta dei campioni", con il sottotitolo “Storie di sport tra la gloria e l’abisso”. Dieci storie, scritte da dieci penne diverse, il cui protagonista, gira e rigira, è il baratro. Il baratro da cui cercava di fuggire Adriano, che ha preferito tornare nella sua favela piuttosto che stare in un mondo ai nostri occhi più confortevole, che però lui non riusciva a capire. O il baratro in cui è caduto Marco Pantani dopo l'esclusione, mai del tutto chiarita, dal Giro d'Italia del 1999. Il baratro, in generale, in cui si cade quando la mente diventa più potente del corpo, quando l'autodistruzione si trasforma, chissà perché, in un'opzione seducente.

Non è che pensiamo che i campioni non siano esseri umani. Ce la ricordiamo la faccia di Fazio dopo l'infortunio, sappiamo che anche i campioni piangono perché dopo la semifinale degli Europei 2000 abbiamo visto abbiamo visto tutti le lacrime dei giocatori della nostra Nazionale. È che, chissà perché, ci sembra una posa. Non ci aspettiamo che un giocatore, stella del Barcellona, con un esordio migliore di Messi, possa essere così piegato dalla pressione da finire a giocare in una semi-sconosciuta squadra canadese, come è successo a Bojan Krkić.

Riusciamo a immaginarci un calciatore che piange, ma la nostra immaginazione fa più fatica quando deve proiettarne uno che soffre di attacchi di panico: la stampa lo critica, il sistema-calcio lo abbandona: forse rappresenta qualcosa di troppo scomodo da affrontare. E allora eccolo al Montréal Impact, senza doveri e strette armature, e senza l'umiliante ipocrisia dell'eroismo come diceva Ghiannis Ritsos parlando di Achille, che solo dopo la morte trova la libertà dal suo ruolo di eroe.
Per fortuna, Bojan Krkić una via d'uscita l'ha trovata anche prima: perché a cosa ti serve essere uno dei più grandi se poi hai la nausea e ti sembra di morire ogni volta che scendi in campo? Il Canada non avrà il Camp Nou, ma puoi giocare ed essere felice. Se è più o meno importante, non sta a noi dirlo.

Le storie di sportivi de l'Ultimo Uomo non si limitano al calcio: certo, si parla di George Best (ebbene sì: c'è ancora qualcosa da dire su George Best), ma anche di Marat Safin, il politico tennista, di Andrea Bargnani, il cestista italiano più fischiato dell'NBA, e di Rūta Meilutytė, la nuotatrice lituana che a soli 15 anni ha vinto un oro olimpico per i 100 metri rana, e che a soli 22 ha scelto di ritirarsi, dopo aver lottato contro la depressione. Si torna al calcio con Cassano e i suoi problemi di comportamento per i quali si gioca una carriera a dir poco promettente, con Paul Gascoigne stroncato professionalmente dall'alcolismo, con Morfeo, che dopo aver segnato il segnabile in serie A chiude la carriera in seconda categoria, e dopo il ritiro apre un centro commerciale.

Si parla, soprattutto, di quel qualcosa che ti scava dentro, perché sei bravo ma non riesci a gestirlo. Con questo libro l'Ultimo Uomo ci fa vedere cosa c'è al di là delle luci degli stadi, degli attici in centro a Milano e delle prime pagine dei giornali: nulla di nuovo sotto il sole, perché le emozioni, le paure e le angosce sono sempre le stesse, per un operaio o per un calciatore. Possiamo farcele amiche, imparare a gestirle, ritrovare il gusto della vita in una squadra sconosciuta o nella cucina di un fastfood, oppure possiamo bruciarci. L'unica differenza è che i campioni cadono da più in alto.

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