SCIENZA E RICERCA

Anche i Nobel sbagliano

Sono profondamente dispiaciuta nell’annunciarvi che abbiamo ritirato il paper dello scorso anno sulla sintesi enzimatica dei beta-lattamici. Il lavoro non era riproducibile”. Poche parole affidate a un paio di tweet. “È doloroso ammetterlo, ma è importante farlo. Mi scuso con tutti. Ero un po’ occupata quando abbiamo sottoposto lo studio e non ho svolto bene il mio lavoro". A scrivere è Frances H. Arnold, premio Nobel per la chimica nel 2018, che condivide quanto accaduto.

Lo studio in questione era stato pubblicato su Science nel maggio del 2019 con il titolo Site-selective enzymatic CH amidation for synthesis of diverse lactams e descriveva delle molecole utilizzabili per produrre antibiotici beta-lattamici. A distanza di alcuni mesi, all’inizio del nuovo anno, Inha Cho, Zhi-Jun Jia e la stessa Arnold, autori della ricerca, ritirano l’articolo spiegandone le ragioni. “I tentativi di riprodurre il lavoro hanno dimostrato che gli enzimi non catalizzano le reazioni con le attività e le selettività descritte. Un attento esame degli appunti di laboratorio del primo autore ha poi rivelato voci mancanti e dati grezzi per esperimenti chiave”. 

La notizia si è diffusa rapidamente e l’assunzione di responsabilità – come dimostrano gran parte delle risposte in rete – è stata apprezzata: leggere il tweet di un premio Nobel che ammette di aver ritirato un paper, scrive qualcuno, insegna quanto sia importante per uno scienziato essere onesto sui dati che pubblica.

Tutti possono sbagliare, anche un Nobel – commenta Paolo Scrimin, docente di chimica organica all’università di Padova –. Non è da tutti, invece, avere il coraggio di ammettere i propri errori. La Arnold avrebbe dichiarato di aver omesso il controllo necessario sui dati che gli venivano presentati dai suoi collaboratori in laboratorio e giustifica la mancanza con la concomitanza del premio Nobel. Quanto accaduto, tuttavia, non toglie nulla alla ricerca che la scienziata sta conducendo e al valore dell’importante riconoscimento ricevuto”. Aggiunge Scrimin: “È proprio della scienza sbagliare e correggere i propri errori. Lo scienziato sa per definizione che ciò può accadere, e questa è la ragione per cui deve mettere in atto una serie di iniziative e controlli per prevenire l’errore: una volta condotta la ricerca deve essere in grado di riprodurla e verificare che tutto sia stato svolto in maniera corretta. La scienza è una risorsa collettiva, non del singolo scienziato: una volta che uno studio viene pubblicato in una rivista scientifica diventa patrimonio comune”.

La riproducibilità di un esperimento è alla base della pratica scientifica, sottolineava Telmo Pievani in un editoriale di qualche tempo fa. “È un modo con cui si possono controllare i dati e renderli disponibili per ulteriori ricerche. È una questione di trasparenza, perché si rende accessibile la procedura che ha consentito di arrivare a un determinato risultato. La riproducibilità degli esperimenti nella scienza è anche alla base della fiducia che i colleghi e il pubblico nutrono rispetto al lavoro svolto”.  Già nel Novecento Karl Popper ne La logica della scoperta scientifica individuava in questo modo di procedere, che descriveva in maniera puntuale, il fondamento del metodo scientifico.

Nonostante queste premesse, tuttavia, secondo uno studio pubblicato nel 2016 dalla rivista scientifica Nature, su 1.576 ricercatori (il campione che ha preso parte all’indagine) più del 70% non sarebbe riuscito a riprodurre esperimenti di un altro scienziato e più della metà i propri. Se il 52% degli intervistati era d’accordo nel ritenere che vi fosse una “crisi” significativa di riproducibilità, meno del 31% pensava che l’impossibilità di replicare i risultati pubblicati corrispondesse a dati sbagliati. Due anni dopo, nella stessa direzione sembrava andare anche uno studio pubblicato su Nature Human Beahavior.

Le ragioni per cui un esperimento non è riproducibile possono essere molte. Possono subentrare delle variabili (impurità, ad esempio) di cui il ricercatore non è a conoscenza; oppure lo scienziato può non aver pubblicato tutti i dati necessari per riprodurre l’esperimento; o, ancora, può aver commesso errori materiali. “Il mio maestro – racconta Scrimin – era solito farmi una raccomandazione. Quando prendi una bottiglia di reagente dallo scaffale, mi diceva, leggine il nome e rileggilo quando lo appoggi sul tuo bancone di lavoro: scoprirai che un certo numero di volte il nome è cambiato”. L’errore può accadere, per questo l’esperimento va ripetuto. Ben diversi invece sono i casi in cui vengono “aggiustati” i dati per ottenere i risultati attesi o si compiono vere e proprie frodi. In queste circostanze riprodurre gli esperimenti diventa impraticabile.       

Scrimin conclude con una osservazione. In ambito accademico, sottolinea, esiste una forte pressione alla produttività scientifica. Serve pubblicare un numero elevato di lavori e questo in alcuni casi potrebbe compromettere gli opportuni controlli che uno studio richiede. Può capitare che un ricercatore dia conto di un dato in una rivista scientifica, pur avendolo ottenuto nel corso di un solo esperimento. Ma un singolo esperimento non consente di verificare tutte le variabili coinvolte. 

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