CULTURA

Un anno dalla morte di Philip Roth: l’arma della scrittura continua a combattere

Per quanto potesse sentirsi spoglio e indifeso, tra le sue mani stringeva un’arma affilata, tra le più potenti e pericolose di sempre: l’alfabeto. “È quanto mi hanno dato al posto di un fucile” sosteneva. A un anno dalla morte di Philip Roth, i proiettili usciti dalla sua penna non hanno smesso di centrare il bersaglio.

Il nome di Roth è uno di quei collegamenti imprescindibili che salgono alla mente quando si parla di letteratura americana, è indubbio infatti il solco che questo autore ha lasciato negli ultimi decenni con i suoi scritti, grazie ai quali è riuscito contemporaneamente a portare avanti e a rinnovare la tradizione del romanzo realista americano. Il realismo di Roth non è soltanto uno strumento posto a riflesso di una società contemporanea, ma è anche e soprattutto uno strumento in grado di fornire all’autore e al lettore una prospettiva critica.

Il suo esordio avviene nel lontano 1959 con Goodbye, Columbus, primo di una lunga serie di successi che comprende romanzi, racconti e saggi. Fin da subito la voce di Roth si rivela potente, senza peli sulla lingua, decisa a scavare e a mostrare le contraddizioni della sua America. La tensione fa sempre da protagonista nelle sue storie, quasi come a voler far esplodere quello strato protettivo che cela tutto ciò che rischia di frantumare il mito americano. Ed è così che questo giovane ragazzo di origini ebraiche inizia a scaraventare sulla carta tutti i vizi, gli eccessi, i tabù di un Paese che al contempo esercita su di lui fascino e repulsione.

Negli oltre trenta libri pubblicati si può senz’altro riconoscere un percorso evolutivo: ogni nuovo personaggio porta con sé qualcosa del suo autore, e via via l’irriverenza che li accompagna si fa più matura, fino a divenire saggezza, come nel celebre romanzo Pastorale Americana, che portò Roth a vincere il premio Pulitzer nel 1997.

I’m interested in what people do with the chaos in their lives and how they respond to it, and simultaneously what they do with what they feel like are limitations. Philip Roth

Non c’è spazio per un eccessivo sentimentalismo, quello che importa davvero è capire, interpretare, dare un senso al comportamento dell’uomo, e per farlo occorreva immergersi nelle vite borghesi e apparentemente banali dei personaggi portati sulla carta. Personaggi che si rivelano sempre connotati da una complessa vena introspettiva, che di volta in volta li conduce e li costringe all’affronto di un irrisolto che viene dal passato.

Dopo decenni di estrema produttività, nel 2012 l’autore decide di dare un taglio netto alla sua attività e in un’intervista alla rivista francese Les Inrockuptibles dichiara: “Ho deciso che ho chiuso con la narrativa. Non voglio leggerla, non voglio scriverla, e non voglio nemmeno parlarne”. Una fine brusca, ma fortemente sentita come necessaria, punto d’arrivo di una lunga carriera costellata di premi e riconoscimenti. Un’unica mancanza: l’agognato Premio Nobel che per tanti anni era sembrato a portata di mano. Di questo Nobel mancato si è tornati a parlare lo scorso anno, quando l’autore è venuto a mancare, proprio nell’anno in cui l’Accademia di Svezia ha preso la decisione di non conferire il Premio Nobel per la Letteratura in seguito agli scandali per molestie sessuali che avevano coinvolto la stessa istituzione. A prescindere da questa mancata vittoria, quel che è certo è che l’arma della sua scrittura continuerà a colpire.

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