SCIENZA E RICERCA

Antibiotico resistenza: un rischio globale da fronteggiare e l'Italia è molto esposta

La scoperta degli antibiotici, poco meno di un secolo fa, e la possibilità di sintetizzarli hanno rappresentato un momento di svolta nella storia della medicina: molte infezioni batteriche che in precedenza erano spesso letali o capaci di provocare danni permanenti oggi sono diventate malattie di lieve entità, facilmente risolvibili attraverso qualche giorno di cure. Allo stesso tempo hanno reso molto più sicuri gli interventi chirurgici, consentendo di controllare i rischi di infezione post-operatoria.

Da qualche anno però l’efficacia di questi farmaci è messa sempre più a rischio dai fenomeni di resistenza che si verificano quando il microrganismo responsabile di un’infezione acquisisce la capacità di sopravvivere e moltiplicarsi nonostante la somministrazione di antibiotici che in precedenza si erano dimostrati capaci di debellarlo. I rischi per la salute sono elevati, soprattutto perché in alcuni casi i batteri si dimostrano multi-resistenti, cioè capaci di evadere più categorie di antibiotici, compresi quelli di ultima generazione.

Il problema riguarda da vicino anche l’Italia dove la resistenza agli antibiotici si mantiene tra le più elevate in Europa e tra i paesi ad alto reddito: secondo i dati più recenti pubblicati dall'European Centre for Disease Prevention and Control circa 11 mila dei 33 mila morti che l'antibiotico resistenza provoca ogni anno su scala europea si registrano proprio nel nostro paese. 

Ed effettuando le sistemazioni necessarie per rapportare i numeri alla popolazione (siamo il terzo paese per totale di abitanti dopo Germania e Francia), si scopre l'Italia è al secondo posto dopo la Grecia come carico complessivo di infezioni da batteri resistenti agli antibiotici, compreso il numero di decessi, ogni 100.000 abitanti. 

Già da alcuni anni l'Organizzazione mondiale della sanità ha definito l'antibiotico resistenza uno dei principali problemi sanitari su scala globale, prevedendo che entro il 2050 potrà essere responsabile di 10 milioni di decessi diretti in più all'anno, pari al totale mondiale delle morti per cancro che si sono registrate nel 2020. La stima è quindi che possa diventare la prima causa di decessi al mondo e che possa implicare costi superiori ai 100 trilioni di euro. 

Nei giorni scorsi un nuovo rapporto pubblicato dal Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP) ha confermato le previsioni precedenti: il documento è stato presentato durante il sesto meeting del Global Leaders Group on Antimicrobial Resistance che si è svolto alle Barbados e nell'occasione Mia Mottley, primo ministro del paese ospitante, ha ricordato che il fenomeno "sta colpendo in modo sproporzionato il sud del mondo ed è un altro esempio di iniquità".

Il rapporto, intitolato Bracing for Superbugs: Strengthening environmental action in the One Health response to antimicrobial resistance, contiene già nel titolo il riferimento a quell'approccio integrato che considera la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente come dimensioni profondamente connesse tra loro. La resistenza agli antibiotici ha infatti diverse cause e se i meccanismi con cui un patogeno cerca di sopravvivere e moltiplicarsi anche in presenza di un eventuale trattamento terapeutico rientrano nel quadro delle strategie di adattamento di ogni microrganismo, il processo assume connotati molto preoccupanti quando la pressione selettiva favorisce l’emergere, la moltiplicazione e la diffusione dei ceppi resistenti. Se consideriamo che i geni di resistenza possono trasmettersi anche a batteri di specie diversa, attraverso meccanismi di trasferimento orizzontale che fino a qualche anno fa erano sconosciuti, e se a questo aggiungiamo che anche i viaggi internazionali possono svolgere un importante ruolo nella diffusione trasversale di questi geni è facile comprendere perché gli esperti guardano con molta preoccupazione i dati dell'antibiotico resistenza. 

A proposito di numeri il Global Research on Antimicrobial Resistance pubblicato sulla rivista The Lancet ha analizzato i dati provenienti da 204 paesi concludendo che nel 2019 sono morte 1,27 milioni di persone per infezioni batteriche comuni che sono diventate antibiotico-resistenti. A questa cifra si aggiungono quasi 5 milioni di decessi riconducibili a questo tipo di infezioni, pur non essendone una conseguenza diretta. Considerando tutte le età, il tasso più elevato di mortalità attribuibile alla resistenza è stato riportato nell’Africa subsahariana occidentale (27,3 decessi per 100.000 abitanti) e il più basso in Australasia (6,5 decessi per 100.000 abitanti). 

Il fenomeno riguarda da vicino non solo la medicina umana, con l'uso eccessivo e talvolta improprio di antibiotici, ma anche il settore zootecnico e veterinario dove la massiccia somministrazione di farmaci negli allevamenti rischia di favorire la comparsa di batteri resistenti capaci poi di trasmettersi all'uomo sia per contatto diretto o mediante alimenti di origine animale, sia in modi indiretti attraverso più complessi cicli di contaminazione ambientale. Con il piano d'azione che copre il periodo 2021-2025 anche la Fao ha messo a punto un documento che sottolinea la necessità di un cambio di passo in ambito agricolo e zootecnico. "La possibilità di nutrire in modo sostenibile di una popolazione globale in espansione dipende da quanto bene proteggiamo i nostri sistemi alimentari dalle crescenti minacce. Ciò è particolarmente vero quando si tratta di gestire la resistenza antimicrobica che sta rapidamente diventando una delle maggiori minacce in termini di impatto sulla vita, mezzi di sussistenza ed economie", si legge nel testo. 

Alla visione One Health è ispirato anche il Piano nazionale di contrasto all'antibiotico resistenza 2022-2025 approvato il 30 novembre scorso in Conferenza Stato-Regioni e pubblicato pochi giorni fa. Per raggiungere i sei obiettivi generali sono stati stanziati 40 milioni di euro all'anno e prevede anche interventi mirati alla prevenzione e alla formazione del personale medico e all’assunzione di personale specializzato per la gestione dei focolai in ambito ospedaliero. C'è poi il capitolo dedicato al settore animale dove viene somministrata oltre la metà degli antibiotici consumati in Italia, un dato molto superiore alla media europea. 

Abbiamo ragionato sulla situazione italiana insieme a Fortunato "Paolo" D'Ancona, epidemiologo e ricercatore dell'Istituto superiore di sanità, per capire quali siano le ragioni che portano il nostro paese ad avere i dati resistenza agli antibiotici tra i più elevati in Europa e quali strategie possono essere perseguite per provare a contenere il fenomeno. 

La sorveglianza nazionale del sistema AR-ISS: i dati 2021 

In Italia, a partire dal 2001 l’Istituto superiore di sanità coordina il sistema di sorveglianza dell’antibiotico-resistenza per quanto riguarda l'ambito umano. Come si legge nell'introduzione all'ultimo rapporto il sistema "si basa su una rete di laboratori ospedalieri di microbiologia clinica che inviano annualmente i dati di sensibilità agli antibiotici (ottenuti nella routine di laboratorio) per alcuni patogeni rilevanti dal punto di vista clinico ed epidemiologico". Attraverso AR-ISS, l’Italia partecipa alla sorveglianza europea EARS-Net (European Antimicrobial Resistance Surveillance Network) coordinata dall’European Centre for Disease Prevention and Control che raccoglie dati di antibiotico-resistenza di 29 Paesi europei. 

Nel 2021, alla sorveglianza nazionale AR-ISS hanno partecipato 138 laboratori (erano 153 nel 2020) distribuiti in 20 Regioni/Province Autonome (la Campania non ha partecipato alla sorveglianza). I dati del 2021 sono i più recenti che si hanno a disposizione e sono stati presentati lo scorso 18 novembre in occasione della Giornata europea sull’uso consapevole degli Antibiotici.

I patogeni sotto sorveglianza sono 8, gli stessi che vengono monitorati dalla rete europea. In particolare si tratta di Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis e Enterococcus faecium tra i batteri Gram-positivi ed Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter species tra i batteri Gram-negativi. 

In Italia le percentuali di resistenza alle principali classi di antibiotici per gli 8 patogeni sotto sorveglianza sono rimaste elevate anche se si intravede qualche segnale positivo.

"Ci sono buone e cattive notizie: le prime è che sebbene sia vero che i nostri dati di antibiotico resistenza sono sempre molto alti rispetto alla media europea, per la maggior parte dei patogeni nel 2021 è stato registrato un leggero calo, ad eccezione di alcuni Gram-negativi come gli Acinetobacter e gli Pseudomonas aeruginosa, patogeni responsabili soprattutto di gravi infezioni correlate all’assistenza", commenta D'Ancona.

Un confronto con i dati europei 

Come anticipato in precedenza, i numeri italiani dell'antibiotico resistenza sono particolarmente preoccupanti. Secondo l'ultimo rapporto dell'Ecdc, che ha preso in esame il periodo tra il 2016 e il 2020, nel nostro Paese muoiono ogni anno 19 persone ogni 100 mila abitanti a causa di infezioni che non si riescono a curare con gli antibiotici. Il dato ci colloca al secondo posto dopo la Grecia dove si stimano 20 decessi ogni 100 mila abitanti, mentre al terzo posto c'è la Romania con 13 decessi ogni 100 mila abitanti.

Dal documento emerge inoltre che, tra il 2016 e il 2020, il numero di infezioni da batteri resistenti è aumentato significativamente su scala europea passando da 685.433 a 865.767 e anche la curva dei decessi è risultata in aumento, ad eccezione di una lieve diminuzione nel 2020.

L'approccio One Health

Ma cosa favorisce l'antibiotico resistenza? "Le cause sono multifattoriali e proprio per questo il nostro approccio è una risposta in chiave One Health che consideri la dimensione umana, quella veterinaria e quella ambientale", risponde D'Ancona.

"Il principale driver è l’uso continuo degli antibiotici che crea una pressione selettiva agendo di più sui batteri sensibili ma selezionando quelli che non lo sono", continua l'esperto dell'Istituto superiore di sanità ricordando che tra le azioni da evitare ci sono l'interruzione della terapia prima del dovuto, l'uso di un antibiotico per infezioni virali o la somministrazione di una terapia senza aver sottoposto il paziente ad un antibiogramma, vale a dire l'esame microbiologico che consente di verificare quale sia il batterio responsabile e a quale antibiotico sia sensibile".

"Poi c’è il problema delle infezioni correlate all’assistenza dove il fenomeno è preoccupante anche perché i batteri sono in grado di trasmettersi tra di loro i geni della resistenza e possono venirsi a creare i superbatteri con caratteristiche di resistenza agli antibiotici piuttosto estese", osserva D'Ancona.

I dati relativi all'impiego di antibiotici indicano una progressiva diminuzione ma i risultati ottenuti finora in termini di riduzione dei decessi per infezioni causate da batteri resistenti e carico di malattia, calcolata utilizzando l'indice DALY che misura l'attesa di vita corretta per disabilità, appaiono ancora modesti.

Il rapporto dell'Ecdc segnala infatti che nell'UE/SEE durante il periodo 2012-2021 si è registrata una diminuzione del 23% del consumo totale di antimicrobici, combinando quelli erogati dalle farmacie e gli impieghi ospedalieri. Il dato attuale è di 16,4 dosi medie assunte giornalmente per 1.000 abitanti, lo stesso del 2020. Il consumo variava da 8,3 nei Paesi Bassi a 25,7 in Romania. L'Italia, con 17,5 dosi, si posiziona leggermente al di sopra della media europea. 

Al riguardo, commentando l'ultimo rapporto nazionale sull'uso degli antibiotici in Italia presentato dall'Agenzia italiana del farmaco Nicola Magrini, che è stato direttore generale fino all'inizio del 2023, osservava che nella maggioranza dei casi questi farmaci sono usati "ancora in modo inappropriato soprattutto per i pazienti più lievi". 

Infezioni correlate all'assistenza

Oggi, sottolineano i dati delle Nazioni unite, nei paesi ad alto reddito il 7% dei pazienti ricoverati in ospedale contrarrà almeno un'infezione correlata all'assistenza e i numeri sono oltre il doppio nei paesi a basso e medio reddito dove si sale al 15%.

"Chiaramente tutto cambia anche a seconda del contesto e del reparto. I nostri ultimi dati ci dicono che l’8% dei pazienti ricoverati in ospedale contrae un’infezione correlata all’assistenza. Di queste infezioni il 45% mostra una resistenza, più o meno severa", spiega al riguardo Fortunato "Paolo" D'Ancona ragionando sul quadro italiano..

"Nel caso di alcuni patogeni frequenti e pericolosi in ambito assistenziale come gli Acinetobacter e gli Pseudomonas aeruginosa o Klebsielle e Pseudomoniae aumenta il rischio di complicazioni anche per la difficoltà del trattamento come, ad esempio, la necessità di usare antibiotici più antichi che hanno delle tossicità al posto di antibiotici più sicuri ai quali però i batteri sono diventati resistenti". 

Tra le categorie più esposte ci sono i pazienti ricoverati in terapia intensiva, gli anziani e i neonati. D'Ancona chiarisce che "non siamo al punto in cui le infezioni correlate all’assistenza sono pan-resistenti, cioè resistenti a tutti gli antibiotici, questi per fortuna sono eventi rarissimi, ma chiaramente l’impatto soprattutto nei soggetti fragili e anziani è una problematica".

Si stima che circa la metà delle infezioni correlate all'assistenza potrebbe essere evitata attraverso strategie di prevenzione. Tra le misure chiave ci sono corrette pratiche di igiene, la riduzione delle procedure diagnostiche e terapeutiche non necessarie, il corretto uso degli antibiotici e dei disinfettanti e la sterilizzazione dei presidi. Ma non solo: "per esempio quando in alcuni reparti particolarmente sensibili, come le terapie intensive deve entrare un paziente che proviene da un’area endemica o da una Rsa vengono effettuati dei test appositi per verificare se è portatore di questi patogeni. Questo serve a filtrare e ridurre il rischio che i batteri sotto sorveglianza possano poi dare inizio a dei focolai epidemici negli ospedali".

L'impatto della pandemia

Nell'ultimo triennio si è poi cercato di capire se la pandemia da Covid-19, e le misure di contenimento messe in atto soprattutto nella prima fase, abbiano avuto un effetto positivo limitando, ad esempio, la circolazione di altri patogeni curati con (anche in modo improprio) con gli antibiotici. Purtroppo, però, puntualizza D'Ancona "si è venuto a creare un quadro un po’ strano dove alcuni tipi di infezioni - come gli pneumococchi, responsabili delle polmoniti - sono diminuiti, mentre altri sono aumentati in termini di frequenza. E purtroppo, nel caso dei Gram-negativi, hanno anche acquisito una maggiore resistenza rispetto al passato".

"Da una parte eravamo ottimisti perché anche negli ospedali tutti indossavano le mascherine, gli operatori sanitari erano vestiti con più attenzione per evitare la trasmissione di virus da un paziente all’altro o da un paziente all’operatore ma contemporaneamente la gravità dei casi, soprattutto all’inizio, costringeva a molte manovre invasive, all’uso di respiratori e ventilazione forzata, device che possono causare delle infezioni. La pandemia non ha portato quegli effetti positivi che pensavamo in termini di protezioni dalle infezioni".

Farmaci antidepressivi e antibiotico resistenza

Un nuovo motivo di preoccupazione giunge poi da uno studio, pubblicato di recente su Pnas, che rivela come l’esposizione dei batteri a cinque comuni antidepressivi possa favorire la selezione di ceppi resistenti agli antibiotici. Effettuando delle prove in laboratorio gli autori hanno scoperto che l'esposizione a queste molecole innesca meccanismi di difesa cellulare che rendono i patogeni più capaci di sopravvivere al successivo trattamento antibiotico. Jianhua Guo, scienziato  dell'università del Queensland, in Australia, e primo autore della ricerca, aveva iniziato a ipotizzare i possibili effetti di questi farmaci nel 2014, dopo che il suo laboratorio aveva scoperto che i geni che rendono i batteri resistenti agli antibiotici sono più diffusi nelle acque reflue domestiche rispetto a quelle degli ospedali, dove c'è un maggiore uso di antibiotici.

"E’ un campo della ricerca, stiamo cercando di capire quale sia l’impatto di eventuali fenomeni e quali determinanti. Già nel 2017 erano stati pubblicati altri articoli che parlavano di come gli antidepressivi potessero causare delle alterazioni del microbiota intestinale, quindi della flora batterica intestinale. Questo potrebbe contribuire all’emergere di antibiotico-resistenza perché esistono dei meccanismi di trasferimento genico di resistenze", spiega D'Ancona.

"Questo nuovo articolo riporta dei dati molto in dettaglio cercando di capire quale sia il meccanismo. Rimane una zona grigia. Sicuramente i farmaci disturbano il microbiota intestinale e alcuni patogeni sono insidiarsi in una persona in modo silente, senza implicare lo sviluppo di una sintomatologia. I portatori sani possono però disseminare i batteri anche nell’ambiente. Credo sia importante continuare non solo con comportamenti e strategie di prevenzione e controllo ma anche proseguire sulla strada aperta da queste ricerche che ci possono fare capire meglio i meccanismi di trasmissione anche all’interno del nostro corpo", conclude l'esperto dell'Istituto superiore di sanità.

Lo studio pubblicato su Pnas ha considerato gli effetti degli antidepressivi su un solo tipo di batterio, l'Escherichia coli e quindi serviranno ulteriori indagini per capire se gli stessi meccanismi possono instaurarsi anche nei confronti di altri patogeni. 

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