CULTURA

Antigone, una lettura diversa della tragedia greca

Per 2.500 anni il conflitto tra Antigone e Creonte raccontato nella tragedia di Sofocle è stato letto come la perfetta parabola della resistenza: una giovane donna, sola e disarmata, si ribella a un potere tirannico e paga con la vita. Un modello antico per chi oggi lotta per i diritti umani, come l’ancora sconosciuto cittadino cinese di piazza Tien-an-men che nel 1989 si mise di fronte a un’intera colonna di carri armati per impedire loro di procedere nella repressione.

Le cose però erano forse più complicate di come le abbiamo studiate a scuola, ci ricorda un agile libretto di Luciano Violante, Insegna Creonte, edito dal Mulino in questi giorni (2021, €12). Violante, ex presidente della Camera, si era già cimentato con il tema in un altro testo, scritto con Marta Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale: Giustizia e mito, pubblicato nella stessa collana. Entrambi i volumi indagano su un tema molto attuale: i limiti della giustizia. Il contrasto tra leggi scritte e leggi non scritte.

La vicenda narrata da Sofocle è ben nota: essa trae origine dal patto che i due fratelli, Polinice ed Eteocle, figli di Edipo, avevano stretto tra loro dopo l’autoesilio del padre: siederanno sul trono di Tebe a turno, un anno per ciascuno. Ma Eteocle, alla scadenza dell’anno, si rifiuta di cedere il regno al fratello Polinice che, sentendosi tradito, muove guerra alla città. Nella battaglia finale i due si uccidono reciprocamente.

A questo punto Creonte, zio dei due giovani, sale sul trono perché non ci sono altri candidati legittimi e, come prima cosa, decreta gli onori funebri per Eteocle difensore della patria e vieta, pena la morte, gli stessi onori a Polinice che invece ha preso le armi contro la propria città. “La città è salva”, commenta Violante, “ha un eroe da celebrare, Eteocle, e un traditore da esecrare, Polinice”. L’editto del nuovo re costituisce la sanzione formale della vittoria.

Tuttavia, ci dice Violante, “spesso nella vita politica, quando le cose sembrano andare per il meglio, insorge l’imprevisto”. E, in questo caso, l’imprevisto è la disobbedienza di Antigone, nipote di Creonte, sorella di Eteocle e Polinice, oltre che fidanzata di Emone, figlio di Creonte: viola il divieto e rivendica pubblicamente il suo gesto. Antigone seppellisce il fratello per evitare ciò che i greci consideravano il peggiore dei mali, il fatto che il cadavere vada in pasto agli animali. La giovane donna non si nasconde, non cerca giustificazioni: contesta invece la legittimità del decreto e rivendica il valore morale del proprio atto appellandosi alle leggi non scritte che gli stessi dei devono rispettare. 

“Non veniva da Zeus la tua legge” dice Antigone, “né la Giustizia che convive con gli dèi di sottoterra l’aveva stabilita per i mortali. Né credevo che i tuoi decreti potessero avere tanta forza da abrogare quella delle leggi non scritte degli dèi, quelle leggi che non solo oggi o ieri, ma sempre vivono e nessuno sa quando apparvero”.

Il contrasto è insanabile, scrive Violante: “La legge di Creonte è laica, storica, promulgata e imposta dal sovrano, non radicata nella coscienza della città, non capace di suscitare emozioni. Creonte confida nella ragione e si appella alla necessità di mantenere l’ordine nella città. Ma il suo appello è troppo moderno, troppo laico, troppo freddo”. Questo sarebbe il principale errore del re di Tebe, incapace di comunicare, di ottenere consenso del popolo, di trovare un compromesso. 

Questa posizione dell’ex presidente dela Camera è però lontana dalla lettura che molti studiosi moderni hanno dato della tragedia. La colpa di Creonte non sta nella sua incapacità di difendere una legge giusta bensì nella sua superbia, nel suo orgoglio, in ciò che i greci chiamavano hybris, un peccato – ci dice Massimo Cacciari - di dismisura, di incapacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni, che portano alla catastrofe.

La posizione di Creonte, dice Cacciari, è che solo la città permette la convivenza civile: “Solo la polis, la città bene organizzata, che ha un governo solido, stabile, forte, con una legge che viene obbedita salva gli uomini (...) Creonte ha ben regnato, ha ben meritato per la polis, l’ha salvata dalla catastrofe contro prepotenti schiere nemiche. Lo riconosce il Coro, lo riconosce Tiresia”. E allora?

Il problema è che Antigone non mira a “riformare” il potere di Creonte, a renderlo piú rispettoso delle tradizioni che esigono di onorare i morti. Non cerca compromessi tra il diritto positivo dello Stato e la pietas domestica che impone di dare sepoltura al fratello amatissimo. Antigone non rivendica un nuovo diritto, né un nuovo ordine politico, al contrario manifesta un’alterità radicale rispetto a tutte queste dimensioni del logos. La sua posizione è complementare a quella di Creonte e Sofocle ci vuole dire che la tragedia è sempre il cozzo di due verità. Questa è la dimensione tragica del mondo che i riformisti, i prudenti, gli uomini “di buon senso” non comprendono.

Ed è in quest’ultima chiave che Violante scrive: “Creonte ha sbagliato; ma è un modernizzatore; crede nella città. Dovrebbe pazientemente spiegare al popolo che la posizione di Antigone appartiene al passato, quando la comunità vedeva al centro i rapporti familiari”. Non c’è spazio per la pazienza, per la spiegazione in Sofocle, che vuole metterci di fronte a un destino ineluttabile, non alla mancanza di buoni consulenti in comunicazione politica.

Destino, una parola che oggi sembra antiquata, bizzarra, quasi incomprensibile. Al contrario, essa spiega più di molte altre la radice, l’origine della condizione umana. Una condizione che Sofocle analizzava spietatamente 2.500 anni fa: “Molte potenze sono tremende ma nessuna lo è piú dell’uomo”. È questa l’origine delle forze che abbiamo evocato e non siamo più in grado di controllare.

Potenze meravigliose e tremende, che si sono rivelate negli ultimi due secoli: Marx ed Engels ammiravano la borghesia che consideravano responsabile del “soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’industria e all'agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte quasi per incanto dal suolo - quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero sopite in grembo al lavoro sociale?” Ma sbagliavano: non era una specifica classe di mercanti, industriali e finanzieri a sconvolgere il mondo: eravamo noi, Homo Sapiens, a varcare i mari, dissodare le pianure, addomesticare animali, come Sofocle aveva indicato ben ventiquattro secoli prima.

È l’uomo, ci dice il coro in Antigone, “colui che oltre il mare canuto procede nella tempesta invernale attraverso i flutti che gli si frangono intorno. È lui che anche la dea suprema tra tutti gli dèi, Gaia, inconsumabile, instancabile, violenta anno per anno rivoltando [la terra] con gli aratri tirati dalla stirpe equina. È lui che cattura con attorte reti gli uccelli dalla mente alata e le fiere selvagge e gli animali del mare. È lui, l’uomo, capace di pensiero, che ha il potere sulle bestie dei campi e su quelle che vagano sui monti; è lui che aggioga il cavallo crinito e l’infaticabile toro. È lui che la parola e il pensiero simile al vento ha imparato”.

E la conclusione di Sofocle è degna di ciò che è stato definito da Yuval Harari Homo Deus: “Ovunque s’apre la strada, in nulla s’arresta. Cosí affronta il futuro”. Ma l’antico autore greco ammoniva: “Da Ade solo non ha escogitato scampo, per quanti rimedi abbia inventato a inguaribili mali”. Parole che sembrano scritte oggi per descrivere l’epidemia in cui stiamo vivendo.

Quindi Creonte non ha nulla da insegnarci, Antigone non ha nulla da insegnarci: solo insieme ci trasmettono il messaggio di Sofocle. È impossibile sfuggire alla nostra condizione umana, all’audacia intrisa di superbia che “oltre ogni speranza e ogni attesa, conosce, fabbrica, inventa, a volte volgendosi al male, altre al bene”. Più spesso al male, se solo guardiamo alle prime pagine dei giornali di oggi.

 

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