SCIENZA E RICERCA

Nelle aree di alta montagna il riscaldamento è più veloce e intenso

Nelle aree di alta quota il riscaldamento globale viaggia a ritmi più intensi rispetto al resto del pianeta e gli ecosistemi montani rischiano di non avere il tempo di adattarsi e cercare nuovi equilibri, in contesti già caratterizzati da condizioni ambientali difficili. 

A confermare, e ad arricchire di dati ad elevato dettaglio, quanto emerso da numerose precedenti ricerche è adesso un nuovo studio internazionale, coordinato dai ricercatori dell’università di Milano e dell'Istituto di geoscienze e georisorse del Cnr, in collaborazione con il Museo delle Scienze di Trento e con l'università del Texas, che ha scoperto come negli ultimi 20 anni le aree più vicine ai ghiacciai si siano scaldate il doppio rispetto a quelle situate a 3 km di distanza e ha rilevato degli scarti ancora più marcati per quanto riguarda la durata della stagione con neve al suolo, con una diminuzione particolarmente accentuata nelle aree prossime ai ghiacciai.

I risultati del lavoro, pubblicati di recente sulla rivista Nature Communications, sono il frutto di una lunga e minuziosa fase di lavoro sul campo che ha portato all'installazione di 175 stazioni microclimatiche in diverse aree del mondo (dalle Alpi, alle Ande del Perù e fino al remoto territorio artico delle isole Svalbard) con le quali sono state raccolte oltre 700 mila misurazioni di temperatura del suolo, in un arco temporale che si è esteso dal 2011 al 2021.  

Il team di scienziati è così riuscito a rilevare l'eterogeneità del microclima anche tra punti situati a poche decine di metri di distanza e incrociando questi dati con quelli forniti dalle immagini satellitari è arrivato a produrre la carta più dettagliata ad oggi esistente della temperatura nelle aree di alta montagna. Considerando la media annua, l'incremento delle temperature del suolo nel periodo 2016-2020 rispetto al 2001-2005 è stato considerevole, soprattutto nella zona intertropicale (+0.75 °C) e nell'emisfero australe (+1.02 °C). Analizzando i dati, i ricercatori si sono accorti che alcune aree di alta montagna si stanno riscaldando ancor più di quanto atteso dai modelli globali e in tutte le fasce latitudinali il riscaldamento è stato molto più intenso in prossimità dei ghiacciai (100 metri) rispetto alle zone che si trovano a 3 chilometri di lontananza. 

Ancora più pronunciate sono le variazioni relative alla durata della stagione con neve al suolo: un confronto tra periodo tra il 2001 e il 2005 e quello tra il 2016 e il 2020 rivela che su scala globale i giorni senza neve sono stati in media circa 10 in più, ma i decrementi più sostanziali sono avvenuti in prossimità dei ghiacciai dove sono stati persi 23 giorni di copertura nell'emisfero meridionale, 20 nella zona tropicale e 13 nell'emisfero settentrionale (a fronte di diminuzioni che a 3 km dal ghiacciaio sono state rispettivamente di 2 giorni, 0,5 giorni e 4 giorni).

"Uno degli elementi più importanti del nostro lavoro è essere riusciti a costruire un modello statistico dotato di una risoluzione spaziale molto elevata che ci consente di osservare i cambiamenti su piccola scala", spiega a Il Bo Live Silvio Marta, ricercatore del Cnr- Igg di Pisa e primo autore dello studio. "Questo permette di valutare anche il peso di condizioni locali dovute ad altre variabili, come l'esposizione dei versanti. Riusciamo così a comprendere il microclima. E abbiamo rilevato che anche al netto dei cambiamenti che vengono registrati a livello di temperatura dell’aria c’è un pattern di riscaldamento del suolo tra i posti vicini al ghiacciaio e quelli più lontani. Questo non sarebbe visibile con un modello su scala più grande".

Il lavoro di raccolta dati 

Per la raccolta di dati sul campo i ricercatori hanno scelto 26 aree proglaciali del mondo, principalmente sulle Alpi (dove tra i punti monitorati c'è anche il ghiacciaio dei Forni in Valtellina, il secondo delle Alpi italiane per estensione ma ormai sottoposto a un arretramento devastante) ma anche sulle Ande e sulle isole Svalbard.

"In ciascuna zona ploglaciale è stato posizionato un certo numero di sensori ed è stata rilevata la temperatura del suolo tra i 5 e i 15 cm di profondità. Sulle Alpi e sulle Ande le misurazioni sono state effettuate in modo continuativo per un anno, mentre in altri contesti ci si è limitati a periodi più brevi. In seguito abbiamo calcolato delle medie mensili e abbiamo utilizzato questi dati per stimare le variabili che vanno a condizionare le temperature del suolo", spiega Silvio Marta, aggiungendo che sono stati considerati ghiacciai che hanno iniziato a ritirarsi dopo il 1850, al termine della Piccola era glaciale. "I punti scelti rappresentano anche differenti età di fusione del ghiacciaio, quindi riusciamo a ricostruire, ad esempio, dove era il ghiacciaio quando finì questo periodo della storia climatica della Terra", osserva il ricercatore. 

Il modello statistico 

I dati ottenuti attraverso attraverso il rilevamento delle temperature a diverse distanze dai ghiacciai considerati sono stati utilizzati per costruire un modello statistico dotato di una elevata risoluzione spaziale. Il modello è stato poi combinato con le condizioni che c'erano 20 anni fa (ricavate da serie temporali per macroclima e frequenza dei giorni senza neve) e i coefficienti stimati empiricamente sono stati convalidati con un set di dati esterno, presente in letteratura). "Le celle utilizzate sono molto piccole e questo ci ha consentito di arrivare ad un modello estremamente dettagliato", afferma Silvio Marta. 

Perché le aree più vicine ai ghiacciai si riscaldano maggiormente?

Come spiegato anche da Francesco Ficetola, professore ordinario del dipartimento di Scienze e politiche ambientali dell’università di Milano e coordinatore dello studio, i motivi che portano l'alta montagna a riscaldarsi così velocemente sono due. Il primo è il venir meno dell'effetto isolante garantito dalla copertura nevosa con una conseguente maggiore esposizione del suolo al riscaldamento. Il secondo è invece legato alle conseguenze dei processi di fusione dei ghiacciai e in particolare alla diminuzione dei venti freddi (tecnicamente si parla di vento catabatico) che sono generati dai ghiacciai stessi e che hanno un forte potere rinfrescante.

"L'assenza di neve aumenta gli scambi di calore tra aria e suolo", scrivono gli autori nella parte dei paper in cui vengono discussi i risultati e, come osserva Silvio Marta, "posti che prima erano molto prossimi al ghiacciaio o che 20 anni fa erano sotto al ghiacciaio adesso sono esposti all’aria e in altri la neve permane per sempre meno tempo". Tutto questo ha conseguenze anche sull'effetto albedo che è la capacità di una superficie di riflettere la luce. Il progressivo ridursi di superfici chiare, come neve e ghiaccio, a favore di quelle più scure, rappresentate dalle rocce, innesca infatti dei processi che accelerano la fusione dei ghiacciai e l'innalzamento delle temperature. 

Le conseguenze per la biodiversità e per i servizi ecosistemici

I dati ottenuti da questa ricerca offriranno un ulteriore importante contributo per predire come gli ecosistemi di alta montagna si modificheranno nei prossimi decenni. Da questo punto di vista la situazione è tutt'altro che rassicurante, soprattutto a lungo termine. "Con lievi spostamenti le piante possono talvolta trovare condizioni microclimatiche ancora favorevoli alla loro sopravvivenza. Tuttavia questo ragionamento vale solo sul breve periodo: se il cambiamento climatico continua andremo incontro alla perdita di biodiversità negli ambienti pro-glaciali prossimi al ghiacciaio", osserva Silvio Marta. E aggiunge: "Il processo di ritiro di molti organismi è iniziato circa 12 mila anni fa, al termine della piccola era glaciale. Il problema adesso è la velocità del cambiamento, soprattutto per le specie annuali".

Non bisogna poi dimenticare le ripercussioni sul turismo sciistico europeo (come già evidenziato anche da un altro recente studio pubblicato su Nature Climate Change) ma soprattutto le conseguenze a livello di servizi ecosistemici imprescindibili per le nostre società, in primo luogo la fornitura di risorse idriche per tutte le attività umane. "La pianura padana si regge sull’acqua dei ghiacciai, come l'India con l'Himalaya", esplicita Silvio Marta. 

Gli ecosistemi di alta montagna sono quindi particolarmente vulnerabili al cambiamento climatico, come accertato in passato anche da altri studi che hanno sottolineato come con l’aumento dell’altitudine le temperature tendano a salire in modo più repentino. Un lavoro pubblicato nel 2015 su Nature Climate Change, ad esempio, ha rilevato che al di sopra dei 4.000 metri le temperature, in 20 anni, sono aumentate del 75% più velocemente rispetto a quanto accaduto ad altitudini inferiori ai 2.000 metri. Un successivo studio, pubblicato nel 2022 sulla rivista Reviews of Geophysics, ha tuttavia puntualizzato che sebbene il concetto di riscaldamento dipendente dall’elevazione, in base al quale i tassi di riscaldamento sono stratificati in base all’elevazione, sia ampiamente accettato, non è stato ancora possibile identificare un contrasto sistematico coerente su scala globale. 

Questa nuova ricerca offre adesso un contributo importante, non solo perché concentrandosi sulle temperature del suolo propone uno sguardo più ampio rispetto ai lavori che tradizionalmente considerano le temperature dell'aria ma anche perché ha costruito un modello su piccola scala, quindi particolarmente dettagliato. E i risultati confermano, una volta di più, che le montagne sono sentinelle del cambiamento e che abbiamo bisogno di agire con maggiore decisione per salvaguardarle. 

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