SOCIETÀ

Auguri ai Jeans: ma quanto sono (in)sostenibili per l'ambiente?

Sono ben 150 anni che i jeans popolano i nostri armadi, o forse anche di più. In effetti oggi ricordiamo il brevetto di Levi Strauss del 20 maggio 1873 ma un pantalone in denim ante litteram esisteva già da moltissimi anni.

Un po' di storia

Nel XV secolo a Chieri il tipo di tela che oggi associamo ai jeans veniva utilizzato per contenere le vele delle imbarcazioni. Da lì i marinai hanno pensato di poterla usare anche per l'abbigliamento, ma la presenza di questi pantaloni così robusti la si deve a un paesino francese. Gli industriali di Nîmes infatti hanno creato il fustagno, questa tela particolarmente resistente che chiamiamo anche denim proprio per la sua provenienza: "denim" sta proprio a indicare il tessuto di Nîmes, ma il jeans per come lo conosciamo noi si è diffuso in Italia, e per la precisione a Genova: "blue jeans" deriva infatti da “bleu de Gênes”, blu di Genova, perché i marinai di questa città avevano cominciato a tingere il tessuto di blu scuro in modo che non si vedessero le macchie. I francesi utilizzavano un colore diverso, l'indaco che veniva dall'india, mentre i genovesi il guado, prodotto in Piemonte.

Quello che sappiamo per certo è che l'idea di brevettare i jeans venne a Levi Strauss, anzi, a Löb Strauß, un ebreo bavarese che nel 1851 partì per l'America per cercare fortuna. E la trovò, cominciando a produrre abiti per i minatori di San Francisco impegnati nella corsa all'oro: dovevano essere vestiti pratici e resistenti, e così nacque la salopette. Per arrivare al jeans come lo conosciamo oggi bisogna aspettare l'incontro di Strauss con Jacob W. Davis, che aveva risposto alla stessa esigenza creando un paio di pantaloni molto robusti grazie a rivetti di rame che rinforzavano le tasche dove venivano inserite le pepite d'oro, e che quindi non dovevano assolutamente cedere, ma anche altri punti critici. Davis chiese l'aiuto di Strauss per ragioni economiche, e i due si divisero i diritti del brevetto n 139.121. Da allora anche le salopette guadagnarono questi rivetti, mentre i jeans più famosi devono il loro nome dell'imprenditore (Levi's infatti significa di Levi).

Problemi di sostenibilità

Dai tempi del brevetto, questi pantaloni hanno fatto molta strada, passando attraverso i film western e Woodstock fino ad arrivare agli influencer, ma ultimamente, insieme a tutta l'industria della moda, sono stati messi sulla graticola, perché i ritmi di produzione non sono più sostenibili per il nostro pianeta e per la maggior parte delle persone che lavorano in questa industria.
Per dare la dimensione del problema, per produrre un paio di jeans sono necessari quasi 10.000 litri d'acqua, ed è un dato che, in un periodo di crisi idrica come questo, non possiamo ignorare. Oltre a questo, i lavaggi e quell'effetto used che tanto ci piace fanno entrare in gioco sostanze chimiche che non sempre vengono smaltite nel modo corretto, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove si producono capi di abbigliamento a basso costo. Il tutto senza tirare in ballo le emissioni di anidride carbonica tra macchinari e trasporto che costituiscono l'impatto ambientale più prevedibile, ma forse non il più grave.
A volte si tende a scaricare parte della responsabilità sui consumatori, invitandoli al riciclo e al riuso, ma questa  rischia di essere una goccia nel mare perché, almeno in un primo tempo, le aziende continuerebbero a produrli. Sicuramente abbiamo tutti una responsabilità, legata soprattutto all'inconsapevolezza con cui riempiamo i nostri armadi senza farci grosse domande, ma la normativa attuale è insufficiente per ostacolare l'impatto sull'ambiente.

Sulla carta sembra chiaro che i brand dovrebbero farsi carico del problema, ma nella pratica non è semplice come sembra: ne parliamo con Silvia Gambi, giornalista e consulente di moda sostenibile.

Servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Barbara Paknazar

Gambi ci spiega che il problema di sostenibilità principale nel caso dei jeans è proprio quello legato alla produzione del cotone. Un altro aspetto è quello che chiama in gioco gli agenti chimici utilizzati nel processo di tintura, che come la coltivazione del cotone richiede a sua volta grandi quantità di acqua. E se vogliamo comprarci un paio di jeans all'ultima moda, quelli che ci costano centinaia di euro ma che sembrano vecchi e usurati, stiamo inquinando ancora di più: i trattamenti che portano il jeans ad assumere quel tipico aspetto "maltrattato" hanno un impatto ancora maggiore.

I viaggi di un paio di jeans

Il punto non è quello di demonizzare un capo di abbigliamento che, lo precisa anche Gambi, rispetto ad altri ha anche una durata superiore visto che i jeans sono particolarmente resistenti e, se di buona qualità, possono durare decine di anni. Il fatto è che molti consumatori non si rendono conto del problema, e spesso li sostituiscono anche molto prima che siano così usurati da arrivare naturalmente a fine corsa. Del resto c'è poco da stupirsi. Maxine Bédat, avvocata e fondatrice del New Standard Institute, una no profit che collabora con scienziati e cittadini per rendere questa industria più sostenibile, ha scritto il libro Il lato oscuro della moda - Viaggio negli abusi ambientali (e non solo) del fast fashion edito da Post Editori, un libro-inchiesta che segue un paio di jeans a partire dai campi di cotone del Texas fino ai nostri armadi. Mentre si documentava per questo lavoro, Maxine Bédat si è accorta che gli stessi produttori finali non avevano idea dei giri immensi che i capi affrontavano prima di essere venduti. In questo senso il suo libro è stato  una piccola rivoluzione, perché ora sia i produttori che i consumatori possono rendersi conto dell'impatto delle loro scelte di marketing o di stile.

Bédat sottolinea come un paio di jeans Levi's (ma vale anche per buona parte del made in Italy) siano solo ideati e venduti negli Stati Uniti: il tessuto ora proviene probabilmente dalla Cina, che tra il luglio 2019 e il luglio 2020 ha prodotto 45,86 miliardi di metri di tessuto, con cui si potrebbe rivestire la Terra 1200 volte, ma viene poi tagliato e cucito in Bangladesh, paese che ha scalzato la Cina come primo esportatore di denim negli Stati Uniti, magari in fabbriche diverse per razionalizzare la distribuzione, che deve essere molto veloce visto che il consumatore finale si aspetta di trovare in tutti i negozi (o forse soprattutto su Amazon) i jeans che ha visto addosso al suo influencer del cuore. Tutti questi passaggi, che coinvolgono anche i singoli componenti come rivetti e cerniere, rendono difficile la tracciabilità di un capo e questa frammentarietà ha portato agli scandali recenti, in cui i brand si dissociano dalle aziende da cui si servono che fanno lavorare i dipendenti in condizioni assimilabili alla schiavitù, ma troppo spesso non interrompono i rapporti con questi intermediari. Un capitolo a parte meriterebbe il discorso del riciclo, perché quando pensiamo di mettere in ordine l'armadio e di dare i nostri jeans a qualcuno che ne ha più bisogno stiamo probabilmente iniziando il processo che li spedirà dritti dritti in discariche a cielo aperto in Africa (per dare l'idea del problema, ogni anno, gli Stati Uniti esportano più di 450 milioni di kg di vestiti usati. Non è facile reperire i dati, ma una visita a una discarica ha portato Maxine Bédat a farsi un'idea molto precisa delle effettive percentuali di rimessa in circolo di questi capi: sono molto basse).

La Cina tra il luglio 2019 e il luglio 2020 ha prodotto 45,86 metri di tessuto, con cui si potrebbe rivestire la Terra 1200 volte

Cosa possono fare consumatori e aziende?

Si potrebbe pensare che la risposta sia "comprare moda sostenibile", ma ad oggi come vedremo non esistono standard per capire cosa voglia dire sostenibile nel settore dell'abbigliamento. Tra l'altro le aziende intermediarie non muoiono dalla voglia di condividere dati sullo smaltimento delle scorie e sul trattamento degli operai, quindi un consumatore si trova nell'effettiva impossibilità di sapere se il suo paio di jeans è veramente sostenibile (magari è fatto a mano, ma la stoffa è stata comprata in Cina, per fare solo un esempio). L'ideale, quindi, sarebbe non comprare proprio, almeno finché i jeans precedenti non risultano inutilizzabili. E invece, scrive Bédat, a livello globale vengono venduti 1.25 miliardi di paia di jeans ogni anno. E le aziende cosa possono fare? "Mediamente - considera Gambi - ognuno di noi ha nell'armadio da 5 a 7 paia di jeans, quindi è uno dei capi che acquistiamo di più. Si possono intraprendere delle azioni per rendere la produzione più sostenibile, per esempio in Spagna, ma anche qui nel distretto marchigiano, ci sono delle aziende che stanno lavorando per ridurre il consumo di acqua e per implementare delle tecnologie che permettano una produzione a circuito chiuso riutilizzandola, mentre per quanto riguarda i trattamenti vengono utilizzate delle tecnologie al plasma. Si parla però di una nicchia di produzione per un mercato medio alto, mentre la stragrande maggioranza di questi capi viene ancora prodotta in paesi lontani da noi".

L'abbattimento dei costi di produzione sembra essere un imperativo categorico per la maggior parte delle aziende, e la conseguenza, oltre all'inquinamento da anidride carbonica e sostanze chimiche, è lo sfruttamento di suolo e manodopera a basso costo. Ma c'è una buona notizia: "Alcune aziende, e parliamo anche di grandi brand - spiega Gambi - cominciano a prestare sempre maggiore attenzione a queste tematiche, richiedendo degli adeguamenti alla catena di fornitura". Ma l'impegno di queste aziende è sufficiente o bisogna procedere a delle modifiche normative che obblighino tutti a rispettare determinati standard? "Per anni - racconta Gambi - l'idea è stata quella di un mercato che avrebbe dovuto auto regolarsi, quasi che il brand dovesse educare al consumo consapevole, ma naturalmente questo non può succedere, perché chi mira alla vendita non può essere lo stesso soggetto che invita al consumo consapevole, salvo casi straordinari".

Serve quindi un intervento normativo esterno, ma non è facile come potrebbe sembrare: "Molti stati - spiega Gambi - stanno cominciando a legiferare per regolare questo settore, ma è necessario che ci sia un quadro di norme in comune dentro il quale muoversi, e anche delle indicazioni che permettano di stabilire come raggiungere determinati risultati e quindi come adeguarsi agli standard". Standard che, tra l'altro, non sono semplici da individuare: "Il settore del tessile - spiega Gambi - è un settore molto complesso: una camicia non è la stessa cosa di un paio di pantaloni, di un giubbotto o di una scarpa. Ogni articolo ha le sue caratteristiche e i suoi processi ed è quindi molto complicato trovare una linea che metta d'accordo funzionalità, estetica e sostenibilità. Tenere conto di tutti questi elementi è molto difficile quando si parla di una produzione complessa come quella dell'abbigliamento. Io sono in questo settore da tanti anni e mi rendo conto che ci sono tanti distinguo tra un prodotto e l'altro, e tante particolarità di cui tenere conto. Ogni prodotto viene costruito seguendo una determinata logica ed è molto difficile decidere dove collocare quell'asticella che deve riguardare tutti".

Nell'attesa, noi consumatori possiamo cercare di limitare i nostri acquisti, evitando di farci sedurre dalle pubblicità che ogni giorno ci vengono propinate attraverso i social e gli altri media. Ma soprattutto possiamo farci forza, aprire il nostro armadio e chiederci che cosa ci ha realmente spinti a fare quell'acquisto, e se alla fine ci ha regalato davvero la gioia che ci aspettavamo, o solo un momentaneo picco di endorfine.

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