SOCIETÀ

"Automatizzati", anche nell'istruzione e nella ricerca

Non siamo pronti: temiamo l’automazione, gli uffici vuoti di persone e pieni di macchine, i robot che prendono il posto degli umani, un mondo robotico-automatico-intelligente-artificiale che verrà. E non tarderà ad arrivare, trascinato da una potente onda virtuale che minaccia di spazzare via abitudini, rendere obsolete conoscenze radicate, sconvolgere mercati e società.

Nulla a che fare con la tecnologia già presente nell’industria e negli uffici, che si limita a eseguire compiti semplici: qui si parla di robotica e intelligenza artificiale diffusa capillarmente e perfettamente in grado di sostituire la presenza umana anche nei compiti intellettuali più sofisticati.

Lo sappiamo, in fondo, che la paura è inutile, che bisogna solo preparare il terreno giusto e che l’avvento di un nuovo tipo di cultura del lavoro potrà offrirci altre enormi possibilità. Eppure non ci siamo. Non ci siamo noi italiani, tanto meno i paesi del Sud America, dell’Africa, i russi, nemmeno i cinesi. Neppure i cugini francesi, gli inglesi e gli Statunitensi stanno tranquilli. L’Intelligence Unit del “The Economist” ha infatti stilato un Readiness Index, un indice di prontezza che sulla base di 52 indicatori stila la classifica delle nazioni preparate (o meno) alla temibile ondata. Per i  Paesi presi in considerazione (i G20 con l’aggiunta di Estonia, Singapore, Emirati Arabi, Colombia, Malesia e Vietnam), l’indice valuta le azioni già avviate nelle aree della ricerca innovativa, dell’istruzione e del mercato del lavoro, e i piani e le direttive individuate e messe in campo per arrivare sia agli individui che all’intera popolazione.

Secondo l’indice, le nazioni più preparate sono la Corea del Sud, la Germania, Singapore, il Giappone e il Canada. Non altrettanto mature, ma nella direzione giusta – e con parecchia strada però da fare – sono Estonia, Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Australia. Subito dopo, all’11° posto, ecco l’Italia, definita “sviluppata”, come i cinque Paesi precedenti, ma non “matura” come le nazioni top five.

Alla base delle situazioni poco rosee sta inevitabilmente la mancanza di connessione, collaborazione e impegno reciproco fra politica, industria, istruzione e gli altri attori di rilievo nello sviluppo di società ed economia.

Guardando al mondo della ricerca e dell’istruzione, l’Intelligence Unit rileva che i leader della classifica finanziano considerevolmente la ricerca nei campi dell’intelligenza artificiale e della robotica. I governi della Corea e del Giappone, ad esempio, incanalano centinaia di milioni di dollari verso organismi pubblici e privati che conducono studi in questo campo. La Germania, gli Stati Uniti e Singapore si muovono in maniera analoga, ma non pienamente focalizzata:  così fa la Germania, che finanzia con più attenzione il settore manifatturiero e supporta la ricerca in campi della tecnologia diversi, come l’Internet of  Things (IoT) e l’analisi dei dati.

Poche nazioni hanno già iniziato a tamponare l’impatto dell’automazione per mezzo di politiche nel campo dell’istruzione. L’automazione intelligente dovrebbe teoricamente spingere verso un riconoscimento di rilievo delle STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) ma allo stesso tempo anche verso una valorizzazione dei cosiddetti soft skill, quelle caratteristiche unicamente umane che permetterebbero ai lavoratori di ricoprire ruoli non assegnabili a macchine. Nonostante la riflessione su questi temi sia già stata avviata, nemmeno nelle nazioni più mature del ranking è stato fatto a sufficienza per preparare i lavoratori futuri per mezzo di curricula ad hoc, né si è lavorato alla preparazione degli insegnanti che si troveranno ad affrontare nuovi scenari educativi. L’“educazione permanente” o lifelong-learning sta divenendo luogo imprescindibile di sperimentazione in diversi Paesi, anche attraverso il finanziamento di corsi di aggiornamento periodici individuali e su base volontaria, come a Singapore. Qualche dubbio c’è invece sull’efficacia dei corsi di formazione professionale, elaborati efficacemente da Germania, Corea e Singapore ma tagliati per alimentare troppo spesso, secondo la ricerca del The Economist, occupazioni di profilo troppo basso.

Siccome non è però possibile prevedere davvero ciò che accadrà, quali saranno le implicazioni nel mondo del lavoro e quali siano le conoscenze che davvero ci renderanno pronti, nel giro di un paio di decenni, all’avvento dell’intelligenza artificiale nei nostri uffici, non ci resta per ora che sperimentare i possibili scenari e le possibili azioni virtuose. Senza paralizzarci.

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