SOCIETÀ

Il boomerang dei visti

«Quando la tua domanda per un visto per partecipare a una conferenza di natura accademica viene rifiutata di routine, tu perdi ogni entusiasmo anche solo per rispondere a una Call for Abstract [ovvero per sottomettere un tuo lavoro al comitato organizzativo di un convegno scientifico internazionale]. L’intero processo diventa una perdita di tempo per te stesso e per il tuo supervisore».

Chi parla è Shina Ehdeed (Sukaina), una studentessa di dottorato in comunicazione digitale presso la University of Sheffield, dopo che per l’ennesima volta non è riuscita a ottenere un visto per partecipare a incontri scientifici fuori dal Regno Unito. Il rifiuto cui si riferisce in un intervento ospitato sul sito della London School of Economics di Londra è quello che le ha opposto il Canada: doveva partecipare a un convegno e illustrare i risultati della sua ricerca sull’uso dei sistemi digitali durante la cosiddetta “primavera araba”. Ma analoghi ostacoli insormontabili se li è visti porre difronte quando ha chiesto visti per motivi scientifici in Cina e negli Stati Uniti.

Shina Ehdeed (Sukaina) non ha alcun precedente penale e neppure politico

Shina Ehdeed (Sukaina) non ha alcun precedente penale e neppure politico. È solo una ragazza che studia. La sua unica colpa? Essere nata in Libia e, in quanto tale, guardata con diffidenza da consolati e ambasciate. Quest’anno, per esempio, avrebbe dovuto partecipare alla iConference 2019, il più importante meeting del suo settore a livello planetario, negli Stati Uniti, ma dal 2017 è vietato l’ingresso nel paese anche a scienziati provenienti da paesi indicati in un’apposita lista, in cima alla quale (per motivi di ordine alfabetico) c’è proprio la Libia, seguita da Corea del Nord (North Korea in inglese), Somalia, Siria, Venezuela e Yemen.

Qualcosa di analogo è successo a centinaia di studenti e docenti stranieri (soprattutto cinesi, oltre che iraniani e cittadini dei paesi summenzionati) che hanno chiesto il visto per entrare o, magari, per restare negli Stati Uniti per motivi accademici.

Ananya Jana

E qualcosa di analogo è successo a Ananya Jana, la giovane ricercatrice indiana studentessa di PhD a Bangalore, che si è visto rifiutare, dalle autorità italiane, il visto per entrare nel nostro paese e partecipare al convegno annuale della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica che è in corso a Padova.

Per fortuna, Ananya Jana ha ottenuto il visto di ingresso in Germania e grazie (è il caso di dirlo) agli accordi di Schengen è riuscita ad arrivare legalmente in Italia e partecipare al convegno cui tanto tiene.

La politica restrittiva dei visti agli studenti, ai docenti e ai ricercatori sembrava finita trent’anni fa, con la caduta del Muro di Berlino. È invece ripresa da qualche tempo e con virulenza da pochissimi anni. In nome di un malinteso senso della sicurezza – nessuno scienziato accreditato ha mai partecipato a qualche atto di terrorismo, che si sappia – il visto è diventato uno strumento del conflitto geopolitico.

Contribuendo a quel gioco in cui tutti perdono che consiste nell’elevare muri e barriere, fisiche e virtuali. Laddove la perdita è di libertà e di giustizia, prima ancora che economica. Perché la storia insegna che un mondo in cui prevalgono protezionismo e chiusure è un mondo complessivamente più povero e illiberale.

Ma da un punto di vista scientifico la politica del diniego dei visti utilizzata, per dirla con Shina Ehdeed, di routine verso persone provenienti da alcuni paesi, è ancora più stupida e anacronistica. È stupida perché l’ingresso di uno scienziato straniero costituisce un arricchimento gratuito per il paese ospite. Gli Stati Uniti – ma anche la Gran Bretagna, la Svizzera, la Svezia e lo stesso Canada – hanno fatto la loro fortuna scientifica e anche economica, accogliendo “cervelli” provenienti da altri paesi. Rimettere in discussione la libertà di movimento degli scienziati costituisce, proprio per questi paesi, un boomerang. Significa né più e né meno tagliare il ramo su cui si è seduti.

È tanto più stupida per l’Italia, che soffre del “brain gain”, del drenaggio dei cervelli. Non perché, si badi bene, moltissimi nostri giovani preparati vanno all’estero a costruire le loro carriere scientifiche. In tutti i paesi avanzati (tranne forse gli USA) una parte cospicua dei giovani laureati va a fare un’esperienza di studio in un altro paese. L’Italia soffre non per la “fuga dei cervelli” ma per il mancato arrivo nel nostro paese di una quota minimamente sufficiente di “cervelli” stranieri. Siamo uno dei pochi paesi ad avere di fatto una politica generalizzata di rifiuto (gli USA, al contrario, la hanno selettiva). Un autentico harakiri per le nostre università, per i nostri centri di ricerca, per le nostre industrie.

Ma dicevamo la politica dei “respingimenti alla frontiera” di studenti, docenti e ricercatori stranieri è del tutto anacronistica. La scienza, infatti, sta subendo un vigoroso processo di internazionalizzazione. E non solo perché in molti paesi nel Asia del Sud-Est la ricerca scientifica è letteralmente esplosa negli ultimi anni, rendendo così la scienza un gioco davvero a scala planetaria, ma anche perché i gruppi di ricerca sono sempre più internazionali. E più sono internazionali, più la capacità di ricerca aumenta. Contrastare questo processo è, per l’appunto, una forma anacronistica e tutto sommato impotente di oscurantismo.

Pensate, già oggi il maggior numero al mondo di ricercatori si trova in Asia. E nel prossimo futuro questa asimmetria rispetto all’occidente è destinata a crescere. Se tra qualche anno i paesi asiatici adottassero la medesima politica dei visti che noi oggi stiamo adottando, sarebbero gli italiani, gli europei, i nordamericani a restare isolati. Messi ai margini.

Ma non è questo il futuro che vogliamo. Vero?

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