Uno stallo. L’ennesimo del governo britannico guidato dalla premier conservatrice Theresa May e riguardante ormai la polemica sulla Brexit che imperversa dalla data del referendum che sancì, il 23 giugno del 2016, la volontà popolare di uscire dall’Unione Europea.
Da due anni fa ad oggi la situazione politica non ha ancora trovato una soluzione definitiva. Mentre scriviamo il Parlamento inglese sta discutendo la seconda mozione di sfiducia in pochi mesi contro Theresa May (il voto è previsto per le 8 di questa sera, ora italiana), ma le sorti (politiche ed economiche) dell’Unione europea, del Regno Unito e dell’accordo sulla Brexit rimangono ancora poco chiare.
“Lo stallo attuale – spiega Giulia Bentivoglio, ricercatrice a Padova ed esperta di storia delle relazioni internazionali – è tutto in capo alla May che ha cercato fino all’ultimo di strappare un sì al Parlamento rispetto all’accordo redatto dal suo governo per sancire il modo con cui si uscirà dall’Ue”. Un accordo bocciato a larga maggioranza, con la peggiore sconfitta alla Camera dagli anni Venti del secolo scorso, e che ha visto votare contro non solo l’opposizione ma anche molti franchi tiratori tra le file dei conservatori: “La situazione non è certamente chiara – prosegue Bentivoglio – soprattutto perché anche all’interno della stessa maggioranza non ci sono posizioni univoche: anche tra i conservatori oppositori della May ci sono due correnti di pensiero, tra chi ritiene l’attuale accordo troppo morbido nei confronti dell’Unione europea e chi, al contrario, ritiene sia troppo duro”.
3.4m more jobs.
— Theresa May (@theresa_may) 16 gennaio 2019
More children in good or outstanding schools.
More money to our NHS.
All of this would be put at risk by a Labour government led by Jeremy Corbyn.#PMQs pic.twitter.com/j7pJ8VTleg
Quella che è certa è la data entro cui (teoricamente) si dovrebbe chiudere l’iter per l’uscita dalla Ue: il 29 marzo, nel caso non ci sia una proroga, con o senza accordo, il Regno Unito dovrà abbandonare l’Europa, segnando la fine di un cammino iniziato nel 1973 con il suo ingresso nell’allora Comunità europea.
In mezzo a questa data si aprono (pochi) scenari da seguire, a seconda che il governo May venga sfiduciato o meno: “Se May dovesse essere sconfitta – spiega Bentivoglio – si aprirebbero due distinte strade: la maggioranza potrebbe trovare un accordo in extremis indicando un nuovo rimpasto di governo per poi cercare nuovamente un accordo in Parlamento sul documento per la Brexit”. In caso contrario la seconda strada percorribile sarebbe quella di andare ad elezioni anticipate: “In questo caso ci sarebbe con molta probabilità una proroga dei tempi rispetto alla data del 29 marzo per garantire lo svolgimento delle elezioni e la formazione di un nuovo governo per poi tornare a negoziare i termini della Brexit”. Al momento, però, pare improbabile una sfiducia alla May: “Nessuno vuole prendere quella che viene considerata una patata bollente: nessuno vuole far cadere l’attuale premier perché nessuno vuole prendersi la responsabilità di proseguire i negoziati con la Ue”.
This government has failed our country. #PMQs pic.twitter.com/ZcY39mdAFp
— Jeremy Corbyn (@jeremycorbyn) 16 gennaio 2019
Uno stallo, appunto, anche perché all’orizzonte si profilano pure le elezioni europee di maggio e la dead line di marzo era stato fissata proprio per evitare una difficile situazione in cui il Regno Unito parteciperebbe al voto per poi uscire poco dopo dall’Unione dei 27.
Tornando agli scenari, esistono altre due vie, faticose ma percorribili: “La prima sarebbe quella di indire un nuovo referendum – spiega Bentivoglio – a livello legislativo è possibile, anche se il governo si troverebbe di fronte allo scoglio di chiedere al Parlamento l’autorizzazione”. La seconda via è quella di trovare un accordo sulla cosiddetta soft Brexit, avvicinando la posizione del Regno Unito a quella attuale della Norvegia: “Il modello sarebbe quello di un’uscita dall’Ue, rimanendo allo stesso tempo all’interno del mercato comunitario e dell’unione doganale”. È l’opzione richiesta da alcuni dei ribelli in maggioranza, ma osteggiata dai parlamentari a favore di una hard Brexit.
Storicamente i rapporti tra l’Unione europea non sono mai stati facili, a partire dall’ingresso UK, nel 1973, in quella che all’epoca si chiamava Comunità europea: “I negoziati dell’epoca non furono facili – conferma Bentivoglio – La comunità europea fissò dei paletti stringenti a livello politico-economico per l’ingresso del Regno Unito e non erano vantaggiosi”. I politici britannici ne erano consapevoli. Storica fu la frase: “Mandiamo giù il boccone e mandiamolo giù intero”. Negli anni Settanta del secolo scorso le norme sfavorevoli erano a discapito del settore della pesca e del comparto agricolo in generale (oltre ad alcuni paletti riguardanti l’importazione di beni da Commonwealth britannico), ma il governo accettò di buon grado, sperando di poter modificare in seguito gli accordi: “Ciò non avvenne – dice Bentivoglio – nel 1975 i laburisti proposero un referendum per chiedere la rinegoziazione del trattato ma l’esito fu negativo”. Le tensioni aumentarono infine con la salita al potere di Margaret Thatcher. Celebre la sua frase “I want my money back”, in riferimento “alle politiche di finanziamento dei fondi per l’agricoltura considerati non favorevoli nei confronti del Regno Unito, ‘costretto’ a pagare di più rispetto al resto dei Paesi membri”.
Dal passato al presente, pure le conseguenze dell’uscita dalla Ue sarebbero elevate e ancora non del tutto quantificate: “Sicuramente ci sarebbero danni economici per la UE e per lo UK – conclude Bentivoglio – soprattutto nel comparto forte britannico nel settore dell’istruzione e della ricerca scientifica”.
Charles de Gaulle, principale oppositore negli anni ’60 all’ingresso britannico nella Comunità europea fu profetico. Disse che l’Inghilterra sarebbe entrata grazie all’apporto dei conservatori: “Per un ricorso storico, potrebbero essere gli stessi conservatori a portare fuori dall’Ue il Regno Unito”.