CULTURA

Calvino, dalla Terra alla Luna

Sono le ore 2:56 del 21 luglio 1969 quando un uomo mette per la prima volta piede sulla Luna. Si chiamava Neil Armstrong e le sue parole ancora riecheggiano nelle orecchie di chi quell’impresa l’ha seguita, almeno in televisione: “That's one small step for man, but giant leap for mankind», è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità”.

La Luna è un astro davvero particolare. Non solo perché è il più vicino alla Terra. Ma anche perché evoca una serie di immagini che sono al centro dell’attenzione non solo di scienziati e ingegneri, come nel caso dell’Apollo 11, ma anche di poeti e scrittori. Soprattutto italiani, verrebbe da dire. Non perché da Plutarco a Savinien Cyrano de Bergerac, da Giovanni Keplero a Giulio Verne, non ci siano uomini di lettere di altri paesi che non si siano lasciati ammaliare dall’immagine di Selene. Ma perché la Luna è l’astro narrante di quella che Italo Calvino definisce la “vocazione profonda della letteratura italiana”: il rapporto tra letteratura, scienza e filosofia. Tutti i grandi della storia della letteratura italiana – da Dante a Galileo, da Ariosto a Leopardi allo stesso Calvino – lasciano che sia la Luna a dipanare questo intreccio.

Prendiamo a esempio proprio gli anni delle prime imprese spaziali. Ancor prima del famoso passo di Armostrong. Il 24 dicembre 1967 su Il Corriere della Sera appare un articolo a firma della scrittrice Anna Maria Ortese. È una sorta di lettera aperta a Italo Calvino, che ha appena pubblicato il suo Ti con zero

Caro Calvino, 

non c'è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non provi tristezza e fastidio; e nella tristezza c'è del timore, nel fastidio dell'irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché.

Anch'io, come altri esseri umani, sono spesso portata a considerare l'immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte, e a chiedermi cosa c'è veramente, cosa manifesta, da dove ebbe inizio e se mai avrà fine. Osservazioni, timori, incertezze del genere hanno accompagnato la mia vita, e devo riconoscere che per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi ad un interiore equilibrio.

[...] Ora, questo spazio, non importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo, di ordine, di beltà, allo straziante desiderio di riposo di gente che mi somiglia. Diventerà fra breve, probabilmente, uno spazio edilizio. O un nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore. Non posso farci nulla, naturalmente, ma questa nuova avanzata della libertà di alcuni, non mi piace. È un lusso pagato da moltitudini che vedono diminuire ogni giorno di più il proprio passo, la propria autonomia, la stessa intelligenza, l'autonomia, la speranza.

La scrittrice, autrice di un acuto e indimenticabile Il mare non bagna Napoli con cui ha vinto il Premio Viareggio, è angosciata dal nuovo mondo tecnologico, che ha il suo emblema e insieme il suo apice nei razzi che da un decennio ormai sfrecciano con frequenza crescente nello spazio e che ora puntano alla Luna.  

La risposta ad Anna Maria Ortese è contenuta nelle stesse pagine del Corriere di quella vigilia di Natale ed è molto chiara. 

Cara Anna Maria Ortese,

guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze, si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento e ritrovo il mio equilibrio e la mia pace interiore. Non le pare di "strumentalizzarlo" malamente, questo cielo?

Io non voglio però esortarla all’entusiasmo per le magnifiche sorti cosmonautiche dell’umanità: me ne guardo bene. Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi d’una lotta di supremazia terrestre e come tali interessano solo la storia dei modi sbagliati con cui ancora i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli.

 Quel che mi interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d'un rapporto tra noi e l'universo extraumano. La luna, fin dall' antichità, ha significato per gli uomini questo desiderio, e la devozione lunare dei poeti così si spiega. Ma la luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose.

Gli exploits spaziali sono diretti da persone a cui certo questo aspetto non importa, ma esse sono obbligate a valersi del lavoro di altre persone che invece si interessano allo spazio e alla luna perché davvero vogliono sapere qualcosa di più sullo spazio e sulla luna. Questo qualcosa che l'uomo acquista riguarda non solo le conoscenze specializzate degli scienziati ma anche il posto che queste cose hanno nell'immaginazione e nel linguaggio di tutti: e qui entriamo nei territori che la letteratura esplora e coltiva.

Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un'immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di piùnella luna, vuole che la luna dica di più.Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare...

Mezzo secolo fa le polemiche sui giornali non è che fossero assenti o meno veementi. Forse, però, erano di una qualità culturale un tantino più elevata rispetto a quella dei nostri tempi.

Fatto è che la risposta di Calvino genera, come usa dire, un denso dibattito. Carlo Cassola, lo scrittore romano che aveva raccontato la guerra partigiana, essendone stato tra i protagonisti, è tra i primi a reagire alla provocazione di Calvino. Così il 31 dicembre 1967, lo stesso Corriere della Serapubblica un articolo molto duro sua firma: 

Domenica scorsa, su questo giornale Italo Calvino ha affermato che Galilei è il più grande scrittore italiano di ogni secolo. Io credevo che Galilei fosse il più grande scienziato, ma che la palma di massimo scrittore spettasse a Dante.

Che non si tratti di un improbabile gara a chi meriti la palma del migliore, ma di una messa a punto dei fondamenti stessi della letteratura e della cultura, lo dimostrano le parole che seguono: 

Ma mentirei se dicessi che l’affermazione di Calvino mi ha scandalizzato. Lo spirito di dimissioni di molti miei colleghi è giunto a un punto tale che non mi scandalizzo più di niente. L’augurio che rivolgo loro è di liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifica e della tecnologia. E se no, che cambino mestiere.

Carlo Cassola, dunque, pone due temi. Il primo è un assolutoscienza e letteratura sono dimensioni del tutto incomunicanti. Hanno nulla da dire l’una all’altra. Irrimediabilmente. Ne consegue che se Galileo è uno scienziato, non può essere uno scrittore. Men che meno il più grande. 

Il secondo tema è più contingentegli scrittori italiani son subalterni alla cultura scientifica. Una tesi che ha una versione speculare e opposta negli ambienti scientifici, secondo cui in Italia sarebbe egemone una cultura umanistica di impronta crociana e gentiliana che impedirebbe alla cultura scientifica di diffondersi nel paese sia tra le grandi masse, sia tra le classi dirigenti.

Calvino risponde anche a Cassola, con un intervento pubblicato a stretto giro su L’Approdo letterario. Partendo proprio da Dante. Cosa fa il poeta fiorentino, sostiene l’autore di Ti con zero, se non realizzare con un’opera enciclopedica e cosmologica una mappa del mondo e dello scibile e costruire, attraverso la parola letteraria, un’immagine dell’universo?  

È possibile dividerla, la risposta di Calvino, in cinque punti. 

         1. Dante è un poeta. Anzi, è il poeta della scienza. E con i suoi versi cerca di costruire un’immagine dell’universo.

         2. Galileo è invece uno scrittore, anzi il più grande scrittore della letteratura italiana. E quando, in particolare, parla della Luna raggiunge vette ineguagliabili di precisione ed eleganza.

         3. Ariosto è un poeta, cosmico e lunare

         4. Quanto a Leopardi, la sua lingua deve molto a Galileo.

         5. Esiste dunque una vocazione profonda della letteratura italiana che passa da Dante a Galileo, da Ariosto a Leopardi. E questa vocazione profonda altro non è che un ménage a troistra letteratura, filosofia e la scienza. Oggi è venuto il momento di riprenderla.

Come ricorda Massimo Bucciantini, a sostenere con forza le tesi di Calvino interviene con un articolo, Chi ha paura della scienza?, pubblicato 4 aprile 1968 in La Fiera Letteraria, anche Giulio Preti, un filosofo della scienza che è laureato a Pavia ed è stato allievo a Milano di Antonio Banfi: 

In prosa e in poesia, persino nella più nella più alta poesia, Dante ha travasato tutte le sue conoscenze teologiche, filosofiche, scientifiche. 

In realtà, continua Preti, complice la Luna, Dante ha fatto molto di più: ha ricongiunto scienza, teologia e poesia. Per esempio:

Nel Paradiso ha fatto proprio dell’argomento che tanto lo interessava, delle macchie lunari il contenuto da cui muovere per l’impostazione lirico-teologica di tutta la Cantica. Nonostante la programmatica adesione allo stilnovismo, la sua concezione della poesia e del poeta non era certo quella della spontaneità ignorante o della mera liricità autobiografica. Pensava proprio che fosse essenziale, e non solo possibile, all’arte letteraria conseguire quella fusione di precisione scientifica e di rarefazione lirica che Calvino loda in Galileo.

Non c’è davvero nessuno scandalo, dunque, nell’accostare Galileo a Dante. Non solo entrambi considerano la scienza una mappa del mondo e dello scibile. Ma entrambi raggiungono un grado di precisione e di rarefazione lirica prodigiose proprio quando parlano della Luna, proprio quando chiedono alla Luna di dire di più.

D’altra parte era stato pochi mesi prima, nel settembre 1967, che Italo Calvino, su The Times Literary Supplementaveva affrontato il tema del rapporto tra letteratura e filosofia nella narrazione del mondo. Questo rapporto – sostiene, anzi, constata lo scrittore italiano – è una lotta. Anche se entrambe tentano «di attraversare l’opacità del mondo», la letteratura cerca di coprirne con carne viva la straordinaria varietà, mentre la filosofia, «ne cancella lo spessore carnoso» e la riduce, quella varietà, a una «ragnatela di relazioni tra concetti generali». 

Il saggio di Italo Calvino sulla divaricazione tra letteratura e filosofia giunge otto anni dopo la pubblicazione di The Two Cultures, l’opera con cui Charles Percy Snow prendendo atto dell’avvenuta separazione tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica, sembra inserirsi in un alveo più generale: quello della separatezza tra ragione ed emozione. 

L’alveo del disincanto. 

Snow misura il distacco tra arte e scienza. Calvino tra letteratura e filosofia. C’è, dunque, un nuovo clima, piuttosto freddino, in cui sembra ormai consumarsi stancamente quel ménage à trois che era risultato così vivo e fecondo quando la scienza moderna stava per nascere: nel Rinascimento, il periodo degli artisti e ingegneri e matematici. Ma anche e forse soprattutto nel Seicento, quando la nuova scienza finalmente nasce e immediatamente intreccia la pericolosa congiunzione. Non a caso Galileo, pioniere della nuova scienza, primario matematico e filosofo del Granduca di Toscana, è anche: uno dei più grandi scrittori nella storia della letteratura italiana, secondo l’autorevole parere di Giacomo Leopardi, e addirittura il più grande secondo lo stesso Calvino; il fondatore di un nuovo genere letterario, il report scientifico; un poeta; un provetto disegnatore (ha disegnato da sé la Luna del Sidereus Nuncius); un abile musicista e collaboratore non passivo del padre, Vincenzio, teorico della musica; un critico d’arte, come lo ha definito Erwin Panofsky; un teologo «perspicace», come lo ha definito papa Giovanni Paolo II.

Tuttaviaa leggere più a fondo il saggio di Italo Calvino ci accorgiamo che l’analogia tra la sua tesi e quella di Charles Percy Snow non regge a lungo. Intanto perché, a differenza di quanto vorrebbe l’inglese per la cultura umanistica e scientifica, per l’italiano «l’opposizione letteratura-filosofia non esige d’essere risolta». Può restare. Deve restare: viva il conflitto! Ma anche e soprattutto perché il tentativo di attraversare l’opacità del mondo non si esaurisce affatto in un «matrimonio a letti separati» tra letteratura (o, più in generale, tra l’arte) e la filosofia, ma va visto, appunto, «come un ménage a trois» di cui è protagonista ineludibile la scienza. Lungi dal considerarlo concluso, dunque, quel rapporto Calvino lo giudica vivo. Lungi dal considerarlo superato, dunque, quel rapporto Calvino lo giudica più che mai necessario. 

È mediante questo ambiguo rapporto fra le tre dimensioni della sua cultura che l’uomo moderno costruisce «mappe dello scibile», le più utili al pilota per attraversare l’opacità del mondo, navigare tra i suoi cibernetici oceani e approdare a quella che Leonardo Sinisgalli definisce, sempre in quegli anni, una «concordia nuova», capace di placare, almeno in parte, «le inquietudini e le stanchezze del nostro tempo».

Calvino è stato il primo – magari potremmo aggiungere Gianni Rodari, il grandissimo scrittore considerato (forse un po’ sbrigativamente) per ragazzi – ad accorgersi subito che i razzi e la possibilità materiale di raggiungere per la prima volta la Luna spalancano a un mondo nuovo, in termini tecnologici e (quindi) cognitivi.

Calvino è dunque tra i primi già negli anni ’50 ad “alzare gli occhi al cielo” e a cogliere la profondità del nuovo. Lo scrittore di Sanremo va oltre la sfida delle astronavi alla forza di gravità. Si rende conto ce la tecnologia spaziale non cambia solo il mondo fruibile intorno a noi, espandendolo. Cambia noi stessi. Cambia l’uomo, appunto. Ed è con questo duplice cambiamento che occorre misurarsi. 

Un cambiamento complesso, a molte facce. Quei razzi che volano sempre più in alto sono il simbolo della potenza crescente della tecnologia, capace appunto di vincere i vincoli della gravità terrestre. Ma anche della potenza cupa della tecnologia, perché quei razzi promettono di trasportare bombe all’uranio e al plutonio sempre più potenti in pochi minuti da un capo all’altro della Terra, esponendo l’umanità al rischio dell’olocausto nucleare. Gli anni della corsa allo spazio sono, infatti, anche gli anni della corsa al riarmo nucleare. 

È questa la nuova realtà. Epica e, insieme, tragica. Calvino inizia a narrarla già nel 1957 con un racconto – il suo primo racconto cosmico – che somiglia a una fiaba: La tribù con gli occhi al cielo. E che come ogni fiaba contiene un’allegoria fin troppo chiara: la tribù protagonista, la tribù con gli occhi al cielo, ma che continua ad andare armata «di rozze asce e lance e cerbottane», non è altro che l’umanità intera. 

Calvino sostiene che di fronte alla straordinaria novità dell’esplorazione dello spazio, a sua volta emblema di una nuova società ipertecnologica, lo scrittore non può limitarsi alla contemplazione o all’esorcismo, occorre che pensi a come governarla: a come minimizzarne i rischi e coglierne le opportunità. 

Per tentare di governare il nuovo mondo in cui l’umanità è ormai sbarcata occorre raccontarlo. La fiaba è uno strumento adatto, perché è capace di accogliere e sciogliere il nuovo intreccio tra letteratura, scienza e filosofia.

Gianni Rodari segue un percorso del tutto analogo. E non è sorprendente. Ha una sensibilità politica e artistica simile a quella di Calvino. Ed è in costante dialogo con lo scrittore sanremese. Entrambi diventano, così, esponenti tra i principali di quel filone letterario, il realismo magico, che cerca forme non convenzionali di linguaggio, nuove o antiche, per raccontare e analizzare e cercare di cambiare la realtà più imminente del mondo.

Nel 1962, Gianni Rodari che finora ha scritto fiabe tutte “frutta e ortaggi” (con personaggi chiamati di volta in volta Limone o Cipollino), pubblica un libro con un titolo affatto nuovo: Il pianeta degli alberi di NataleDa ora in poi i suoi personaggi lasciano l’orto e volano nello spazio. Non è solo un’ambientazione fisica nuova. È un viaggio in un nuovo mondo, che impone anche allo scrittore un profondo ripensamento del modo e della finalità dello scrivere. Perché tutto è cambiato. Per la prima volta i figli vivono in un universo cognitivo completamente diverso da quello in cui hanno vissuto i padri e i nonni. Dunque, sintetizza magistralmente Gianni Rodari, io scrivo «per i bambini d’oggi, astronauti di domani».

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