SOCIETÀ

Che lingua fa, a Sanremo 2020?

C’è chi, tra i linguisti, ha parlato di una lingua della canzone sanremese, intendendo un italiano più convenzionale, in gran parte coincidente con quello della canzonetta ancien régime, cioè precedente la rivoluzione di Modugno e dei cantautori negli anni Sessanta: rime baciate, monosillabi e parole tronche in fine di verso, inversioni sintattiche, lessico aulico. Ma questo valeva soprattutto per il lungo periodo di crisi degli anni Settanta e Ottanta, in cui il Festival pareva destinato a spegnersi inesorabilmente.  Poi la kermesse canora si è aperta, probabilmente sotto la pressione dei discografici, anche a forme più variegate, e maggiormente coincidenti con la realtà della scena musicale contemporanea. Si pensi alle edizioni curate da Claudio Baglioni, in pieno trionfo dei social, altro elemento che ha rivoluzionato, dopo la tv, la natura stessa della manifestazione.

Non che l’edizione di quest’anno sia totalmente appiattita sulle ultime novità. Anzi, si può dire che nei testi delle canzoni in gara siano compresenti un po’ tutte le fasi della storia linguistica della canzone italiana. Da una parte c'è la tradizione che sa un po' di già sentito (per esempio: “ti chiedo scusa se non ti ho mai detto /quanto ti voglio bene / tu che hai trovato sempre un posto / dove nascondere le mie paure / e che l’orgoglio è solo un mostro / che ci fa solo allontanare” [Giordana Angi] o “Perché amarsi è respirare i tuoi respiri / stracciarsi via la pelle e volersela scambiare” [Tosca]) dall'altra c'è la canzone d’autore, più attenta a una certa qualità linguistica, con figure e metafore parapoetiche (“Noi, siamo luci di un’altra città / siamo il vento e non la bandiera, siamo noi. / Noi, siamo gli ultimi della fila / siamo terre mai viste prima, solo noi / ciao tu, freak della classe / “femminuccia” vestito con quegli strass / prova a fare il maschio / ti prego insisto /fatti il segno della croce e poi / rinuncia a Mefisto” [Levante]); poi c'è una parte più pop, più vicina a fenomeni del parlato (come la dislocazione a sinistra, il che polivalente), ai linguaggi giovanili e anche, quest’anno, con un insolito tasso di parole “forti”, ma ormai desemantizzate nella quotidianità (stronzo in Masini, già autore di un celebre bella stronza, e in Rita Pavone; miincazzo in Anastasio; casino qua e là nei testi dei gruppi, come i divertenti Pinguini Tattici Nucleari); tutti però con un unico imperativo, anche se sempre più evaso nel corso del tempo (almeno da Carmen Consoli in poi): che le parole siano al servizio della musica, costrette e condizionate nella camicia di forza della “mascherina” musicale, e non viceversa. La poesia ha in sé tutti i sensi; la lingua della canzone ha bisogno, come può sembrare ovvio, della musica per aggiungere un senso al testo. E poi c’è il rap (e la trap).

Come è naturale, ai linguisti non può sfuggire il fenomeno del rap, dove la parola, privata o quasi della musica, ma non del ritmo, diventa prosodia metropolitana, ha una sua nudità e crudezza, a ricordare l’ambiente delle origini, i ghetti neri dei grandi slums americani. In Italia il rap ha un percorso particolare: nato come fenomeno di nicchia con i migliori artisti della prima stagione (i Caparezza, i Fabri Fibra, i Frankie High Energy, le posse), con tutto l’armamentario tipico del genere (improvvisazione free style, parole a raffica, rime a sorpresa calembours, riferimenti politici e sociali) non del tutto dimentico della tradizione cantautorale, dopo un quindicennio è diventato mainstream (si pensi ai casi Fedez, J-Ax, Marracash, Guè Pequeno, e il Tha Supreme che domina le classifiche giocando sulla somiglianza grafica tra cifre e grafemi). Infine la trap delle migliaia di visualizzazioni, con i suoi contenuti politicamente scorretti (sesso, soldi, sostanze), di cui ci sono esponenti anche nel Festival di quest’anno (Achille Lauro, il discusso Junior Cally). Ma poi, a Sanremo, tutto viene omologato e metabolizzato nella logica del Grande Evento (“giuro la smetto con sta storia del rap / voglio scrivere canzoni d’amore per la mia ex / trovarmi un lavoro serio e diventare yes man / insultare tutti sì ma solamente sul web” [Junior Cally]).

Tutti i conduttori, Amadeus compreso, si affannano ogni anno a ricordare che “al centro c’è la musica”. Ma non è vero. La musica spesso rimane ai margini, in un calderone intermediale in cui c’è “di tutto e di più”, come recita il pay off della Rai generalista che sull’audience di Sanremo (e sui relativi introiti pubblicitari) fonda una bella fetta dei suoi bilanci. Tutti pazzi per Sanremo, dunque. Intanto la musica che gira intorno forse prende altre strade. Almeno sino all’anno prossimo.

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