Entro con molto ritardo in questo dibattito sul futuro delle città, in cui si sono già ampiamente espressi molti urbanisti e studiosi amici.
Vi entro in ritardo e non senza incertezze: è un’epoca in cui le inquietudini hanno avuto ampia circolazione e si sono sviluppati movimenti diversi, apparentemente contraddittori, che possono preludere a molte cose di segno opposto.
Certamente a lungo si è parlato di abbandono da parte di molti di grandi città dove erano vissuti per anni, più o meno soddisfatti. Sento parlare in questo senso, più e più volte, di San Francisco, dove molti professionisti, stremati dalle vicende pandemiche, dalle restrizioni, dalle misure prudenziali assunte con grande tempestività, avrebbero chiuso le abitazioni e si sarebbero messi in viaggio, non sempre con una meta precisa. Va ricordato che a San Francisco la chiusura o clausura è durata più a lungo che non altrove, data la prudenza del governatore. Non solo: la città è apparsa stremata anche a causa degli ampi incendi che l’hanno circondata, avvicinandosi pericolosamente alle abitazioni.
Si è preferito andare in direzione di mete non ben precisate, piuttosto che continuare una snervante attesa, quando era sempre più chiaro che nulla sarebbe stato più come prima. Vari italiani ad esempio si sono allontanati da questa bella città, logorati da mesi difficili, dalla mancanza di aiuti statali. È da ricordare una vignetta di successo in cui si vedeva l’allora presidente Trump che gettava da un aereo una pala, segno di tutti gli aiuti che la California avrebbe potuto attendersi da lui.
Si ipotizza da parte di vari docenti universitari di continuare con le lezioni on line, lì decisamente più popolari di quanto lo siano state e lo siano in Italia, dove abbiamo visto più volte manifestazioni di ragazzi e bambini che chiedevano il ripristino dell’insegnamento de visu, la riapertura delle scuole, sia pure ‘in sicurezza’.
Si è anche sentito molto parlare, nel pieno della pandemia, di tendenze all’abbandono delle grandi città, del ripopolamento di paesi che erano sembrati avere problemi di spopolamento.
Una tendenza che andrà avanti, che penalizzerà i grandi agglomerati urbani, che favorirà un rilancio di paesi e campagne? A un certo punto è sembrato che così potesse essere, che si trattasse di una tendenza condivisa nonostante le forti diversità di spazi, di situazioni, di luoghi.
Sono certamente entrati in qualche modo in questi discorsi, in queste scelte molti fattori: l’insicurezza generale e la paura, l’idea di non volere sottostare ancora a decisioni prese dall’alto, vissute come pesantemente contrarie a quanto si sarebbe voluto. Il respingimento della politica dei vaccini, inizialmente, da parte di leader come Trump, come il premier inglese, per non parlare di Bolsonaro e altri che hanno penalizzato larghe fasce della popolazione, che hanno reso insicura la vita in grandi centri urbani, a New York così come a Londra e altrove, in certi periodi.
Le case di cura, i centri per anziani si sono rivelati a loro volta, un po’ ovunque, parti fragili delle realtà urbane; negli Stati Uniti così come in Cile o in Australia e altrove.
D’altro canto è pur vero che, in Italia e altrove, piccoli paesi si sono rivelati particolarmente a rischio, per cui sono stati chiuse per settimane le vie di accesso e si è proceduto a un drastico, crudele, protratto isolamento. Molti anziani si sono ammalati, sono morti senza un parente accanto. Né questi sono potuti giungere per le esequie: un fatto inedito e impensabile, fino a poco prima.
A me sembra che un primo punto evidente è quello della forte diversità di certe situazioni, della grande sperequazione occorsa tra diverse situazioni e contesti.
Dove non è stato possibile cercare di isolare certi luoghi, certi ambienti, dove non è stato possibile fare opera di isolamento e prevenzione e cura, ad esempio in Brasile o in India, l’epidemia ha avuto ogni possibilità di diffondersi e colpire, di sfoltire notevolmente la folla di gente che viveva in strada, perché priva di abitazioni, adusa a sopravvivere con poco.
La pandemia non rimarrà certo senza conseguenze, per quanto riguarda il nostro prossimo futuro.
Una prima, evidente conseguenza sarà, credo, quella di acuire le differenze sociali. In California, dove il governatore ha preso provvedimenti di chiusura per tempo, non si è evitato per questo il Coronavirus, che tuttavia ha colpito più i messicani in situazioni difficili, costretti magari a dormire in strada, al riparo di qualche tenda, e gli americani rovinati, costretti dalle politiche trumpiane a vivere in macchina, non più in grado di affrontare le spese di affitto di un appartamento, che non i più fortunati abitanti. Altrove le cose sono andate anche peggio. In certi casi si è verificata una certa fuga dalle città, più che non una nuova immissione di personaggi in cerca di occasioni di vita migliore.
Non si è più sentito parlare tanto di megalopoli, il concetto di città mi sembra avere ripreso un suo spazio.
Con tutte le eccezioni possibili, forse nel nostro immediato futuro la preoccupazione per eventuali recrudescenze potrà contribuire a frenare viaggi di piacere, spostamenti non necessitati. In un certo senso mi sembra che il fenomeno abbia inciso anche sulle migrazioni italiane: non pochi giovani uomini e donne sembrano avere deciso di tornare indietro da luoghi di migrazione anche riusciti, o di esplorare la possibilità dei rientri: salvo magari a ripensarci ancora, vista la difficile situazione italiana, il degrado di certe città, il livello non incoraggiante di certe remunerazioni, la mancanza di fondi destinati a università e ricerca.
Difficile fare previsioni, in una situazione di generale incertezza. Pure, con riguardo all’Italia si sono avute purtroppo recenti analisi che scoraggiano l’idea di grandi sviluppi riguardanti città pure consolidate e note. Roma non è mai divenuta megalopoli, non ha mai superato il fatidico limite dei tre milioni di abitanti, cui si pensava già a fine anni ’70. Persiste il problema degli spazi inutilizzati tra un’area abitata e l’altra: non è facile ovviare a posteriori a storture pregresse. Il degrado della città sembra essersi acuito negli ultimi anni, con un manto stradale in difficoltà nelle zone un tempo considerate più abbienti, tipo Salario o Parioli, oltre che nel centro storico, con una folta vegetazione che ha invaso vie e marciapiedi, con una documentata invasione di animali in cerca di cibo, da gabbiani che rompono i sacchetti della spazzatura ai cinghiali, senza dimenticare piccioni e pappagalli.
La pandemia ci ha costretto in orizzonti più ristretti del solito: inevitabilmente abbiamo avuto sotto gli occhi molte situazioni italiane. Per quanto mi riguarda, ho potuto leggere con attenzione alcuni interventi pubblicati in questa serie “La città dopo la pandemia”, e anche prese di posizione pubbliche: penso all’intervento di Paolo Berdini su La fine delle città, l’umiliazione dei cittadini (Left 4 giugno 2021, pp.10-13). Lo studioso deplora il fatto che stando al Recovery Plan il rilancio dell’economia non prevederà investimenti riguardanti i centri urbani. Si incentiva in genere il restringimento dei margini di guadagno delle imprese subappaltatrici: con le prevedibili conseguenze dell’abbassamento delle qualità delle opere e anche, certamente, con carenze riguardo alle misure di sicurezza intese a tutelare i lavoratori (p. 11). Un secondo elemento di dubbio avanzato da Berdini riguarda il fatto che le opere strategiche sarebbero decise da commissari demandati ad hoc e dall’accentramento di funzioni presso la Presidenza del Consiglio. Ancora, un terzo elemento ostativo, particolarmente allarmante, viene individuato nel depauperamento progressivo delle Soprintendenze di Stato: sempre più prive di risorse umane, oltre che economiche. Il concetto è che se le Sovrintendenze, così messe in difficoltà, non risponderanno in tempi stretti, subentrerà una struttura parallela legata all’esecutivo. Non solo: il risanamento dovrebbe farsi «senza investire nel tema delle città. Non c’è infatti un capitolo ad esse dedicato, eppure è proprio nelle città che si soffrono le contraddizioni sociali più acute e si scontano ritardi intollerabili nelle moderne dotazioni di sistemi di trasporto in grado di favorire lo sviluppo delle imprese».
Quindi: paesi abbandonati e vieppiù spopolati, città lasciate all’incuria, alle varie emergenze. Scrive lo studioso che «la questione ambientale è scomparsa dall’agenda del governo» (p. 13): eppure quanto è accaduto dovrebbe indurre ripensamenti con riguardo all’ambiente e alla sua dissoluzione, all’inquinamento galoppante. Un problema che in Europa non riguarda del resto la sola Italia e che è purtroppo ben presente anche in altri lontani contesti, come ben sanno ad esempio alcuni paesi dell’America Latina ma anche dell’Africa e del lontano Oriente.
Date queste premesse, cosa si può ipotizzare circa le città, in un prossimo futuro?
Direi, città contraddittorie. Abbandonate all’incuria, da un lato. Dall’altro, con zone che, al contrario, vivranno una nuova fiorente stagione grazie agli abitanti, alla loro capacità organizzativa, al loro impegno che ormai è sempre meno un fatto individuale, sempre più un fatto collettivo, che si concretizza in impegni associativi riguardanti il territorio e le sue molteplici esigenze.
Esemplare in questo senso mi sembra quanto occorso a Corviale, zona di Roma particolarmente e negativamente nota per il lungo palazzo che da subito aveva vissuto notevoli traversie, con il quarto piano occupato, con catene e lucchetti a impedire passaggi estranei: con l’esclusione, quindi, dei negozi ipotizzati e la conseguente difficoltà di rifornimenti rispetto anche a necessità primarie.
Ci sono stati anni di tentativi di miglioramento della situazione, ma in realtà la zona è rimasta a lungo poco e mal collegata al resto della città, e l’isolamento è cresciuto toccando diversi piani, da quello urbanistico a quello sociale.
A me sembra di poter dire che dopo vari tentativi, dopo diverse partenze, una realtà locale detta “Corviale domani” ha saputo aprire rapporti costruttivi con la Regione Lazio e con altre realtà impegnate sul territorio, ha aperto e consolidato rapporti con le università romane, coinvolgendo non solo architetti e urbanisti, ma anche antropologi e sociologi. Ha puntato sul rilancio del territorio che un po’ per volta si è lasciato alle spalle la dizione di quadrante privo di pregi ed ha attirato l’attenzione per le potenzialità sportive, in una prima fase.
Poi, in quest’anno di pandemia, ha costruito una serie di incontri tematici sugli aspetti più problematici del territorio, sempre in accordo con la Regione Lazio, che ha seguito e moderato con efficacia gli incontri. Incontri ricchi di ipotesi, di interventi, di associazioni e partecipanti. Non si è discusso solo di urbanistica. Sono stati presi in esame vari aspetti problematici, si sono prospettate ipotesi risolutive, modifiche, interventi. Si è giunti infine a vuotare, un po’ per volta, il famigerato quarto piano: coloro che ne sono usciti lo hanno fatto avendo già ottenuto l’assegnazione di una casa popolare altrove.
Gli incontri tematici, esplorativi delle diverse necessità e urgenze, si sono susseguiti on line durante tutto il periodo della pandemia, con una costante, ampia presenza di associazioni locali e non, con appassionati interventi di molti che da anni si sono impegnati su questa zona.
Per farla breve, dirò che il tema della rigenerazione di Corviale è stato ampiamente trattato, ipotizzato, previsto. Che si è infine giunti alla firma da parte di una settantina di associazioni con la Regione Lazio del piano operativo o masterplan: firmato, per la Regione, dall’assessore Massimiliano Valeriani, che con i suoi collaboratori aveva seguito tutto questo lungo e complesso iter, il 19 maggio 2021. Valeriani ha insistito sul coinvolgimento economico della Regione Lazio, sull’importanza del parere degli abitanti circa le priorità degli interventi, delle scelte.
Ora, il libro dei sogni di Corviale rischia di diventare realtà. Dovrebbe diventare realtà.
Quindi, sia pure con le dovute cautele, si potrebbe ipotizzare, per il futuro delle città, esiti positivi, mutamenti strutturali in meglio almeno per le zone più impegnate sul territorio, per le zone dove si sono sviluppate e operano associazioni ben radicate sul territorio, capaci non solo di un duraturo impegno, ma anche di aprire vie di incontro e comunicazioni, anche tra di loro, e di fare tesoro di esperienze simili, occorse altrove.
Si tratta di itinerari lunghi e complessi, che non sempre sono di facile realizzazione: mi attendo che le città del dopo pandemia abbiano al proprio interno spinte progressiste di questo genere, con capacità di autorappresentazione dei bisogni e di stringere accordi in merito con gli enti locali, insieme alle altre associazioni e presenze intese all’uso corretto del territorio. E, insieme, il protrarsi del degrado, di cui abbiamo fatto molta esperienza, in altre pari della città, che potranno vedere incuria nella manutenzione se non una completa assenza in merito, da cui rischi – in realtà, una quasi sicurezza – di allagamenti alle prime importanti piogge, con tutte le relative conseguenze di difficoltà e perdite per molti cittadini.
Queste città credo che inizialmente potranno attirare gente relativamente giovane, già all’estero: ci sarà chi ricorrerà al rientro dei cervelli per poter rientrare in patria, prendersi magari cura di genitori ormai anziani ecc. Le università, oggi notevolmente impoverite rispetto al passato, non potranno che vedere favorevolmente questi spostamenti, queste immissioni di nuove forze che portano con sé capacità, novità, contatti internazionali. Ma quanto durerà il tutto? Per quanto tempo coloro che sono rientrati potranno vivere in contesti sempre più burocratizzati, sempre più caratterizzati da abitudini e mentalità burocratico-formali, in cui il rischio è quello di un ampliamento, se non una vera e propria ossessiva attenzione per la correttezza formale, a scapito magari di quella sostanziale? Varie università italiane hanno cercato di discutere i dettati dell’Anvur, ad esempio. Ma ad oggi l’Anvur detta leggi, indirizza fortemente scelte e realizzazioni di coloro che hanno comunque bisogno di un giudizio favorevole su qualche loro scritto, ai fini di un avanzamento di carriera. Le riviste indipendenti sono in numero sempre minore, le case editrici universitarie sono tenute sempre più ad ascoltare il parere di referees a volte formalmente attentissimi anche alle virgole. La sostanza è altra cosa, e magari sfugge totalmente al giovane dottorando o addottorato che sempre più spesso è demandato a questi compiti.
Città contraddittorie, divise al loro interno, con movimenti di persone in entrata e in uscita. In cui, temo, rischiano di protrarsi condizioni di sfruttamento già oggi ben presenti, in cui le differenze sociali rischiano di essere più rilevanti di quelle odierne anche grazie alla pandemia che ha messo in difficoltà imprese ed esercizi di vario tipo, ha indotto difficoltà economiche, povertà, e in certi casi ha impedito a molti di effettuare gli usuali controlli medici. Gli esercizi che riaprono dopo una lunga chiusura probabilmente lo faranno impiegando un minor numero di persone e magari queste saranno retribuite in modo decisamente modesto, per non dire sfruttatorio: ho sentito che in certe città oggi ci sono persone, uomini e donne, che lavorano 10 ore al giorno con una retribuzione di 110 euro a settimana.
E poiché, come è ben noto, sono stati molto colpiti i giovani, costretti a interrompere rapporti usuali, amicali, sociali, amorosi, c’è da attendersi che, almeno in certi casi, in certe zone urbane, i giovani si prendano delle rivincite, ignorando magari divieti e suggerimenti, invadendo piazze, strade, protraendo oltre ogni limite le loro notti brave, con possibili conseguenze anche pesantemente negative, come si è visto in questi ultimi mesi, quando si sono avuti investimenti e uccisioni nelle vie urbane. Così c’è da ipotizzare che la devianza possa avere, nelle città del nostro prossimo futuro, un certo spazio: anche in questo caso, sembrerebbe, con un abbassamento dell’età dei diretti interessati.
Quindi, città con molte tendenze innovative, tra cui attenzione ecologica, al territorio, con un maggior coinvolgimento degli abitanti nelle decisioni riguardanti il contesto. Ma, insieme, regressioni e violenze, sfruttamento dei meno difesi. Passi indietro…