SOCIETÀ

Come dirti addio: dalle lettere d’amore… al ghosting. Storia di un cambiamento di paradigma

Qualche mese fa è uscita per Neri Pozza nella sua collana Bloom (quella che di solito ospita i romanzi “neri”) un’antologia a cura della scrittrice e giornalista Cristina Marconi che si è messa a selezionare qualcosa che per noi lettori (e non solo lettori) degli anni venti del Duemila è diventato decisamente desueto, se non proprio qualcosa di completamente inattuale. A chi è capitato infatti di ricevere, di questi tempi, una lettera d’addio? Chi si prende la briga di spiegare all’altro cosa sta succedendo e soprattutto di farlo scrivendo?

Cristina Marconi in Come dirti addio seleziona cento lettere d’amore da Saffo (VII secolo a.C.) a Leonard Cohen (2016) e la prima cosa che si osserva è proprio che la maggior parte di quelle che ha scelto sono del XVIII- XIX e XX secolo. Certo, Marconi non ha operato in modo sistematico, ma si è mossa per istinto. Sono lettere quelle che decide di farci leggere che rappresentano amori che rinascono sotto nuove forme (Elizabeth Barrett a Robert Browning in procinto di andare a vivere insieme):

Arrivederci tra le tre e mezza e le quattro, dunque – alle quattro non sarà tardi, presumo. Non scriverò più – non posso. Entro domani a quest’ora, avrò solo te, per amarmi – amore mio! Elizabeth Barrett a Robert Browning

amori che non sono stati definiti tali (tra due donne per esempio, come la poetessa Emily Dickinson e la cognata Susan):

… Abbiamo camminato molto piacevolmente – Forse questo è il punto nel quale le nostre strade divergono – allora vai avanti cantando Sue, e sulla collina lontana io continuerò il viaggio. Emily Dickinson a Susan Gilbert

rifiuti in punta di penna e rifiuti colossali e sfacciati (Flaubert a Louise Colet):

Signora, ho saputo che vi siete presa il disturbo di venire qui da me, ieri in serata, per tre volte. Non c’ero […] il saper vivere mi impone di avvertirvi: non ci sarò mai. Gustave Flaubert a Louise Colet

ed escludono, per scelta della curatrice, le lettere di addio alla vita.

Scrive Marconi nella prefazione: “I più ottusi osservatori del mondo delle lettere d’amore potranno festeggiare la loro vittoria di Pirro: è vero, la lettera è morta, ma la parola scritta non è mai stata meglio. La tecnologia, che inizialmente pareva tutta al servizio dello scambio orale, ci permette di scriverci in continuazione, con un ruolo sempre maggiore per l’immagine e la sensazione di non essere mai davvero lontani, mai davvero separati, sospesi nella sfera delle cose dette e non dette, sapendo che ci sarà sempre una rete, letterale e figurata, a metterci in condizione di ricongiungerci in qualche modo, di non separarci, di guardarci da lontano”.

E come però, attraverso il telefono, abbiamo la sensazione di non essere mai davvero lontani, con un clic possiamo a tutti gli effetti diventarlo: basta non rispondere più, cancellare un contatto, bloccarlo, rendersi irreperibili. Se da una parte, dunque, all’inizio di una relazione, la chat onnivora e pervasiva si è sostituita alla pacatezza della lettera d’amore (che impiegava un certo tempo a giungere a destinazione e forse anche un certo tempo di meditazione per essere scritta), dall’altra il silenzio immediato e senza giustificazione sostituisce la lettera d’addio. Si chiama ghosting ed è un fenomeno sempre più diffuso: ne abbiamo parlato con Vincenzo Romania, docente di Sociologia all’Università di Padova.

Professore, perché oggi si fa ghosting, e si fa così tanto?

Il ghosting non è qualcosa di nuovo o necessariamente più frequente di una volta. Si prenda questa vignetta di Dylan Dog: risale agli anni Novanta e già da lì si capisce che – persino per un eroe dei fumetti, e già da allora –è possibile immaginare i peggiori incubi ma la cosa che spaventa di più è un amore che si credeva reale e che d’improvviso scompare, perché il senso di quella relazione scompare insieme ad esso. È il senso di realtà a essere fortemente intaccato.

Quello che negli anni è cambiato sono i contesti in cui il ghosting avviene, perché, come ogni fenomeno sociologico, anche questo tiene insieme aspetti molto diversi e di elevata complessità.

A farla da padrone è il ghosting delle applicazioni di dating che in un certo senso già nascono, senza che di ciò gli utenti ne siano in alcun modo consapevoli, con un orientamento in tal senso. Sono infatti architetture che permettono estrema velocità nella scelta del partner perché la si compie con un semplice gesto sul device (il cosiddetto “swype”) così le interazioni possono essere moltissime in poco tempo. Di conseguenza l’utente comincia a pensare non solo che – come un po’ è sempre stato –l’amore e l’innamoramento siano un gioco, ma adesso addirittura un videogioco.

Così chi le usa non percepisce quel senso di realtà che contraddistingue la vita offline, e chi agisce il ghosting non è nemmeno pienamente consapevole di cosa fa. Le applicazioni di dating, per esempio, vedono un forte sbilanciamento di genere per quanto riguarda i contatti: ci sono dei profili molto più ricercati (in genere quelli femminili) e altri che invece agiscono la ricerca. Chi riceve centinaia di richieste da potenziali partner necessariamente ne ignora o abbandona qualcuna, e in questo processo non compie per forza un atto violento, perché è il design stesso della relazione che lo permette, quasi lo autorizza.

La dimensione romantica della lettera di chiusura, che manca, diventa a volte un lungo messaggio scritto o registrato vocalmente e lasciato su un social network o addirittura un assoluto silenzio: una dimostrazione di forza nella capacità di rompere.

Ma perché accade?

Si può decidere di scomparire da qualcuno di violento, o che è stato troppo insistente nei nostri confronti, oppure scomparire in maniera ingiusta secondo altri criteri etici, perché avevamo creato un’identità irreale, ad esempio, o perché non siamo più in grado di gestire quel rapporto, oppure perché abbiamo paura di avere una vera relazione. Non tutti quelli che fanno ghosting sono dei cinici indagatori del malessere altrui.

Eppure non succede solo sui social network o sulle app di incontri…

Un elemento che in passato solitamente diminuiva la possibilità che qualcuno sparisse senza lasciare tracce era il controllo operato dalle cerchie sociali in comune costituite dagli amici o dalle relazioni parentali, cioè sostanzialmente il “doverci mettere la faccia” da parte di chi avrebbe voluto sparire ne inibiva di fatto la sparizione. Il rapporto interrotto aveva un’influenza negativa sulla reputazione e chi lo operava sentiva una sorta di commitment a dare una spiegazione. La stessa radice di comunicare (che viene dal latino communis) mostra infatti l’obbligo di dare una risposta all’altro.

Più cresce la complessità della vita, più si ampliano i contesti, che diventano metropolitani, cosmopoliti addirittura e aumentano il numero di gruppi con cui interagiamo e le cose che facciamo, così diviene molto più facile avere relazione “lasche” e si dispone molto meno degli "ammortizzatori relazionali".

Paul Watzlawick della Scuola di Palo Alto ha studiato gli effetti che le relazioni personali hanno nell’insorgere di alcune patologie ed è emerso che spesso le persone non riescono a problematizzare le cornici implicite delle proprie relazioni, non riescono cioè a metacomunicare.

Cosa significa?

Che in qualsiasi relazione ci sono degli impliciti (uno dei due è più bravo a fare certe cose, e l’altro a farne altre, uno ha determinate passioni/idiosincrasie  e l’altro altre eccetera), ma quando la relazione non funziona dovremmo essere capaci di mettere in discussione questi impliciti. Ciò richiede di essere estremamente consapevoli di sé e di saper analizzare cosa sta accadendo, cosa più facile per chi non ci si trova coinvolto (i terapeuti per esempio). Chi pensa che il modo migliore per risolvere la problematicità di un rapporto sia chiuderlo senza spiegazioni, cioè “scappare”, ha lo stesso problema identificato da Watzlawick per persone che, di contro, mai si muovevano dalla stessa cerchia, e pertanto non erano in grado di mettere in discussione il loro stato. Ci possono essere invero situazioni in cui la fuga è dettata dall’incapacità dell’altro a interrompere la relazione, ma generalmente un rapporto che costituisce un danno per uno e entrambi i componenti in relazione andrebbe prima problematizzato e poi interrotto.

Il ghosting è un fenomeno patologico o è semplicemente una modalità di comportamento?

Il ghosting non è necessariamente un comportamento narcisistico o patologico ma, per citare Bauman di Intervista sull’identità, abbiamo preso un habitus relazionale di questo genere. La società patologicizza, per assurdo, quasi di più chi non sa staccarsi da una relazione di chi si allontana senza dare una spiegazione.

Il patologico si è spostato dal livello morale e individuale a quello collettivo. Quindi la patologia sta piuttosto, citando il sociologo Hartmut Rosa, nell’incapacità di sentire la risonanza con gli altri e con l’ambiente, come se ci fosse un muro che non ci fa mai incontrare perfettamente l’altro: siamo plurimpegnati e mai pienamente presenti. Il ghosting può essere visto anche come la manifestazione di un problema più ampio: l’incapacità di prendere pochi impegni relazionali e di approfondirli fino in fondo.

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