CULTURA

I Comunisti e il fumetto cattivo e capitalista

Il Pioniere inizia le pubblicazioni il 10 settembre 1950. È un giornale per ragazzi. Direttore un giovane giornalista emergente: Gianni Rodari. Il Pioniere è un giornale che afferisce al Partito Comunista Italiano e non è accolto affatto bene dalla stampa più moralista. In particolare dalla stampa cattolica più integralista. Viene accusato di proporre tesi classiste in forma surrettizia, non comprensibile per i fanciulli. Viene accusato, appunto, di deviare i ragazzi, non di educarli.

Ma questi attacchi, provenienti dal campo politico e culturale più conservatore, sono messi in conto da Gianni Rodari. Sono attesi. E tuttavia visioni diverse e opposte sulla forma e sulle funzioni che deve assumere la pubblicistica rivolta ai ragazzi, come abbiamo detto, non separano solo i diversi schieramenti politici: li attraversano. 

Ben presto Gianni Rodari si trova coinvolto in una polemica sul «problema dei fumetti» tutta interna al partito. E al massimo livello. Con Palmiro Togliatti in persona

Come esordio da direttore di un giornale comunista davvero non c’è male.

La vicenda è stata ben ricostruita da Alessandro Sanzo. Tutto inizia con il «Mese della stampa giovanile democratica» organizzata dal Partito comunista proprio nel 1950. Tema di discussione proposto un po’ da tutte le Federazioni  del PCI in ogni parte d’Italia sono appunto i fumetti. Il fatto è che l’approccio non è affatto univoco. Molti giovani e meno giovani del Partito i fumetti li leggono e li usano. Anche per fare azione politica. L’edizione milanese de L’Unità, per esempio, ha pubblicato nel 1947, complice Rodari, una striscia quotidiana a fumetti, Stella e Tom. E due anni dopo l’edizione nazionale del quotidiano comunista ha pubblicato un supplemento a fumetti curato dal medesimo Gianni Rodari. Il genere è frequentato regolarmente da riviste del partito come Noi DonnePattuglia Avanguardia

Le preoccupazioni di Berlinguer    

Tutto questo non piace affatto al gruppo dirigente del partito. E neppure a quello della FGCI, la Federazione giovanile comunista, che, come sostiene il suo segretario, Enrico Berlinguer, considera i fumetti un genere «cattivo in sé», creato in America per proporre valori e stili di vita tipici del capitalismo, per narcotizzare le menti, allontanarli dalla lettura seria e impedire ai giovani di pensare

In un discorso pronunciato nel 1948 a Torino davanti a operai altrettanto giovani, il giovane dirigente comunista, riferendosi alle nuove espressioni della comunicazione popolare proveniente dagli Stati Uniti, sostiene: «La borghesia italiana vorrebbe che i giovani italiani fossero educati come i giovani americani, secondo le concezioni dell’americanismo».Per questo, con ogni mezzo importato dall’America, dalle riviste a fumetti ai film di Hollywood, «cerca di far credere alle ragazze lavoratrici che il loro ideale deve essere quello di diventare l’amante del loro padrone […], esalta davanti ai giovani le gesta di banditi, di gangsters o, il che non cambia, di banchieri americani facendo loro credere che un giorno potranno diventare banchieri o affaristi». La borghesia vorrebbe «far sì che i giovani attendano, rinuncino a lottare, accettino le regole della libera iniziativa, accettino i principi immortali ed eterni secondo i quali la società deve essere divisa tra sfruttati e sfruttatori, tra padroni e servi». Ai giovani comunisti, sostiene ancora Enrico Berlinguer, spetta il compito di respingere questi modelli culturali e impedire che «penetri nella gioventù lavoratrice una concezione morale che conduce inevitabilmente alla disperazione e alla disgregazione delle sue fila, una concezione che trascinerebbe inevitabilmente decine di migliaia di giovani sulla via del banditismo, della delinquenza, del suicidio e della prostituzione, sulla via della sottomissione e della sconfitta».

I toni sono quelli del confronto senza mediazioni fra sistemi. Ma le conseguenze dell’analisi sono chiare. È per tutto questo – per affermare un principio di democrazia della conoscenza, ma anche per costruire modelli culturali alternativi con cui radicarsi profondamente nella società italiana – che la scuola e l’educazione dei giovani sono al centro dell’interesse del PCI. E, come nota Carmine De Luca: «È anche alla luce dello svolgimento di questo dibattito che occorre leggere gli scritti di Rodari sulla scuola e sui giovani e riconsiderare le iniziative che a lui vengono affidate». 

Ed è così che su Gioventù Nuova, organo ufficiale della Federazione giovanile, viene aperto il dibattito per stabilire la corretta linea sul giudizio da dare e sull’uso da fare dei fumetti

È un dibattito intenso, cui partecipano funzionari e semplici militanti. La lunga teoria di interventi è aperta da Marisa Musu. È sbagliato, esordisce la giovane dirigente, attaccare la “forma fumetto” accusandola di essere negativa in sé, intrinsecamente “cattiva”, perché addormenterebbe inevitabilmente la fantasia, minerebbe lo spirito di iniziativa dei giovani e li costringerebbe necessariamente a una lettura schematica del mondo, portandoli lontani dalla realtà, in un altro mondo fantasioso, falso e irreale. Certo, continua Marisa Musu, i fumetti non possono essere considerati un nuovo genere letterario: tant’è che in Unione Sovietica neppure esistono (l’argomento può sembrare bizzarro, ma come vedremo viene riproposto anche da altri). Certo, continua Marisa Musu, i fumetti sono uno strumento inventato dalla borghesia per cloroformizzare i giovani proletari, negandogli ogni seria possibilità di migliorare la propria cultura. Ma bene farebbero i giovani comunisti ad attaccare non il fumetto in sé; bensì i contenuti che certi fumetti – in primis i fotoromanzi del Grand Hotel – veicolano. Di più, sostiene Marisa Musu. Dobbiamo noi stessi usare i fumetti in tutti quei casi in cui riteniamo possano aiutarci a migliorare la nostra capacità di comunicare con le masse popolari, cui difficilmente potremmo arrivare «con forme più elevate di propaganda». 

La discussione sul periodico della FGCI prosegue con interventi pro e contro le tesi di Marisa Musu e, come è di prammatica per le questioni importanti, viene conclusa a fine anno da un autorevole esponente del partito, nel caso: Giancarlo Pajetta. Le questioni interessanti – sostiene il dirigente “adulto” del PCI in un articolo che chiarisce anche l’intenzione con cui è stato fondato Il Pioniere– che sono emerse nel corso della vostra discussione sono due: da un lato, prendere atto e analizzare il successo dei fumetti e di tutte le altre espressioni di letteratura deteriore, che riescono a catturare l’attenzione di grandi masse popolari; dall’altra l’esigenza di non fermarsi alla denuncia, ma di trovare un antidoto al veleno.  

Il fatto è, sostiene Pajetta, che nei fumetti non è possibile separare la forma dal contenutoMen che meno è possibile proporre un «fumetto comunista». Il genere è intrinsecamente cattivo. Il fumetto non è la semplice illustrazione di una storia, è: «un racconto abbreviato, impoverito, fatto solo di stupido e arido dialogo, la sua stessa forma corrisponde al miserabile contenuto che ha la letteratura borghese decadente di oggi, la “cultura” che la borghesia è disposta a dare ai giovani ai quali non assicura né un serio studio né una seria istruzione professionale, ai quali non può dare nessun ideale nazionale e sociale».

Quanto all’antidoto a questo veleno esso è la militanza culturale attiva: far leggere di più i giovani. Organizzando, per esempio, letture collettive di romanzi e di poesie. O distribuendone le pagine più importanti e interessanti casa per casa, fabbrica per fabbrica. Insomma l’educazione informale dei giovani deve diventare un impegno politico del partito.

Giancarlo Pajetta chiude la discussione, sbarrando la porta ai fumetti, su Gioventù Nuova. Ma il tema resta di stringente attualità e viene ripreso su altri organi di stampa. Anche perché la questione dei fumetti viene portata in Parlamento da un gruppo di deputati democristiani che, con la proposta di legge sulla Vigilanza e controllo della stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza – prima firmataria Maria Federici Agamben – chiede né più e né meno la censura preventiva, appunto, sulla stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza, fumetti inclusi. Perché, sostengono, questa pubblicistica è alla base di un fenomeno crescente e inedito di delinquenza giovanile.

I comunisti sono contrari alla censura. Ma, come abbiamo visto, tra loro molti concordano sul giudizio di fondo. Nel mese di maggio 1951 il matematico Lucio Lombardo Radice, dopo un lungo viaggio in URSS, ripropone su Rinascita, la rivista teorica del PCI, la tesi di Musu, rilevando che nel «Centro del libro per l’infanzia» di Mosca non c’è «neppure un esemplare di quei racconti di foschi e atroci delitti di criminali raffinati e di poliziotti astuti, che eccitano e rimbecilliscono i nostri ragazzi. Non c’è neppure una copia di quei giornalacci che abituano alla fantasticheria malsana, di quel “veleno americano” che circola liberamente da noi». Insomma, anche agli occhi di un intellettuale raffinato e abituato alla logica rigorosa, come Lucio Lombardo Radice, il fatto che non circolino in Unione Sovietica è la prova provata che i fumetti sono intrinsecamente deleteri.      

Interviene Nilde Jotti

Sull’argomento, diventato ormai un fatto politico, ritorna in dicembre, sempre su Rinascita, Nilde Jotti, compagna di Palmiro Togliatti, che ribadisce il no alla censura per legge: «Perché reazionaria e inefficace». E definisce «inconsistente […] l’argomentazione che misure simili, attraverso le quali la stampa per bambini e ragazzi dovrebbe essere “moralizzata”, potrebbero influire nel ridurre la delinquenza giovanile e far sparire certe forme di degenerazione e delitto dei giovani, di cui si sono avuti di recente, in Italia e altrove, esempi numerosi e pietosi» (eh, sì, perché anche di questo venivano accusate le strisce e i fotoromanzi). 

Poi Nilde Jotti ripercorre la storia della letteratura per l’infanzia e delle reazioni moralistiche a partire dal Seicento e dai «racconti di fate». E da questa reazione fa nascere la «noiosissima, stomachevole letteratura per l’infanzia e la giovinezza che, per insegnare la virtù, elabora il tipo del ragazzo virtuoso, ma cretino e lo fa muovere in un mondo di stoppa dipinta e di lattemiele, di enti e moralità non reali, lontani tanto dalla vita che veramente si vive quanto dai sogni della fantasia popolare. I libri di scuola appartengono quasi tutti a questa famiglia, purtroppo, e neanche il Cuore se ne stacca».

Ben diverso è il giudizio sul Pinocchio di Collodi: «La tradizione della letteratura per ragazzi è, da un lato, quella dei racconti popolari ingenuamente fantastici, che sotto la fantasia nascondono una concezione vigorosa e semplice del mondo, delle sue difficoltà, delle sue stranezze, e dall’altro è quella realistica, che racconta e fa capire la vita com’è e insegna ad affrontarla con calma. In Pinocchio le due correnti felicemente si congiungono e per questo Pinocchio è una grande, classica opera d’arte».

Ma infine ecco che Nilde Jotti affonda la lama del giudizio di valore sui fumetti. «Che cosa è, oggi, il fumetto, e da che parte viene? È un modo di raccontare per immagini una storia rappresentata nei momenti più salienti: non vi è commento scritto, soltanto alcune parole che escono in una nuvoletta di fumo dalla bocca dei protagonisti. È comparso in America nel 1894, lanciato da Heart, il più grande editore di giornali del mondo, padrone di centinaia di fogli collegati a catena e di conseguenza dell’opinione pubblica degli Stati Uniti».

Insomma, il fumetto ha origine nel cuore del mondo capitalista. E questa origine non è un dato marginale, sostiene la Jotti: «Il fumetto è stato inventato in America e viene dall’America. Esso è adeguato a quel complesso di aspetti negativi, repellenti persino, a cui purtroppo sembra ridursi la civiltà del Paese che fu di Walt Whitman e di Mark Twain». I contenuti dei fumetti sono funzionali alla visione capitalistica e consumistica del mondo. Un mondo «dominato dalla preoccupazione del successo materiale che consente di viver bene e infischiarsi del resto. Ciò che si oppone al successo materiale, trattasi di un concorrente o di una legge morale, di una banda di malfattori o della polizia, di una organizzazione di operai o della indipendenza di un popolo, deve essere battuto, stroncato. Ha ragione il più forte».

Il fumetto è stato inventato da «Heart, imperialista cinico e fascista» anche come modo di manipolazione dell’opinione pubblica e delle coscienze: «Se il popolo non pensa, non riflette, rimane estraneo alla cultura, alimentando in sé in modo grottesco una voglia assurda di denaro, di eleganza femminile, di avventure e di successo, tanto di guadagnato per i capitalisti». Non a caso, dunque, i contenuti sono sempre stereotipati ed esaltano «la violenza, la brutalità, la lotta tra gli uomini, l’istinto sessuale». Ma non sono solo i contenuti. È proprio la forma fumetto che non va, perché «afferra la mente attraverso poche immagini, e sostituisce una serie violenta di queste immagini alla ricerca dei particolari, di una logica, e di un processo discorsivo. Le poche parole illustrative sono una molla, essa pure primitiva, che spinge da una immagine all’altra una mente che non lavora, non riflette, si impigrisce e arrugginisce mentre, d’altra parte, le vengono fatte passare davanti, come strumento di avventura, le più portentose conquiste della tecnica». 

Questo riferimento alla tecnica è significativo. Perché è vero: nei fumetti il mondo della tecnologia e, anche, della scienza applicata è molto presente. È infatti del mondo di oggi, del nuovo mondo sempre più modellato dalla tecnica e dalla scienza, che i fumetti parlano. Questo li rende diversi da quelle antiche fiabe, che raccontano di un mondo contadino fatto di polenta e mestoli e paioli che non esiste più. Ma l’atteggiamento dei comunisti nei confronti della tecnica è ambivalente. E le parole di Nilde Jotti, in qualche modo, lo dimostrano.

Ma torniamo ai fumetti. La loro osservazione, sostiene la giovane deputata, «è quindi cosa profondamente diversa dalla lettura. Non sostituisce la lettura. La sopprime. La gioventù che si nutre di fumetti è una gioventù che non legge e questa assenza di lettura nel senso proprio della parola non è l’ultima tra le cause di irrequietezza, di scarsa riflessività, di deficiente contatto col mondo circostante e quindi di tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori della legge e solidarietà degli uomini». [Ndr: non trovate una certa assonanza di argomentazioni tra queste critiche di settant’anni fa ai fumetti e quelle odierne agli strumenti digitali?].

La conclusione del lungo articolo di Nilde Jotti è, dunque, significativa: «Decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono dunque fatti collegati, ma non come l’effetto e la causa, bensì come manifestazioni diverse di un’unica realtà. Proibire i fumetti, dunque, controllarli a mezzo di una commissione di gente per bene, lasciar circolare soltanto quelli che sian fatti dalle organizzazioni cattoliche? Sono tutti palliativi, pretesti e in parte anche ingiustizie e soprusi. Bisogna affrontare e risolvere tutta la questione dell’orientamento ideale e pratico, della educazione, dello sviluppo intellettuale e morale dei giovani. Ma non lo si fa, se non si mette il dito nella piaga, che è di ordine economico, sociale e anche politico».

Riassumendo. Una parte del PCI – e che parte – vede dunque nei fumetti un prodotto figlio della cultura e delle imprese editoriali degli Stati Uniti in grado di attaccare l’integrità morale dei ragazzi, compresi i ragazzi comunisti, evidentemente.

Interviene Gianni Rodari

Il problema tocca direttamente Gianni Rodari. Perché ha utilizzato il fumetto su L’Unità, sia a Milano che a Roma. E ora lo sta utilizzando su Il Pioniere. Ecco, dunque che il giornalista scende apertamente in campo e con una Lettera al Direttorepubblicata a stretto giro da Rinascita, contro le tesi di Nilde Jotti e a difesa dei fumetti:

Caro Direttore,

ho letto sull’ultimo numero di Rinascita un articolo di Nilde Jotti sulla Questione dei fumetti, e desidero esprimere la mia opinione dicendo subito che l’articolo della Jotti non mi convince.

Rodari, dunque, non la manda a dire. Non esita a dissentire pubblicamente dalla deputata, compagna del Segretario generale del Partito. Certo, dice di apprezzare il no a ogni forma di censura: 

Questa posizione nei confronti della legge sui fumetti è giusta…   

E dice di ritrovarsi anche nel giudizio negativo sui contenuti del fumetto americano:

Altrettanto giusta è l’analisi che la Jotti fa del fumetto americano, figlio dell’imperialista e fascista Heart…

È la generalizzazione che non condivide.

La Jotti, però, estende questo giudizio negativo al fumetto come genere, come modo di raccontare, escludendo esplicitamente la possibilità di fare “fumetti” diversi da quelli americani, con forme, contenuti, spirito e intendimenti diversi. Su questo punto mi pare che la Jotti non abbia tenuto conto della realtà di oggi, qui, in Italia, e perciò abbia fatto dell’accademia.

Partiamo dal dato di fatto, sostiene Rodari: i fumetti piacciono ai giovani. Infatti vendono moltissimo. Ne consegue che:

Chi voglia parlare ai ragazzi e ai giovanetti, deve tener conto del linguaggio a cui sono abituati, e che è diventato uno dei più importanti mezzi per comunicare con loro: e se farà dei “fumetti”, il giudizio su questi dovrà essere dato non già in base alle sue intenzioni, ma nemmeno in base ai preconcetti, piuttosto in base ai risultati. 

La posizione di Rodari è solo in apparenza pragmatica e strumentale: i fumetti piacciono, dunque adeguiamoci. In realtà sostiene qualcosa di molto più profondo. I giovani usano ormai canoni di comunicazione diversi dai nostri. Tanto che noi adulti neppure li comprendiamo. Ma se vogliamo dialogare con i giovani e anche con i bambini, dobbiamo entrare in sintonia con loro. Dobbiamo acquisire il loro linguaggio. 

Non è un problema di strumenti, ma di sostanza.

Quanto al fumetto, non è vero che sia una forma di comunicazione intrinsecamente negativa. 

Un giudizio teorico talmente negativo è inesatto, o per lo meno equivoco, e in equivoco è caduta la Jotti, secondo me, polemizzando sulla distinzione tra la forma del fumetto e il contenuto del racconto a fumetti. Questa distinzione – ha ragione la Jotti che la analizza molto brillantemente – è impossibile. Ma la Jotti ha scambiato il “forma” con il genere, o il mezzo, o lo strumento, o come lo vogliamo chiamare, rappresentato dal “fumetto” […]

E perché non sarebbe legittimo raccontare in questo modo? 

Il fumetto è una delle nuove modalità con cui comunicano i giovani. Se vogliamo entrare in sintonia con i giovani, dobbiamo usare anche la forma di comunicazione fumetto. 

Che non è affatto alternativo al libro. Anzi, può essere integrativo.

Vi sono molti modi di raccontare, con la parola scritta, con la voce, con l’immagine ferma o con l’immagine in movimento (cinema, disegni animati, eccetera). Ognuno ha la sua funzione. Se si equivocasse tra la funzione del fumetto e quella della lettura, avrebbe ragione la Jotti, perché evidentemente non sono due cose sostituibili, sono due cose diverse.

La posizione di Rodari è molto articolata. Non c’è dubbio, sostiene, che i fumetti siano un grande affare e siano venduti come una merce. Non c’è dubbio che i contenuti prevalenti nei fumetti in circolazione siano quelli, appunto, di una merce. Non c’è dubbio che leggere solo fumetti, in maniera esclusiva, morbosa e compulsava, possa indurre i giovani al disimpegno morale, intellettuale, politico e sociale. 

Ma, al netto di tutto ciò, resta il fatto che i fumetti sono un ottimo mezzo di intrattenimento, un ottimo passatempo, proprio per i ragazzi più poveri, quelli che – non per colpa loro – non possono frequentare la scuola o sono costretti a frequentarla avendo la mente altrove. 

I fumetti si diffondono perché i ragazzi e non solo i ragazzi vogliono conoscere, vogliono apprendere. Rispondono a una domanda di cultura. Anzi, per bambini fino a otto o nove anni, i fumetti sono una lettura stimolante, perché impegna la loro immaginazione e il loro spirito critico. Certo, ragazzi più grandi e gli adulti dovrebbero leggere altro. Ma se non lo fanno non è per colpa loro.

Il genere è utile anche e soprattutto perché i bambini e i ragazzi possono «creare» da sé i loro fumetti: possono inventare e disegnare storie, possono impadronirsi del mezzo e svilupparne tutte le grandi potenzialità espressive.

Il mondo è cambiato, sottolinea Rodari. Il mondo sta cambiando. E non ci si può – non ci si deve – opporre al cambiamento. Occorre, al contrario, cercare di governarlo. Occorre minimizzare i rischi e cogliere tutte le opportunità che offre il nuovo mondo.

In quest’ultimo mezzo secolo, parallelamente all’evoluzione delle masse popolari, si è formata una nuova, immensa domanda di cultura. I giornali e le riviste popolari hanno raggiunto tirature altissime. Centinaia di migliaia di persone che non leggono nulla chiedono di leggere: talora vanno a cadere nelle pagine di Grand Hotelo simili, e tuttavia anche questo è un sintomo del bisogno di cultura. Nel secolo scorso i giornali e i libri per ragazzi erano destinati a ristrette élites, rappresentate dalle famiglie piccolo-borghesi o medio-borghesi. Oggi essi si rivolgono a un pubblico enorme e anche per questo ha prevalso, nella loro impostazione, lo spirito commerciale sui principi educativi, la speculazione sulla cultura.

E, allora, alla luce di tutto quanto detto cosa bisogna fare? Ricostruire l’equilibro perturbato a un livello più alto. Ma diamo la parola, per le conclusioni, allo stesso Gianni Rodari:

Che cosa ci può aiutare a far fronte a questa situazione? Essenzialmente la nascita di una nuova letteratura per l’infanzia, capace anche coi suoi mezzi organizzativi di condurre una lotta efficace. Ma questo richiede anni di lavoro, e richiede per il suo successo definitivo anche il realizzarsi di nuove condizioni sociali e politiche. Accanto ai libri possono i “fumetti” essere uno strumento, anche secondario, in questa lotta, oggi? Se non possono, smettiamo di stamparli.

                                                                                                                                                                                                                                       Gianni Rodari                     

Lui li stampa e li fa stampare. Dunque, al contrario di Nilde Jotti e di gran parte del gruppo dirigente del PCI, ritiene che possano – debbano – essere uno strumento di lotta, oggi. 

Gianni Rodari rovescia, dunque, la posizione della compagna di Togliatti. Il fumetto non è intrinsecamente dannoso. È una forma di espressione potenzialmente dirompente. I fumetti possono essere utilizzati per costruire una «nuova letteratura per l’infanzia, capace anche con i suoi mezzi organizzativi di condurre una lotta efficace». La cultura non è seriosa. Si può imparare anche divertendosi. Perché i bambini e i ragazzi non devono essere considerati spugne che assorbono qualsiasi cosa viene loro dato, ma devono essere considerati come persone dotate di un proprio spirito critico e di una propria creatività. 

La Postilla di Togliatti

La sintesi politica del dibattito tra Nilde Jotti e Gianni Rodari, come usava allora, è realizzata da Palmiro Togliatti, direttore di Rinascita e segretario generale del PCI, con una Postilla alla lettera del giornalista. 

Non ci sentiamo di condividere la posizione del Rodari …

Il giudizio di Togliatti è secco: il fumetto non è una nuova lingua, dunque non è e non può diventare una nuova forma di cultura popolare. Rodari, continua il segretario generale del PCI, ammette il carattere antieducativo dei fumetti, ma poi si propone che vengano tradotte ed espresse in fumetti storie educative. No, «non metteremo in fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione». Per raccontare e trasmettere i nostri valori è preferibile usare altri generi «invece di correre dietro alle forme più corruttrici dell’americanismo». 

La chiusura sembra totale. Tuttavia Togliatti ribadisce una linea più articolata, che aveva già avuto modo di esprimere in precedenza: i comunisti non devono far uso di divieti o bandi, perché non sono dei «gesuiti rossi»e non propongono alcun indice delle letture proibite, non devono dire “non leggete questi fumetti o questi libri reazionari”, ma devono invitare i giovani a leggere e riflettere, a leggere e pensare, a leggere e confrontare la loro vita con quella degli altri ragazzi. Non ordini e divieti, ma discussione e convinzione, lavoro per abituare i ragazzi a pensare liberamente con la loro testa e a studiare da soli.

E alla fine risolleva il tema di fondo proposto da Rodari: «Certo, il fondo della questione è molto complesso perché si tratta di riuscire a creare una letteratura e una pubblicistica per bambini che attirino, piacciano, educhino, e nonostante i buoni tentativi già fatti, si è ancora indietro assai».

Palmiro Togliatti, con tutta la sua autorità, sembra, dunque, porre un alt a Gianni Rodari. E, invece, a leggere bene, il Segretario del PCI dà il via libera al programma più ambizioso del giornalista di Omegna e sembra dargli quasi un mandato: far nascere una nuova letteratura per l’infanzia

Che ci sia stato o no quel mandato, una cosa è certa: mai fu meglio rispettato. Gianni Rodari si appresta a diventare, con Collodi, il più grande scrittore di letteratura per l’infanzia che l’Italia abbia mai avuto. Utilizzando molti strumenti di comunicazione. Fumetti compresi. 

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