Con i loro numeri e le loro stime hanno guidato le scelte dei governi, soprattutto nella fase iniziale quando le incognite sul virus Sars-CoV-2 erano maggiori sia rispetto alle dinamiche di contagio che sul versante delle terapie da mettere in atto nelle corsie degli ospedali e tra i pazienti curati a domicilio. Mai come nel corso di questa pandemia c’è stato un boom dei modelli matematici che hanno elaborato previsioni sulla possibile diffusione del virus, differenziando le stime sul numero di posti occupati nelle terapie intensive e di pazienti deceduti sulla base della maggiore o minore rigidità delle misure di distanziamento sociale. L’esempio più noto è quello dell’Imperial College di Londra, famoso non solo per aver indotto il premier britannico Boris Johnson a capovolgere la strategia adottata per il Regno Unito, ma anche per aver ipotizzato, in un documento fornito allle autorità sanitarie italiane, uno scenario particolarmente allarmante per il nostro Paese. Il team di scienziati guidato da Neil Ferguson aveva stimato che l'Italia sarebbe andata incontro a 283 mila decessi anche nel caso dell’applicazione di misure restrittive, un numero che avrebbe superato il mezzo milione se non si fosse preso alcun provvedimento. Cifre che fortunatamente sono risultate di molto superiori a quelle reali e che hanno portato di recente ad un botta e risposta a distanza tra l’epidemiologo Donato Greco, che ha sottolineato l’enorme sovrastima di quel modello, e lo stesso Imperial College che ha precisato come il modello in questione si riferisse ad uno scenario in cui le misure di distanziamento sociale riguardavano solo gli over 65 e che, più in generale, la simulazione di uno scenario caratterizzato dall’assenza di misure di mitigazione non può essere comparata con il numero di contagi e di morti registrato durante un lockdown.
Sulla capacità previsionale dei modelli matematici, Donato Greco ha comunque voluto sottolineare il coraggio di chi, soprattutto agli inizi di una nuova epidemia, produce modelli predittivi quando l’incertezza di molti parametri è elevata e ha precisato che “i modelli matematici non predicono numeri assoluti, ma offrono scenari modulati su assunzioni: dal peggiore al meno peggio” e che davanti ai diversi scenari i politici preferiscono “inevitabilmente quelli peggiori: fare scelte iper-precauzionali li protegge da inevitabili critiche postume”.
E ripensando alla prima fase di diffusione dell’epidemia in Italia occorre anche ricordare che i dubbi iniziali sull’utilità delle mascherine, ma soprattutto la loro irreperibilità sul mercato, e ancor di più la scarsa disponibilità di tamponi, con la conseguente difficoltà nel testare tempestivamente i casi sospetti e nel tracciare i possibili contatti, avevano contribuito ad alimentare un senso di impotenza davanti al dilagare dell’infezione.
Donato Greco, che è stato per 30 anni al vertice del laboratorio di epidemiologia dell'Istituto superiore di Sanità, si è soffermato sulle problematiche dei modelli matematici anche in un’intervista all’Adnkronos. "Certamente - ha spiegato - siamo davanti a un'epidemia nuova, quindi non tutto era noto, ad esempio il rapporto sintomatici-asintomatici, o l'eventuale immunità di gregge, che ad oggi è lontanissima” e tra gli elementi di fragilità ha identificato anche il fatto che i modelli si basano su “elementi approssimativi, primo fra tutti il numero di contatti delle persone” e che, in ogni caso, non possono essere l’unica base su cui costruire delle strategie. “Tecnici e politici - ha proseguito Greco - hanno sposato immediatamente, passivamente e asetticamente i suggerimenti dei modelli matematici senza che fosse stata fatta 'intelligence' intorno”.
L’Imperial College ha successivamente realizzato anche un nuovo modello incentrato sull'Italia in cui venivano stimati i rischi della fase 2, quella delle riaperture delle attività. Lo studio si concentrava sulle sette regioni più colpite dalla pandemia (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, Liguria, Marche e Toscana) ipotizzando le conseguenze di tre diversi scenari nell’arco di otto settimane: il primo si riferiva all’opzione di una mobilità invariata rispetto alla fase di lockdown, i restanti due ad un aumento della mobilità rispettivamente del 20% e del 40%. Secondo il modello, l’ultimo scenario avrebbe potuto comportare un nuovo picco della mortalità, con un numero di decessi tra i dieci mila e i ventitré mila. I ricercatori avevano accompagnato la pubblicazione del nuovo studio dalla precisazione che le stime si riferivano ad uno scenario che non prendeva in considerazione l’effetto dell’utilizzo diffuso delle mascherine, del mantenimento del distanziamento sociale e delle tecnologie di contact tracing.
Ma l'imprecisione dei modelli matematici nella diffusione di Covid-19 non si è manifestata solo in direzione pessimistica. L'Institute for Health Metrics and Evaluation, centro di ricerca che fa parte dell'università di Washington, stimava per l'Italia un totale di circa 31.500 morti entro il 4 agosto. Numeri che invece sono già stati superati. E sull'argomento si è espresso anche Carlo Signorelli, docente di Igiene all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, spiegando che "Il fallimento dei modelli dipende dal fatto che non sappiamo quanti sono realmente i casi in Italia, perché più della metà sono stati asintomatici e probabilmente il 90% non è neanche passato al sistema, ha fatto la malattia e non se ne è accorto".
Per capire perché i modelli previsionali durante questa esperienza con la pandemia da Sars-CoV-2 si sono rivelati notevolmente imprecisi abbiamo intervistato l'epidemiologa e biostatistica Sara Gandini, direttrice dell’unità Molecular and Pharmaco-Epidemiology del dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto europeo di oncologia di Milano e docente di Statistica medica alla Statale di Milano.
Intervista all'epidemiologa e biostatistica Sara Gandini sulle difficoltà dei modelli previsionali sul Covid-19. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar
Mai come nel corso di questa pandemia c’è stato un boom dei modelli matematici che hanno elaborato stime sugli scenari di diffusione del virus, sui posti occupati in terapia intensiva e sul numero di decessi. Previsioni che però spesso si sono rivelate imprecise: perché anche i modelli più sosfisticati hanno fallito, sia in eccesso che in difetto?Un mantra che è molto diffuso nella comunità degli statistici è che tutti i modelli sono sbagliati ma che alcuni funzionano. In effetti un modello epidemiologico serve a individuare delle linee di tendenza: i modelli si basano sui dati disponibili fino a quel momento, interpretando quelli che sono alcuni aspetti della realtà. Offrono delle stime che si basano anche su delle assunzioni, su delle ipotesi costruite sulle evidenze disponibili e presentano diversi scenari che possono andare dalla situazione migliore a quella peggiore. Ovviamente i modelli servono a prendere delle decisioni e tra l’altro si spera sempre che le decisioni prese invalidino il modello, quindi in un certo senso è normale che falliscano. Bisogna poi considerare che le difficoltà aumentano quando si cerca di elaborare dei modelli all’inizio di un’epidemia perché ovviamente c’è un largo margine di incertezza in quanto molti parametri ancora non si conoscono. Inoltre molti degli attuali modelli epidemiologici cercano di fare delle previsioni che integrano le informazioni sulla trasmissione della malattia con una simulazione dei comportamenti della popolazione, ad esempio come ci muoviamo o come interagiamo tra noi e ovviamente prevedere questo tipo di comportamenti è estremamente complesso. Ultimamente si usano anche tecniche di machine learning, quelle che si usano per i big data, e anche i dati, per esempio, degli smartphone ma prevedere i comportamenti umani è davvero difficile.
“ Ovviamente i modelli servono a prendere delle decisioni e tra l’altro si spera sempre che le decisioni prese invalidino il modello: quindi, in un certo senso, è normale che falliscano
I più famosi specialisti in questo ambito sono i modellisti dell’Imperial College di Londra e sono anche i più ascoltati dai decision makers, dai politici. Il problema è stato anche che questi modelli, le cui previsioni erano molto tragiche, sono usciti e si sono diffusi senza di fatto essere stati discussi all’interno della comunità scientifica. A livello generale tutte le ricerche e i modelli possono avere dei limiti e possono essere interpretati in maniera diversa ed è quindi fondamentale che la comunità scientifica faccia quel lavoro di critica che serve a tenere insieme la complessità delle situazioni. Questo elemento un po’ è mancato e lo stesso è accaduto anche in occasione delle ultime previsioni che riguardavano l’Italia a proposito delle conseguenze delle prime riaperture di fine aprile. E’ molto importante che la comunità scientifica si confronti e valuti i modelli sotto diversi punti di vista. Inoltre sappiamo anche che in parte quei modelli non tenevano conto del profilo geografico dell’epidemia e anche del benessere della comunità nel suo complesso: non esiste solo Covid-19, ma ci sono tante altre patologie che se vengono trascurate possono creare dei problemi. Pensiamo ad esempio agli infarti, con le persone che avevano paura ad andare in ospedale: quando si fanno dei modelli di questo tipo bisogna considerare tutte le problematiche e non è per niente semplice.
Quanto ha inciso sulla precisione dei modelli l’impossibilità di conoscere il numero reale di persone che hanno avuto la malattia, considerando l’elevato numero di soggetti che potrebbe averla sviluppata senza sintomi?
Intanto invito sempre a non parlare di malattia ma di contagio, proprio perché non tutti coloro che sono stati a contatto con il virus si sono ammalati. Anzi, la stragrande maggioranza o non ha sintomi o ne ha molto pochi. E’ sicuramente vero che non avere avuto il dato della diffusione reale del Covid ha contribuito a sovrastimare il rischio, soprattutto all’inizio. Di fatto non avevamo il denominatore di questi tassi. Ovviamente non c’era uno screening per la popolazione e in una prima fase venivano eseguiti pochi tamponi, quindi era difficile stabilire la gravità della malattia. Uno degli indicatori che si è usato molto in questo contesto è stato il Case Fatality Rate, ma sarebbe stato ancora più utile conoscere quello che viene chiamato Infection Fatality Rate e che si riferisce al tasso di mortalità su tutti coloro che sono entrati a contatto con l’infezione, compresi gli asintomatici. Sono stati fatti degli studi molto interessanti che sono andati a confrontare il CFR in Europa e si vede una variabilità enorme che si manifesta anche a livello di arco temporale. Inoltre c’è un elevato ruolo delle comorbidità. Un dato molto interessante arriva dall’Islanda dove si è riusciti a testare una larga parte della popolazione e lì in effetti si è visto che il CFR era molto inferiore e lo stesso è accaduto con i dati della Diamond Princess pubblicati su Nature. Quindi sicuramente non avere questo denominatore affidabile ha creato confusione.
Che analisi possiamo fare sull’evoluzione della situazione epidemiologica in Italia? C’era molta preoccupazione dopo le prime riaperture e, ancor di più dopo la fine del lockdown, ma per il momento non assistiamo ad una ripresa dei contagi. Questo può dipendere dal fatto che è un’infezione che si concentra soprattutto in cluster?
A mio avviso più che il numero dei contagi bisogna considerare quello delle persone che realmente hanno bisogno di cure in ospedale e quello dei decessi. Fortunatamente si è visto che in Italia, così come in altri Paesi, si muore sempre meno, cioè i tassi di mortalità sono scesi. Questo sta accadendo ad esempio anche in Germania, in Francia e in Svezia. Si sta cioè osservando una progressiva attenuazione dell’impatto sanitario e una riduzione delle morti. Inoltre non sembra che ci sia una ripresa dei contagi e in Lombardia adesso si è riusciti a tracciare un po’ di più le persone infette, il sistema sembra più rodato, si è anche maggiormente in grado di curare più velocemente i soggetti positivi. Mi sembra quindi che la situazione sia notevolmente migliorata, ormai sono passati più di venti giorni dalla riapertura del 4 maggio e non ci sono segni di un ritorno di fiamma del virus. Le tragedie che si sono purtroppo viste tra febbraio e marzo in Lombardia riguardano in effetti alcuni ospedali, alcuni comuni, alcune Rsa e lì sono stati fatti probabilmente degli errori gravi anche a livello di gestione del contagio, non si è potuto contare sulla medicina territoriale, probabilmente all’inizio sono stati fatti anche degli errori terapeutici perché non si sapeva come trattare la malattia e anche questo è stato un problema. Adesso ci sono molti più letti disponibili, i pazienti rispondono meglio alle cure e la situazione sembra molto più sotto controllo.
Un tema che è molto di attualità in questi giorni è quello dei bambini e di come gestire la riapertura delle scuole a settembre. Sappiamo che i bambini fortunatamente tendono ad ammalarsi di Covid-19 poco frequentemente e che, quando accade, la malattia si presenta in forma lieve. Ma dal punto di vista del loro ruolo a livello di contagio cosa sappiamo?
Sono uscite un po’ di revisioni sistematiche della letteratura che riguarda i bambini, di tutti gli studi osservazionali che sono stati condotti fino ad ora. Non c’è evidenza di un contagio da parte dei bambini verso gli adulti. Per esempio in Australia è stato condotto uno studio nelle scuole in cui sono stati considerati alcuni indici e non sono stati osservati dei cluster. Ulteriori studi sono stati realizzati in altri Paesi e i dati sono molto tranquillizzanti anche per quello che riguarda i risultati della ricerca di base. Un lavoro molto interessante riguarda poi il ruolo dei recettori ACE 2 e la loro minore presenza nei bambini. Tutte le evidenze disponibili vanno insomma nella direzione di poter dire che i bambini non sono la causa del contagio.
A suo avviso ci sono elementi che possano far pensare ad un comportamento “stagionale” del virus Sars-CoV-2, sulla linea di quanto accade con i virus influenzali?
E’ difficile dirlo ma in effetti potrebbe anche essere. Sicuramente un aspetto interessante è che sembra esserci una sorta di trend. E’ accaduto anche in Italia dove al sud non si è verificata quella vampata che ci aspettavano e lo si sta osservando anche negli Stati Uniti: il 79% dei morti per Covid è avvenuto nel nord del Paese, mentre solo il 21% nel sud dove però vive il 56% del totale della popolazione e dove sembra che abbiano realizzato misure di lockdown meno stringenti. Questo è in effetti un punto interessante che potrebbe far supporre che se anche non fosse proprio una questione di stagionalità potrebbe esistere un ruolo del calore. A tale proposito è uscito recentemente uno studio dell’università di Oxford, sul Journal of Infection Diseases, che mostra che il virus Sars-CoV-2 contenuto nelle goccioline di saliva se viene esposto alla luce solare potrebbe venire inattivato dopo qualche minuto. Quindi potrebbe essere anche un discorso di calore, le ipotesi non sono ancora del tutto confermate ma la tendenza sembra andare in questa direzione.
Quali indicazioni avremo dal test sierologico sul campione di 150 mila italiani scelto dall’Istat per studiare la reale diffusione della malattia? Che numeri si aspetta?
Sicuramente si spera almeno di riuscire a individuare le classi lavorative più a rischio e che sono entrare più a contatto con il virus, correlare la probabilità di infezione con il ruolo professionale. E anche vedere se è vero che l’infezione si è in qualche modo limitata alle regioni settentrionali o se in realtà c’è stata una diffusione anche al sud. In effetti la Lombardia ha anche il più alto numero di cittadini che verranno contattati, oltre 30 mila, quindi attendiamo di avere i dati.
E’ stata più volte sottolineata l’importanza di effettuare tamponi mirati e un efficace contact tracing per limitare sul nascere eventuali nuovi focolai. Lo si sta facendo correttamente?Adesso molto di più rispetto alla fase iniziale, anche in Lombardia e Piemonte. Tra l’altro lo si sta facendo anche negli ospedali, io ad esempio lavoro all’Istituto europeo di oncologia e anche noi stiamo monitorando la diffusione del contagio tra i pazienti e tra gli ospedalieri, sia attraverso i tamponi sia facendo i test sierologici nel tempo proprio per studiare l’immunità che è un altro grosso interrogativo. C’è un grande sforzo da parte di tutti, si sta andando molto di più in questa direzione, ci sono anche grandi investimenti e spero che avremo delle risposte.
“ E' importante che si investa di più nella sanità e nella ricerca scientifica perché quello che è mancato è esattamente questo
Bisogna anche dire che è importante che si investa di più nella sanità e nella ricerca scientifica perché quello che è mancato è esattamente questo. Penso che sia da ascoltare l’appello firmato da centomila medici per esplicitare la necessità di un rafforzamento del territorio e del sistema sanitario nazionale a livello non solo di dispositivi e di tamponi ma anche di presenza della sanità territoriale che è mancata.
E per quanto riguarda la questione dell'immunità che cosa sappiamo dal punto di vista della durata e della protezione che è in grado di garantire?
Diciamo che per il momento dai dati che sono giunti dalla Cina non c’è evidenza della possibilità di una reinfezione nel breve termine. Con la Sars i dati indicavano una protezione della durata tra uno e due anni. Noi stiamo facendo degli studi proprio per cercare di capire se possa durare almeno tra i quattro e i sei mesi. Bisogna in effetti col tempo provare a monitorare questi aspetti facendo i tamponi e verificare il sistema immunitario per capire se le IgM e le IgG sono attivate e quanto durano. Sono studi che dobbiamo fare.