SOCIETÀ

Covid-19 e lavoro: l'impatto negativo sulle donne

Più casa, meno lavoro. O meglio: meno lavoro retribuito. L’impatto del Covid-19 sulle donne è netto e prende la stessa direzione in tutto il mondo, tant’è che, in direzione esattamente opposta a quella della crisi del 2008 (quando si parlò di he-cession, una recessione al maschile) quella attuale è battezzata come una she-cession, una recessione al femminile. Comunque la si guardi, le donne sono sovrarappresentate su tutti i fronti: il primo, quello dei lavori maggiormente esposti al contagio, data la prevalenza femminile nel settore sanitario, in particolare quello infermieristico e di cura, nelle case di riposo come nelle case private. Il secondo, quello delle persone che hanno perso il lavoro a causa della crisi. E il terzo, quello del lavoro in casa: sia nella forma del lavoro a distanza, che nell’aumento dei carichi del lavoro non retribuito dovuto alla chiusura di servizi essenziali o dalla loro trasformazione, ancora una volta, a distanza, a partire dalla scuola. L’unico capitolo nel quale le donne non sono sovraesposte è quello della risposta politica, che stavolta può utilizzare una quantità di risorse economiche pubbliche mai vista prima, sia grazie ai piani europei che all’abolizione dei tetti ai debiti nazionali, ma che ha abbandonato, indebolito o neanche considerato un’ottica di genere nell’impostazione degli interventi.

Il rischio nel lavoro

L’espressione “donne su tutti i fronti” a proposito del Covid è stata usata, nel pieno della prima ondata della pandemia, dall’Ocse. Partendo dal primo fronte: la maggior presenza femminile nell’assistenza sanitaria non è una caratteristica solo italiana. Ma uno sguardo ai nostri numeri può dare un’idea: come ha rilevato l’Istat in un dossier dedicato all’eguaglianza e l’emergenza sanitaria, sono donne il 64,4% delle persone impiegate nell’assistenza sanitaria e l’83,8% nell’assistenza sociale non residenziale sono donne, entrambi settori che l’Inail ha classificato al livello di rischiosità più elevato tra i lavori nella pandemia. Su un totale di 1 milione e 343mila donne occupate nei settori della sanità e assistenza sociale, 417mila (quasi un terzo) hanno un figlio di età inferiore ai 15 anni, con le relative difficoltà ad occuparsene per la totale o parziale chiusura delle scuole e degli asili.

Scendendo di un gradino, ci sono i settori a rischio medio-alto, come i servizi di assistenza sociale residenziale (80,2%), il lavoro domestico (88,1% donne) e le altre attività di servizi alla persona (70%). In questi casi, al rischio dell’esposizione al contagio si aggiunge quello della perdita del lavoro, sia per effetto del lockdown che delle crescenti difficoltà economiche delle famiglie e dunque del taglio di spese per collaboratrici domestiche e badanti.

Il rischio di perdere il lavoro

Il secondo fronte è quello che si è aperto dubito dopo l’arrivo della pandemia e che rischia di propagare i suoi effetti ben oltre la fine dell’emergenza sanitaria, ed è quello dell’occupazione. Al secondo trimestre del 2020, la conta delle perdite vedeva un calo di 470.000 donne occupate, contro 371.000 uomini. In termini percentuali, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente la riduzione del tassi di occupazione femminile è stata di 2,2 punti percentuali, quella del tasso di occupazione maschile di 1,6 punti. Di conseguenza, il gap di genere sul lavoro è aumentato, dopo una progressiva riduzione durata decenni, dovuta prima ai lenti ma costanti progressi dell’occupazione femminile e poi, con la grande crisi del 2008, al calo di quella maschile: nell’ultimo decennio il gap di genere si era leggermente ridotto non tanto perché le donne andavano avanti, quanto perché gli uomini scendevano indietro; con la crisi pandemica scendono tutti e due i generi, ma le donne molto di più. E i piccoli recenti recuperi dell’inizio dell’autunno hanno, di nuovo, avvantaggiato soprattutto il lavoro maschile.

Per capire perché questa recessione, al contrario della grande crisi del 2008, colpisce di più le donne bisogna guardare, come allora, alla composizione strutturale dell’occupazione. La crisi che partì dai subprime colpì settori a prevalente occupazione maschile: la finanza, l’immobiliare, l’edilizia, e poi l’industria manifatturiera. Questa colpisce soprattutto il terziario, e al suo interno i comparti dove più spesso sono impiegate le donne: il turismo, la ristorazione, il commercio al dettaglio, il lavoro domestico.  Ma c’è anche un altro aspetto, e riguarda la forma contrattuale. Mentre il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione hanno salvaguardato, per ora, il lavoro regolare a tempo indeterminato, sono stati tagliati i posti di lavoro di tutte le altre tipologie: quelli a termine che non sono stati rinnovati, i collaboratori e le molteplici forme del lavoro non-standard, fino al nero.  Sempre secondo i dati Istat, il tasso di occupazione delle donne giovani, trai 15 e i 34 anni, è sceso di 4,3 punti percentuali: in quella fascia di età è adesso occupata meno di una donna su 3 (e questo tasso è calcolato sulle giovani donne che non stanno studiando, e che cercano lavoro). 

Il rischio di lavorare troppo

Non sembri paradossale a questo punto il fatto che le donne predominino anche in un’atra categoria, quella del lavoro non in presenza. Con il lockdown e i decreti che ne sono seguiti, la quota di occupati che almeno una volta a settimana ha lavorato da casa è aumentata enormemente. Lo sapevamo, ma i numeri segnalano l’entità dell’espansione: si è passati dal 5% del 2019, all’8,1% della media del primo trimestre 2020, a oltre il 19% nel secondo. Per le donne occupate in coppia con almeno un figlio sotto i 14 anni, la percentuale di lavoro a distanza è arrivata al 26,3%. Chi ha mantenuto il lavoro, e ha avuto la possibilità di svolgerlo in condizioni non rischiose, da casa, si è dovuta sobbarcare un carico di lavoro di cura che – partendo già da livelli più elevati rispetto agli altri paesi europei – è cresciuto, poiché, in caso di presenza di figli minori, si è allargato a comprendere l’assistenza per le attività scolastiche a distanza. In teoria, la possibile presenza di entrambi i genitori a casa avrebbe potuto anche avere un effetto positivo sul gap di genere nel lavoro domestico, chiamando i maschi a un maggiore contributo. Ma secondo una ricerca del centro Genders dell’università di Milano, riportata in un articolo su inGenere.it, il maggior carico di lavoro di assistenza ai percorsi scolastici dei figli è stato a carico delle donne. Il passare del tempo, e l’eventuale “lascito del Covid-19 in termini di maggior uso del lavoro a distanza – che di per sé potrebbe essere uno strumento di flessibilità utile a conciliare i tempi di vita e lavoro e riequilibrarli –, ci diranno se qualche cambiamento nei modelli familiari è avvenuto. Ma le prime evidenze (si veda anche questa ricerca di Eurofound) ci dicono che l’effetto-lockdown ha quasi ovunque consolidato e aggravato gli squilibri esistenti. Particolarmente in Italia, Paese nel quale le scuole sono state chiuse prima e più a lungo, hanno riaperto più tardi per poi essere di nuovo chiuse: anche se le scuole del primo ciclo sono adesso in teoria aperte, le chiusure a singhiozzo, dovute a provvedimenti regionali o all’insorgere di casi positivi nelle classi, e il distanziamento forzato dai nonni che per molte famiglie erano perno della conciliazione vita-lavoro, ancora una volta gravano sulle donne. 

Chiudendoci in casa e smantellando interi settori dell’economia; rimodellando i tempi di vita e lavoro e la stessa geografia urbana; mettendo a nudo tragicamente le debolezze del nostro sistema di welfare familistico, la crisi da Covid-19 avrà un impatto strutturale e duraturo sul lavoro femminile. Ma nonostante questa sua caratteristica, l’impatto di genere della crisi è misconosciuto dalle politiche finora messe in campo per affrontarla.

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