Cucinare un orso non è un libro di cooking estremo e non è (solo) un giallo scandinavo, anche se incentrato su un'indagine a Nord del mondo. Un orso viene cotto e assaggiato, ma la sua apparizione è un cameo, e il grande plantigrado è il miglior attore non protagonista della complessa vicenda raccontata in oltre 400 pagine.
Mikael Niemi aveva già scritto un brillante romanzo investigativo, L'uomo che morì come un salmone dove la neve artica sporca di sangue ricordava la locandina di "Fargo", ma stavolta fa molto di più costruendo un'opera che ha i tratti del giallo storico nonché del trattato di storia naturale con preziosi intarsi antropologici e passi di profondo misticismo; l'autore mette al centro della sua trama un suo concittadino (entrambi sono nati nel Comune di Pajala, nella contea più a nord della Svezia) realmente esistito, Lars Levi Laestadius, classe 1800, pastore luterano di origini Sami, botanico che diede il suo nome oltre che a un salice, a un papavero e a diverse specie erbacee, anche ad un movimento di rinascita spirituale ispiratogli da una donna: Milla Clementsdotter.
Laestadius è un erudito con doti di investigatore deduttivo che sfida i lettori e il suo discepolo nella caccia all'assassino, come già Guglielmo da Baskerville del poderoso esercizio storico del "Nome della Rosa", richiamato dall'editore italiano, Iperborea, nella seconda di copertina; ma qui detective e assistente hanno, oltre a intelletto e spirito, anime lacerate, corpi straziati grondanti umori terrestri, il sangue e il sudore che la sauna lava via periodicamente e provvisoriamente; soprattutto ferite malamente rimarginate e infanzie che neanche i protagonisti dei romanzi di Agota Kristoff.
Cucinare un orso è anche la storia eternamente attuale della paura del diverso, della persecuzione di una minoranza, dell'accanimento contro gli inermi e del sopruso dell'istituzione corrotta (dalla sete di potere e acquavite, nella fattispecie); Jussi, il protetto di Laestadius e suo assistente nell'indagine, è un giovane Sami, profugo di montagna che il pastore di anime raccoglie e alleva facendogli il dono della scrittura e dell'amore per i libri senza riuscire a elargirgli però quello della fede religiosa "Gesù è morto, e non è resuscitato" , è la risposta del ragazzo in catene che al tentativo estremo di una conversione oppone al Credo religioso il valore del proprio io, un io che "non è superbia, è quel che è rimasto di me dopo che mi hanno quasi ucciso".
Una posizione molto laica che fatalmente viene messa in atto da un uomo che di fatto prende su di sé il male del mondo, che appena riesce ad assemblare una sua natività deve darsi alla fuga, non in Egitto ma per le terre del Nord, come un animale braccato; un capro espiatorio il cui corpo martoriato è quello di Cristo deposto dalla croce e che , in certi passaggi descrittivi di crudo realismo, richiama alla mente anche la passione umana di Stefano Cucchi.
La salvezza e il riscatto vengono dalle donne, non si svela di più, e dalla conoscenza, dalla capacità di narrare, ricordare e farsi ricordare (esattamente come accade nell'ultimo film di Zemeckis, Benvenuti a Marwen, visionaria e disarmante levata di scudi creativi e amore femminile contro la ferocia degli umani e del mondo e il dolore che lo abita)
E allora cucinare un orso, e accostarcisi come a un'eucarestia, diventa cibarsi della conoscenza, esporsi al rischio per conquistare la libertà. Un altro Levi, Primo, ha mangiato la carne di un orso, e lo spiegato in "Ferro", uno dei 21 indimenticabili racconti chimici della raccolta Il sistema periodico, che ha protagonista lo scrittore e il suo amico, Sandro Del Mastro, pastore di pecore, compagno di studi che gli sarà guida per sentieri di montagna dove si accendeva di felicità contagiosa, e che poi cadrà per mano di un quindicenne ragazzo di Salò. Del Mastro che usava dire "il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell'orso". Scrive Levi: "Tornammo a valle coi nostri mezzi e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”.