SCIENZA E RICERCA

Dal Sole il carburante del futuro

“Se la nostra civiltà oscura e nervosa, basata sul carbone, sarà seguita da una più mite basata sull’utilizzo dell’energia solare, questo non sarà certo di ostacolo al progresso e alla felicità”. Era il 1912 quando Giacomo Ciamician, presidente della Società italiana per il progresso delle scienze, pronunciava queste parole durante una conferenza tenuta a New York. Un discorso lungimirante se si considera che oggi l’esaurimento dei combustibili fossili e l’inquinamento determinato dal loro utilizzo rendono necessario lo sviluppo di nuove tecnologie per ottenere energia rinnovabile e sostenibile sul piano economico.

La quantità di energia che proviene dal Sole e che raggiunge la superficie terrestre in un anno è enorme, nell’ordine di grandezza di 1018 KWh (chilowatt-ore), corrispondente a circa 70 mila miliardi di tonnellate di petrolio. Il sogno di Giacomo Ciamician anticipava quello che oggi è una frontiera della ricerca: la produzione di “combustibili solari”. Riuscire a sfruttare l’enorme potenziale dell’energia solare è una sfida globale, ambiziosa e urgente, che deve risolvere i problemi della dispersione, diffusione e intermittenza connessi alla natura della radiazione solare. L’obiettivo fondamentale è quello di riuscire ad “immagazzinare” la luce solare proprio utilizzandola per la sintesi di molecole ricche di energia: i combustibili solari.

Questo processo avviene continuamente, tutti i giorni, sotto i nostri occhi, ad opera delle piante verdi. Le foglie sono dei veri e propri laboratori chimici, equipaggiati con strumenti e sistemi molto sofisticati, non disponibili attualmente nella loro perfezione in nessun laboratorio costruito dall’uomo, e che realizzano il processo più indispensabile all’uomo: convertire la luce del sole in energia per la vita. Per questa ragione in molti laboratori di tutto il mondo gli occhi sono puntati sul processo di fotosintesi clorofilliana che trasforma energia luminosa in energia chimica. Uno di questi è il Nano & Molecular Catalysis Laboratory@University of Padova, coordinato da Marcella Bonchio del dipartimento di Scienze Chimiche, che ormai da tempo conduce studi in questo settore. Suo e del suo team il merito di aver riprodotto artificialmente lo stadio centrale della fotosintesi: il meccansimo con cui la semplice molecola di acqua diventa ossigeno.

“La natura – osserva la docente – lavora con sistemi complessi, ordinati, dinamici e cooperativi e per riprodurli in laboratorio bisogna cercare questa sinergia di azione tra i diversi componenti: insieme producono una funzione che non è la semplice somma del tutto. Abbiamo preso in considerazione alcuni processi importanti che sono la produzione di energia da fonti rinnovabili come la luce del sole e ci siamo concentrati in particolare su un sistema perfetto che è quello della fotosintesi”. Lo studio è iniziato circa dieci anni fa. È stato un lavoro difficile e ha richiesto l’energia dell’impegno  di molti giovani collaboratori.

“La prima cosa che abbiamo voluto fare è capire se potevamo riprodurre in laboratorio il ‘cuore’ della fotosintesi: il centro di evoluzione dell’ossigeno. Si tratta di un catalizzatore, ovvero un sistema fatto da quattro atomi di manganese legati da ponti ossigeno, che riesce a scindere la molecola di acqua”. Marcella Bonchio ricorda in modo molto nitido e ancora affascinato, i primi passi mossi a Padova nel suo laboratorio e gli ostacoli incontrati nel corso delle ricerche. “La cosa difficile era avere un sistema che non solo fosse strutturalmente simile all’enzima naturale, ma che potesse lavorare e funzionare in “provetta”: una foglia artificiale in grado di utilizzare l’acqua e scinderla in ossigeno, elettroni e protoni”.

Nel corso degli anni il gruppo padovano ha esplorato un largo spettro di possibilità per cercare di riprodurre questo sistema, considerando non solo il manganese, che è  utilizzato in natura, ma altri possibili sostituti di tale elemento. “Siamo riusciti a isolare questo complesso artificiale che ha una somiglianza sorprendente con il sistema naturale, ma utilizza atomi di rutenio. Questo elemento è molto più costoso e non è così presente come il manganese sulla crosta terrestre. Però è robusto, veloce, efficace”. La molecola può essere facilmente sintetizzata in laboratorio e prodotta su larga scala, ma rimane un problema aperto: riuscire a sostituire il rutenio con un metallo più abbondante in natura e quindi meno costoso. “Al momento stiamo lavorando su sistemi di manganese, ma anche di ferro e cobalto per riuscire ad aumentare l’interesse per queste molecole sintetiche. Riusciremo infatti a utilizzarli per produrre energia da fonti rinnovabili se i nostri catalizzatori, cioè i nostri sistemi artificiali, saranno anche competitivi dal punto di vista della sostenibilità economica, e questo dipende anche dai costi relativi alla performance del sistema”.

Le foglie sono dei veri e propri laboratori chimici, equipaggiati con strumenti e sistemi molto sofisticati, non disponibili attualmente nella loro perfezione in nessun laboratorio costruito dall’uomo

I ricercatori sono riusciti a trasferire questo sistema su elettrodi, cioè su dispositivi che possono essere utilizzati in ambiente artificiale. Ora però si deve chiudere il cerchio: bisogna accoppiare questo primo sistema con una seconda reazione importante: si deve riuscire a intrappolare l’anidride carbonica proveniente dall’atmosfera o da altre fonti, per poi convertirla in combustibili a base di carbonio, come metano, e miscele di idrocarburi e di alcoli che possono essere usati come vettori energetici. “Anche questo secondo processo di trasformazione dell’anidride carbonica è di difficoltà formidabile perché l’anidride carbonica è una delle molecole più stabili e dunque è difficile letteralmente ‘piegarla’ ai nostri usi. Eppure, la natura ci riesce in condizioni veramente facili e anche in questo caso è stato il nostro punto di partenza”.   

Il gruppo coordinato da Marcella Bonchio lavora in collaborazione con diversi laboratori in tutta Europa, dalla Spagna all’Inghilterra, e in America, da Princeton a Pittsburgh. “L’apertura alle collaborazioni internazionali – sottolinea la docente – ha un valore altissimo, perché si entra in contatto con la frontiera della ricerca, con i risultati che stanno raggiungendo altri laboratori nel mondo. È una dimensione che arricchisce e spinge a un miglioramento continuo. E soprattutto serve a stabilire un confronto continuo su argomenti che richiedono un pensiero globale, l’intelligenza e la passione di tutti”.

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