SOCIETÀ

Dalla gentrification alla desertificazione: metropoli durante la pandemia da Covid-19

I was bruised and battered

I couldn’t tell what I felt

I was unrecognizable to myself

Saw my reflection in a window

Didn’t know my own face

So brother are you gonna leave me wasting away

On the streets of Philadelphia

(Bruce Springsteen, Streets of Philadelphia 1993)

 

Sono tante le strade che potrebbero prendere la parola, in una città fantastica, e dichiarare sconsolate, come canta The Boss: «Non riuscivo a riconoscermi. Vedevo il mio riflesso in una vetrina e non riconoscevo la mia stessa faccia». Città e strade che perdono l’orientamento, e a volte il senno, nel processo di gentrification da cui vengono investite alla ricerca di una presunta autenticità che le caratterizzava in un non definito “passato”.

Strade e città che abbiamo visto nella loro allucinante e abbagliante bellezza, nonostante noi umani, rinchiusi nei nostri spazi privati durante il lockdown della primavera del 2020 per la pandemia da Covid-19. ‘Nonostante’, perché la bellezza della natura o del paesaggio urbano, con la sottrazione dell’elemento umano, è risaltata come luce riflessa nei prismi di un diamante ponendoci nuovi interrogativi: siamo proprio necessari? Quanta responsabilità abbiamo con i nostri comportamenti irresponsabili sulla sostenibilità del pianeta per le generazioni future?

Le metropoli torneranno alla enorme, e soffocante per molti versi, vivacità che le caratterizzava in era pre-Covid19?

Nel 54° rapporto Censis del dicembre 2020 sullo stato del Paese si ipotizzava che le città, soprattutto a causa dello smart working, non sarebbero più tornate ad essere come prima; il rapporto cita: «Le relazioni di prossimità sono le uniche oggi possibili: e su quelle la vita di quartiere risponde meglio del centro. Stiamo diventando una città policentrica, nel senso che ogni quartiere si sta reinventando (per necessità, non ancora per virtù) come una piccola città: qualche quartiere la vocazione l’ha sempre avuta, ma adesso trova una ragione di più per seguirla. Non torneremo probabilmente ad avere la stessa densità di prima, e sicuramente dovremo ripensare a cosa fare degli spazi abbandonati dal lavoro a distanza; delle sale congressuali che dovranno essere ripensate; delle case impulsivamente affidate ad Airbnb o trasformate in bed and breakfast, ora deserte. È un’opera immane, ma è l’opera che serve oggi a Roma».

Si deve a Sharon Zukin l’aver rimesso al centro del dibattito degli studi urbani contemporanei, il tema dall’identità dei quartieri e dell’autenticità. Nel suo “Naked City” si concentra sulla sua città di New York arrivando alla conclusione che essa ha ormai «perso la sua anima», abdicandola a quella del valore che non è più il valore della rendita immobiliare, un valore che dipende dalle qualità materiali di un oggetto, ma che dipende dal simbolico, dalle componenti identitarie ed emotive. È anche l’identità a essersi ormai frammentata sotto l’onda di un’indifferenziata consumer city, ed è qui che l’autrice riprende il suo concetto di disneyzzazione del mondo, partendo dall’osservazione del mutamento di Times Square, passata in pochi anni da zona depressa e in balìa della criminalità, a divertimentificio e apoteosi del brand e del consumo parossistico.

Scrive Sharon Zukin nell’Introduzione a L’altra New York. Alla ricerca della metropoli autentica, (il Mulino, Bologna, 2013): «All’inizio del XXI secolo la città di New York ha perduto la sua anima – sostiene l’autrice – C’è chi dubita che la città ne abbia mai posseduta una, dal momento che New York è sempre cresciuta facendo a pezzi il suo passato, demolendo vecchi quartieri e costruendone di nuovi al loro posto, solitamente per una sfacciata ricerca del profitto» (p. 1).

L’origine di questa perdita è da rintracciarsi dall’ondata dell’arrivo della classe media in quartieri abitati da classi lavoratrici medio-basse e dal successivo imborghesimento di questi territori (o gentrification), fenomeno considerato, dalla Zukin, come minaccia per la diversità delle comunità. Il risultato della gentrification è una «identità prepotente» e aggressiva in un contesto dove le città stanno perdendo la loro «autenticità».

Le città e i quartieri gentrificati non sono più dei luoghi dove le persone possono mettere radici, ma esperienze che le persone consumano prima di fare in tempo a capire dove si trovano ed apprezzarne i confini.

È tuttavia poco utile esprimere giudizi di valore come scrive Carlo Cellamare: «La ricerca di socialità, di qualità della vita e dell’ambiente urbano, di appartenenza è solo moda? È solo desiderio, immagine e consumo? Non nasconde anche un bisogno reale, per quanto mascherato dal desiderio, pronto per il consumo? Non esprime anche una domanda sociale, più o meno legata alla vivibilità delle nostre città, se non addirittura una ricerca di senso? Non dobbiamo forse prenderla sul serio? Gli effetti della gentrification, lo abbiamo visto, pongono numerosi problemi, ma è difficile applicare una logica di giudizio negativo o positivo ai comportamenti delle persone; non per un motivo giustificativo, ma perché i comportamenti sociali sono esito di una molteplicità di fattori, dove sono in gioco sia condizionamenti massmediatici e di mercato e forme di imborghesimento, sia esigenze reali e profonde di socialità, di urbanità, di solidarietà collaborativa, ecc.» (Cellamare C., Introduzione a Ranaldi I., Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, Aracne, Roma, 2014, p. 16).

Il concetto di autenticità può essere usato per la rappresentazione di una città senza tempo, considerata come uno status symbol, come espressione di un’origine mitica, anche come uno stile che può essere prodotto, venduto e consumato da tutti, dai media, dalle agenzie immobiliari ad uso consumo e speculazione di nuovi gentrifier. La domanda sempre attuale è: come hanno fatto questi quartieri a passare da assolutamente inappetibili a improvvisamente trendy?

È fondamentale il ruolo dei media e l’enorme potenzialità che questi hanno nel reinventare il presente dei luoghi. Le riviste di lifestyle non fanno altro che definire ciò che è di moda e cosa no. E questo vale tanto per i quartieri e le città, che per altri tipi di merce come scarpe e borse. Pertanto l’autenticità è anche una creazione dei media che dirige gli investimenti in determinate parti della città.

Quale effetto ha dunque la gentrification sullo spazio urbano propriamente inteso, ma – anche e soprattutto – sulla produzione di senso e di identità spaziale e di riconoscimento di sé?

Zukin torna sull’argomento con la ricerca “Global Cities, Local Streets” (Zukin S., Kasinitz P., Chen X., Global Cities, Local Streets. Everyday diversity from New York to Shanghai, Routledge, New York, 2016), approfondendolo in uno studio parallelo sul cambiamento delle street of gentrification tra le città di New York, Shanghai, Tokio, Toronto, Amsterdam e Berlino. La ricerca mette in evidenza perché una cosa che può sembrare banale, come mettersi in un angolo di strada ad osservare il fluire delle persone e dei comportamenti, meriti in realtà un esame più approfondito come dimostrato dalla tradizione sociologica di teoria e ricerca qualitativa ed etnografica. L’osservazione delle strade chiarisce e mette in evidenza contraddizioni tra individui, corpi, mondi sociali, ambiente costruito, vita culturale, emigrazione ed emarginazione.

In un continuo andirivieni tra poli opposti che possono generare molteplici e simultanee letture del territorio, come sta avvenendo negli ultimi anni col crescente fenomeno della street art e, in generale, con l’uso e l’abuso del termine “rigenerazione urbana”.

Lo storytelling urbano a Roma racconta, soprattutto negli ultimi anni, le periferie romane come nuovi district culturali. Sui media assurgono a questo nuovo status già dal giorno seguente l’inaugurazione di una nuova opera di street art. Un esempio è il progetto di arte pubblica “San Ba” nella borgata ufficiale San Basilio dove artisti come Hitnes, Liqen e Iacurci hanno lasciato splendidi murales. Progetto condiviso con laboratori di quartiere e scuole per aprire un dialogo e incontro con gli abitanti. Tuttavia avvenne nella sordità delle istituzioni municipali che, senza intervenire sulla disastrosa condizione dei trasporti, della manutenzione stradale e del verde pubblico, e della sicurezza, si fece successivamente manto di una presunta “riqualificazione” della borgata. Quanta schizofrenia genera passeggiare in questi luoghi per un turista locale o per un turista straniero? Al bello estetico, all’innovazione creativa, al nome dell’artista internazionale, si contrappongono evidenti condizioni di vita difficili e marginali rispetto al resto della città.

Le città globali si trovano immerse in un flusso continuo di stimoli, movimenti e percezioni che fanno di esse, per loro stessa definizione, degli spazi in transizione e cambiamento. Nell’epoca dell’iperconnessione e del web 2.0, la riflessione che urbanisti, sociologi, architetti e gli abitanti stessi dovrebbero porsi è quanto questo cambiamento sia reale – ovvero vada ad impattare sulle reali e materiali condizioni di vita urbana marxianamente intese (scrivono Marx ed Engels: «La realtà consiste nelle situazioni concrete in cui l’uomo si trova a vivere ed in quelle che egli riesce a costruire. L’uomo si distingue dagli animali perché produce i propri mezzi di sussistenza. “Ciò che gli individui sono dipende dalle condizioni materiali della loro produzione. […] Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza» Marx K., Engels F., L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1932) – oppure quanto sia narrato con la tecnica mainstream dello storytelling. Se il giornalismo, finita l’era dei comunicati stampa unidirezionali, si è accorto da tempo che è arrivato il momento di raccontare delle storie, tanto più se ne sono accorti blogger di turismo, food e cultura per narrare la città e le sue, vere o presunte, trasformazioni. 

Lo storytelling permea tutte le modalità del racconto, da quello scritto a quello visivo. Da trenta secondi a pochi minuti, l’utilizzo delle immagini e dei video sta catturando l’interesse dei grandi network mondiali, che si stanno adattando a questo nuovo linguaggio e sfruttano immagini, gif, infografiche per raccontare cosa succede nel mondo.

Il “ciack si gira” si fa quasi sempre con lo smartphone, si sfruttano le dirette di Facebook, c’è chi comunica con Snapchat, in 30 secondi. Purché il racconto sia immersivo. Le nuove storie devono “mostrare”, non solo raccontare. La parola non è più abbastanza, e non c’è distinzione, in questo, tra giornalismo e comunicazione.

La “riqualificazione” a lungo (o breve) andare conduce successivamente alla gentrification come artefatta riscoperta dell’autentico che la tenaglia del neo-liberismo annullerà, lasciando tra le sue maglie le botteghe, i panifici, gli artigiani, le sartorie, ecc. dove si produceva realmente quell’autentico che si andava a ricercare all’inizio del processo. Tutto questo comporta l’erosione dell’identità dei luoghi intesa come senso di comunità.

Se il termine gentrification indica l’insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un’area urbana per rispondere al meglio ai gusti della popolazione benestante, quale modo migliore di predire questi cambiamenti se non attraverso l’uso dei social media?

Secondo una ricerca di Cambridge intitolata Predicting gentrification through social networking data, i check-in su Foursquare e i tweet geolocalizzati degli utenti raccontano molto dell’andamento di un buon sabato sera tra amici e possono anche predire il processo di gentrificazione delle città.

Lo studio, che ha visto all’opera i ricercatori di Cambridge al fianco dei colleghi dell’Università di Birmingham, della Queen Mary University di Londra, e dello University College di Londra, ha osservato i dati di circa 37mila utenti e 42mila luoghi di Londra per creare una rete di localizzazioni di Foursquare, e parallelamente su Twitter, analizzando più di mezzo milione di check-in nell’arco di dieci mesi.

Da questi dati sono riusciti a stabilire la diversità sociale di quartieri e locali, distinguendo quali di questi tendevano ad attrarre sconosciuti invece che gruppi di amici, o visitatori casuali invece che abituali.

Quando le metriche di social diversity sono state comparate con gli indicatori di benessere dei vari quartieri di Londra, i ricercatori hanno scoperto che i segnali della gentrification, come l’aumento dei prezzi delle case o l’abbassamento dei tassi di criminalità, erano più forti nelle aree svantaggiate ad alta densità di diversità sociale. 

Tuttavia è anche necessario porre attenzione al rimpianto di una presunta era idilliaca e autentica, per non correre il rischio di somigliare troppo al personaggio del libro di Italo Calvino, Marcovaldo, impegnato in una lotta tanto ostinata quanto inutile contro tutti i segni della città, in nome di valori ormai perduti quali quelli della tradizione contadina e della vita di campagna (Calvino I., Marcovaldo o le stagioni della città, Einaudi, Torino, 1963).

Altrimenti la schizofrenia urbana rischia di aumentare.

In un libro del 1990, ma ancora attuale, a cura di Raffaele Scelsi, Cyberpunk. Antologia di scritti politici (ShaKe Edizioni, Milano), si parla della città schizo-metropolitana come «luogo della sovrapposizione senza miscelamento di culture e pratiche esistenziali afone tra loro». Questa Antologia di scritti politici ebbe il primato di raccontare il cyberpunk come controcultura densa di simboli, dopo il tramonto del dissenso organizzato della rivoluzione hippy. Una nuova esperienza urbana, underground e punk era alle porte col nuovo scenario tecnologico onnipervasivo alla fine del XX secolo. Il portato di questa rivoluzione e quello che avrebbe lasciato nelle metropoli, sarebbe stato il sovrapporsi di culture (si iniziava a parlare di “mondializzazione” e in seguito di “globalizzazione”). 

 

l termine “metropoli” come è noto in greco significa “città-madre” e si riferiva al rapporto fra la polis e le sue colonie. I cittadini di una polis che partivano per fondare una colonia erano in apoikia ovvero in “allontanamento dalla casa” rispetto alla città, che, nella sua relazione alla colonia, veniva allora chiamata metropolis, città-madre.

Il termine metropoli implica quindi una dis-locazione territoriale e una disomogeneità spaziale e politica, come nel rapporto città-colonie. L’inverso quindi della considerazione della metropoli come tessuto urbano omogeneo.

Nel 2015 una ricerca del King’s College di Londra ha messo in correlazione l’insorgenza di malattie psichiche con la vita metropolitana, insorgenza decisamente preoccupante se – come previsto dalle Nazioni Unite entro il 2050 – due terzi della popolazione mondale vivranno nelle città. Un’umanità sempre più affetta da “follia urbana”? L’esperienza del vivere urbano è connotata da picchi di elementi di sofferenza e picchi di grande bipolarità: la confusione del traffico da automobile, il rumore, la densità umana, l’atmosfera frenetica, la vicinanza forzata con gli sconosciuti, la frequente combinazione di folla e isolamento, la coesistenza nello stesso spazio urbano di sacche di estrema povertà e disagio con condizioni di benessere e lusso, gli atteggiamenti e le azioni razziste nei quartieri ad alta densità di cittadini stranieri, ecc. La questione della vita mentale nelle metropoli ha occupato molti studi durante l’industrializzazione europea e statunitense nel XIX secolo. Il sociologo tedesco Georg Simmel è stato uno dei primi a descrivere quello che ha definito l’atteggiamento blasé del cittadino: una sorta d’indifferenza psicologica, necessaria nel momento in cui i nervi di una persona sono a contatto diretto con la stimolazione senza interruzione, della vita cittadina.

Allo stesso tempo, l’epidemiologia ha trovato delle sproporzionate quantità di malattie mentali tra coloro che adesso vivono in città: dai disturbi mentali degli stranieri fuggiti dai loro paesi dove, spesso, hanno subito violenze, al crollo mentale chiamato schizofrenia.

Nonostante il dettagliato lavoro demografico, epidemiologico e sociologico, la faccenda rimane irrisolta: non c’è alcun consenso sulla relazione tra la metropoli e la vita mentale. Dato l’aumento delle metropoli e delle sfide di pianificazione dei servizi di salute mentale, la questione è diventata ancora più urgente di quanto non fosse nel XIX e nel XX secolo.

Naturalmente, molti dei problemi della vita cittadina sono radicati nelle relazioni sociali ed economiche; ma questi rapporti riguardano anche corpi e cervelli. Allo stesso modo, sebbene i disturbi mentali si manifestino indubbiamente tramite dei processi neurobiologici, bisogna andare al di là di un focus incentrato solamente sul cervello, e cominciare a comprendere e studiare la città come uno spazio neurosociale, e osservare come la vita della città compenetra profondamente la vita mentale e neurale dei suoi abitanti.

Se oggi ci accingiamo a fare i conti con le conseguenze dell’urbanizzazione sulla salute mentale, abbiamo bisogno di iniziare a pensare in modo diverso circa la vita della città; non semplicemente come una forma di organizzazione sociale che ha delle conseguenze biologiche, ma come una forma di vita la cui neurologia e gli aspetti sociologici sono inseparabili l’uno dall’altro.

Come stanno diventando le strade delle metropoli se non l’una uguale all’altra? La bipolarità della metropoli contemporanea è uno stato mentale col quale dovremmo convivere a lungo in una continua ricerca dell’ossimoro urbano del verosimile autentico.

Ma ormai “oggi” è uno scenario assolutamente cambiato.

Come stanno diventando le strade delle metropoli se non l’una uguale all’altra?

Lo abbiamo visto durante il lockdown: l’assenza del paesaggio umano ha reso identiche la 5th Avenue di New York e via dei Condotti a Roma. La bipolarità della metropoli contemporanea è uno stato mentale col quale dovremmo convivere a lungo in una continua ricerca dell’ossimoro urbano del verosimile autentico.

Tanto più che in questo periodo di pandemia il benessere psichico è notevolmente peggiorato e la stessa OMS ha messo in guardia sull’incremento di malattie mentali e di ricorso a psicofarmaci.

In pochi giorni siamo passati dai fenomeni di overtourism che le cronache da Venezia, da Firenze, da Roma avevano reso noti, al deserto. Con tutto ciò che questo comporta per migliaia di lavoratori autonomi. È il momento di mettere in relazione questi estremi, e di porsi nuove domande.

Nella primavera del 2020 abbiamo assistito in pochi giorni ai primi disastrosi danni economici del COVID-19 che si sono abbattuti sul turismo, uno dei settori fondamentali per l’economia italiana, che dà lavoro a 4,2 milioni di persone (Eurostat) e che nel 2018 ha rappresentato il 13,2% del PIL, pari a un valore economico di 232,2 miliardi di euro (Enit). La prima conseguenza è stata la cancellazione pressoché totale e senza rimborso di servizi turistici e viaggi: a maggio 2020 Confturismo e Confcommercio già calcolavano 31,625 milioni di turisti in meno e 7 miliardi di euro persi tra il 1 marzo e il 31 maggio.

In questa crisi globale quindi un peso sempre più rilevante lo ha e lo avrà per i prossimi anni proprio la grande industria del turismo e del consumo di cultura nelle città e nei luoghi aperti al pubblico. Industria di cui Marco D’Eramo ha fornito una storia nel suo Il selfie del mondo. Indagine sull'età del turismo (Feltrinelli, Milano, 2017), e che comporta profondi mutamenti del modo di vivere lo spazio urbano e comunitario.

In pochi giorni siamo passati dai fenomeni di overtourism che le cronache da Venezia, da Firenze, da Roma avevano reso noti, al deserto. È sempre più urgente arrivare a diversificare la proposta turistica, per deviare su altri siti gli insostenibili flussi di visitatori che si concentrano su poche aree oberate da una spietata messa a profitto che trasforma il Colosseo, i Musei Vaticani, il Pantheon e il Tridente (per restare nella Capitale), in questi mesi paurosamente deserti, in affollati blockbusters.

Secondo Assoturismo, il coronavirus «ha cancellato oltre mezzo secolo di turismo», e alla fine del 2020 registreremo livelli di turismo “simili a quelli a metà anni Sessanta, quando il mondo era diviso in blocchi e i viaggi aerei erano un lusso per pochi».

Come nella canzone di Springsteen in questo momento le città stentano a riconoscersi. «Non riuscivo a riconoscermi. Vedevo il mio riflesso in una vetrina e non riconoscevo la mia stessa faccia».

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