SOCIETÀ

Dall’Impero Ottomano alla Repubblica Turca

Il 17 novembre 1922 la nave da guerra britannica Malaya lascia quella che allora si chiama ancora Costantinopoli, direzione Malta. A bordo, accompagnato da qualche cortigiano, il deposto sultano Mehmet VI Vahdettin: non rivedrà più la Città d’oro e quattro anni più tardi si spegnerà a Sanremo, attorniato dagli eunuchi e dalle cinque mogli, nella villa che era stata di Alfred Nobel.

Pochi giorni prima, il 1° novembre, la Grande assemblea nazionale di Ankara ha formalmente abolito l’Impero Ottomano, tenendo però temporaneamente in vita il califfato. “Come nuovo califfo verrà scelto Abdülmecid II, cugino ed erede di Mehmet VI nonché bravo pittore e fine intellettuale – spiega Fabio L. Grassi, docente di Storia dell’Europa Orientale alla Sapienza di Roma –. In maniera del tutto inedita nella storia dell’Islam viene architettata una separazione tra potere spirituale e temporale sul modello occidentale: è però solo una soluzione temporanea, funzionale a ciò che Mustafa Kemal può fare in quel momento”. Il 29 ottobre 1923 seguirà la proclamazione della Repubblica, mentre il 3 marzo 1924 anche il califfato verrà abolito: il tutto sempre nel segno del futuro Atatürk, al quale Grassi, che per anni ha vissuto e insegnato in Turchia, ha dedicato una corposa biografia per i tipi della Salerno editrice.

Da impero multinazionale a repubblica laica e nazionalista: un salto incredibile, quasi inimmaginabile senza una figura come quella di Kemal.

“È chiaro che c’erano già delle tendenze in questo senso: con la prima guerra mondiale però in tutta Europa viene inaugurata la stagione dei radicalismi. Anche in Turchia, all’interno del vasto fronte nazionalista, non tutti si augurano la fine dell’Impero Ottomano e l’instaurazione di una repubblica, per di più con quelle caratteristiche: alla fine però non si impone una figura moderata ed equilibratrice, bensì quella più intransigente”.

Un passaggio sul quale aleggiano tragedie come il genocidio armeno e la pulizia etnica?

“La genesi della Turchia repubblicana, come ho detto in qualche occasione, può essere paragonata a una colata di cemento su un vulcano esploso. Pensiamo che allo scoppio della grande guerra nei territori dell’attuale Turchia ci sono non più di 20 milioni di persone, dei quali tre milioni di profughi, o loro discendenti, e circa tre milioni e mezzo di cristiani. Già nel 1894-6 e nel 1909 ci sono delle spaventose stragi di armeni anatolici, che vivono in uno stato di permanente pericolo soprattutto a causa dell’afflusso dei musulmani cacciati dai Balcani e dal Caucaso, immiseriti e inferociti. Anche per questo nelle élites armene, tra cui ci sono anche molti progressisti o socialisti, nasce e si rafforza una coscienza nazionale e la volontà di una redenzione con la nascita di un’entità armena, indipendente o in seno all'impero zarista”.

La genesi della Turchia repubblicana può essere paragonata a una colata di cemento su un vulcano esploso

I massacri iniziano quindi con lo sfaldamento dell’Impero multietnico.

“Le vicende balcaniche parlano chiaro: con la nascita dei nuovi Stati c'è una gigantesca espulsione delle popolazioni musulmane, che soprattutto durante la prima guerra balcanica (1912) comporta anche centinaia di migliaia di morti. Si tratta però di un fenomeno di lungo periodo che risale almeno alla conquista russa del Khanato di Crimea, con la migrazione sistematica delle popolazioni musulmane, turcofone e non, e che si verifica nei territori via via persi dall'Impero Ottomano. Gli Stati nazionali si formano compattando la popolazione, eliminando o assimilando le minoranze; questo però si può fare quando la religione è comune, come ad esempio avviene con gli albanesi ortodossi in Grecia, mentre con i musulmani non ci si prova neppure. Sotto la scorza della nuova mentalità portata dall’occidente, in molte parti dell’Europa orientale la religione rimane l’elemento identitario fondamentale: con la riforma costituzionale del 1974 la Jugoslavia titina e marxista, non l'Impero Ottomano, riconosce come comunità nazionale i musulmani di Bosnia Erzegovina”.

Lo stesso destino di esilio e di morte colpisce anche i Circassi, ai quali ha dedicato una monografia (Una nuova patria. L’esodo dei Circassi verso l’Impero Ottomano).

“Il termine viene utilizzato estensivamente dall’amministrazione ottomana per indicare le popolazioni musulmane montanare del Caucaso, spesso sottoposte a una vera e propria pulizia etnica in seguito alla conquista zarista. Tra 1862 e il 1864, in particolare, centinaia di migliaia di nativi del nord-ovest vengono massacrati e cacciati, fino a quando alla fine del secolo scendono al di sotto del 10% della popolazione”.


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In pratica la cacciata delle popolazioni musulmane dai Balcani e dal Caucaso fornisce ai giovani turchi da una parte un modello, dall'altro gli esecutori dei massacri dei cristiani.

“A suggerirlo sono due importanti atti diplomatici, il trattato Santo Stefano e quello di Berlino del 1878, che stabiliscono espressamente che il monarca ottomano deve proteggere gli armeni da circassi e curdi. Eppure per decenni molti si illudono che la colpa dei primi massacri anti-armeni sia del retrivo regime di Abdülhamid II. Nel 1908 la rivoluzione dei giovani turchi è appoggiata da gran parte delle forze progressiste musulmane e cristiane, ancora formalmente alleate, nell’illusione che con il ripristino della costituzione si possa creare un nuovo Stato ottomano all'insegna dell’unione dei popoli. Tutti i testimoni sono concordi nel riportare vaste manifestazioni non solo di tripudio ma anche di fratellanza: ho trovato addirittura un manifesto greco in cui si inneggia a Enver bey, che pochi anni dopo sarà assieme a Talat l’ideatore e l’artefice della distruzione degli armeni in Anatolia”.

Tutto sommato era dunque meglio la pax ottomana?

“L’impero Ottomano non va né demonizzato né mitizzato. Fino al XVIII secolo, più che i cristiani, teme e reprime soprattutto gli eretici all’interno dell’Islam. Ma nel XIX appare arcaico e oppressivo. E ci mancherebbe che si mettessero sotto accusa le popolazioni balcaniche cristiane. Dobbiamo pensare questo: che sarebbe successo durante le cinque giornate se la popolazione di Milano fosse stata costituita al 45% da tedeschi, residenti lì da secoli? Il Risorgimento italiano è la liberazione da un dominio esterno straniero; la tragedia dei Balcani e dell’Anatolia è che il dominio ottomano non era completamente estraneo a quelle società, e che la sua caduta non poteva che comportare in qualche modo l’emarginazione o addirittura l'eliminazione delle comunità solidali con quel dominio”.

La ‘profondità strategica’ cercata da Erdoğan è l’esatto contrario della visione centripeta di Atatürk

Che differenze e che punti di contatto ci sono tra l’imperialismo ottomano e quello turco di oggi?

“Oggi Erdoğan cerca il recupero di una ‘profondità strategica’ che è l’esatto contrario della visione centripeta di Atatürk. La Turchia, nel momento in cui il mondo è cambiato con la fine della guerra fredda, si è sentita di assumere un ruolo molto più attivo che in passato, sia con un’espansione innanzitutto economica nei Balcani sia recuperando il rapporto con il mondo islamico, in netta antitesi con la visione kemalista. Poi Erdoğan ha voluto essere il padrino delle primavere arabe, ma in seguito si è imprudentemente buttato nel ginepraio siriano, anche per scoraggiare i tentativi di autonomia dei nazionalisti curdi. E lì si è impantanato”.

A livello interno c’è anche il tentativo di reislamizzazione della società.

“Non è sbagliato dirlo ma bisogna chiarire in che termini. Erdoğan si comporta specularmente ad Atatürk, che in pubblico non attaccava l’Islam ma poi faceva una politica che andava a disgregare la cultura islamica, non tanto come fede ma come pensiero e visione della società. Atatürk ha cercato di devitalizzare l’Islam come si devitalizza un dente e oggi Erdoğan fa lo stesso con il kemalismo. Aggiungo che in questo lui e Abdullah Gül, che per un decennio è stato l’altro dioscuro della politica turca, si sono serviti astutamente di quegli ambienti laici e democratici che contestavano i tratti autoritari e militaristi della Repubblica turca. Un lungo braccio di ferro con lo Stato profondo e l’establishment ‘laico’, che però almeno inizialmente ha coinciso con una grande crescita economica e con l’apertura di spazi di democrazia inediti”.

Poi cos’è successo?

“Il primo decennio di Erdoğan è stato di gran lunga il più democratico che la Turchia abbia avuto. Poi anche lui si è messo a fare quello che gli altri facevano fino al 2002…”

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