Particolari dall’edizione della "Commedia" di Alessandro Vellutello
Poco dirò di Aḣmad ibn Muḣammad ibn Kathīr al-Farghānī che Dante conobbe col nome di Alfagrano. La grande biblioteca palatina e l’osservatorio astronomico fondati dal califfo al-Ma’Mūn (813-833), furono i due luoghi di Bagdad dove l’astronomo fiorì. Un cronista degli abbasidi indicò due soli volumi scritti da questo astronomo: un compendio dell’Almagesto di Tolomeo e un trattato sulla costruzione delle meridiane; in realtà il compendio e trattato erano due parti di un solo libro. Nella Spagna del XII secolo, Giovanni di Siviglia e Gherardo da Cremona conobbero e tradussero il compendio che sarebbe diventato l’opera di astronomia araba più diffusa nell’Occidente cristiano.
A Padova, nel 1464, Regiomontano pronunciava nello Studio un’elegante orazione sul corso di studi dedicato in quell’anno al celebre astronomo e, sempre a Padova, una ventina d’anni più tardi, Isaac ben Samuel volgeva in ebraico un commento dall’arabo. I torchi incessantemente tirarono copie dell’opera di Alfragano fino al Seicento. Non abbiamo dubbi che questo compendio, conosciuto da Dante come Libro dell’aggregazione delle stelle fosse il suo testo di riferimento per l’astronomia.
Chiediamoci dunque quali conoscenze geografiche potesse avere il nostro Poeta. Cominciamo col dire che l’universo di Dante è sensibilmente diverso dal nostro. Dante sa bene, come qualsiasi persona istruita del suo tempo, che la terra è un globo, ricava dal Libro delle aggregazioni il diametro del pianeta Mercurio, la distanza della terra da Venere, il periodo di rivoluzione dei pianeti e il numero delle stelle fisse che sono in totale soltanto milleventidue.
Le terre emerse occupano solo la quarta parte del globo, sono completamente circondate dagli oceani e presenti solo nell’emisfero settentrionale. Con queste premesse non stupisce il folle volo di Ulisse (If. XXVI, 125), soprattutto sapendo che alcune spedizioni presero quella via, come quella di Genova nel 1280-1290, di cui si perse ogni traccia.
Dal Convivio (III, IV) ricaviamo che Dante, sempre seguendo la sua fonte primaria, presume che la terra si estenda in longitudine per 180° (10.200 miglia) ossia dalle colonne d’Ercole alle foci del Gange. Dato che la circonferenza del globo è pari a 20.400 miglia, la terra per Dante (ma molti sostengono anche per Cristoforo Colombo che lo avrebbe portato ad un fortunato errore di valutazione) misura 1/6 di meno della realtà.
Dei continenti, l’Asia occupa la metà del mondo abitabile, il rimanente è occupato a Nord dall’Europa e a Sud dall’Africa. Al centro del mondo è Gerusalemme: questo non lo crede Alfragano (che ritiene la Mecca il centro del mondo) ma è testimoniato dalla Scrittura, dai sapienti e perfino dalla testimonianza dei pellegrini medievali che nella chiesa del Santo Sepolcro sostenevano di aver visto “l’umbilicus terrae”, un pilastro che nel giorno del solstizio non gettava ombra a mezzogiorno. Il paradiso terrestre, argomento seriamente contemplato nelle discussioni geografiche, veniva posto nelle mappe ora in India ora al largo della Bretagna. Nel 1498 Cristoforo Colombo era certo di averlo scoperto in America descrivendolo in una lettera ai re cristianissimi e ancora nel 1721 la leggendaria Isola di San Brandano, con cui spesso il paradiso terrestre veniva confuso, veniva ceduta formalmente al Portogallo.
Come la terra abitata, la topografia dei luoghi infernali non era esclusiva dei teologi: tardiva ma degna di interesse è l’opera del 1620 del bizzarro cartografo, topografo, astronomo e viaggiatore Giuseppe Rosaccio, che pure si era laureato in filosofia e medicina a Padova. Rosaccio localizzava e dava per certa l’esistenza all’interno della terra la presenza degli inferi ironizzando sull’affollamento che le anime dovevano patire.
Non serve riprendere le note congetture, più o meno fondate, sulle fonti arabe impiegate da Dante per costruire la sua topografia infernale. Ibn Yurayy aveva diviso l’inferno in un profondo abisso di sette livelli, ciascuno abitato da particolari categorie di reprobi divorati dal fuoco eterno, Allāh ibn ‘Umar aveva popolato l’abisso da genti condannate a bere il proprio sangue e mangiare la propria carne, da cinocefali e infedeli divorati da enormi serpenti. Meno note sono invece le descrizioni infernali dell’ebraismo che, contrariamente a quanto comunemente si ritenga, elaborò una dottrina della punizione eterna. Secondo una di queste fonti ci vorrebbero 6300 anni per percorrere le sette divisioni infernali. Ogni divisione è divisa in sette parti percorsa sette fiumi di fuoco e grandine.
Se i mondi letterari e fittizi come quello di Tolkien e C.S. Lewis hanno prodotto cartografie dettagliate e persino atlanti per permettere di seguirne la narrazione, come sarebbe potuta sfuggirne la Commedia dato che nell’immaginario dei lettori questi luoghi potevano essere realmente esistenti? Molti autori, soprattutto nel Rinascimento, si erano persuasi che il Poeta stesso, negli studi preparatori della Commedia, avesse disegnato, almeno con gli occhi della mente, la struttura, la forma e il sito dell’Inferno coi suoi fiumi, pianure, elementi architettonici come torri, ponti, eccetera. Il più geniale tra questi tentativi è da ascrivere ad Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497). Cittadino e politico fiorentino, allievo e poi biografo di Filippo Brunelleschi, membro dell’accademia platonica, copista e volgarizzatore di trattati scientifici come la Sfera d’Alfragano di Giovanni Sacrobosco e appassionato di Dante; Manetti cercò di unire l’Umanesimo al Medioevo, ravvisando nell’universo immaginato da Dante un ordine e una bellezza fondati su numero, ordine e misura. Le indagini di Manetti vennero riprese, nel 1481, nel commento alla Commedia di un altro membro dell’accademia platonica, Cristoforo Landino (1424-1498) seguite dall’edizione giuntina del 1506 dal Dialogo di Antonio Manetti circa al sito, forma et misure dello Inferno di Dante Alighieri di Girolamo Benivieni (1453-1542).
Sembrava che i fiorentini Manetti, Landino e Benivieni fossero riusciti a ritrovare matematicamente le dimensioni e la struttura della meravigliosa architettura infernale dantesca, quando un lucchese trapiantato a Venezia, Alessandro Vellutello (nato nel 1473), nella sua edizione della Commedia attaccò ironizzando la ricostruzione fiorentina.
Gli accademici fiorentini, punti nell’orgoglio, per scongiurare l’offesa ingaggiarono un giovane nobile e promettente matematico fiorentino: Galileo Galilei. Tra il 1587 e il 1588 davanti ai membri dell’Accademia fiorentina che normalmente si riuniva a Palazzo Vecchio, Galileo presentò la sua esposizione dei due sistemi.
Questo testo di Galileo, che venne ritrovato nell’Ottocento, è stato recentemente ripubblicato da Riccardo Pratesi con una bella introduzione, disegni e note esplicative dell’autore. Per illustrare le due fabbriche infernali Galileo aveva a disposizione, come ricorda Pratesi, dei disegni che purtroppo sono andati perduti. Per farci un’idea possiamo però riferirci ad alcuni disegni di Giovanni Stradano e, soprattutto, dell’illustrazione contenuta nell’edizione della Commedia pubblicata nel 1595 dall’Accademia della Crusca che riprende puntualmente la versione di Manetti illustrata da Galileo.
Nella prima lezione Galileo descrisse l’inferno di Manetti che ha forma conica con un angolo al vertice di 60° posto nel centro della terra, il centro dell’universo fino ad allora conosciuto; la profondità dell’Inferno (sempre desunta dai dati di Alfragano) è pari al raggio terrestre e supera 3245 miglia. Questo enorme baratro è diviso in otto gradi che Galileo paragona a un anfiteatro che di grado in grado va restringendosi.
A ciascuno dei primi quattro gradi corrisponde un cerchio: nel primo il limbo, nel secondo i lussuriosi, nel terzo i golosi, nel quarto i prodighi e avari. Il quinto grado è diviso in due cerchi: la palude Stige, le fosse e la città popolate da iracondi, accidiosi ed eretici. I primi sei gradi sono equidistanti tra loro ma la distanza che separa il 6° grado dei violenti dal 7° dei fraudolenti (Malebolge), ossia il Burrato di Gerione e la distanza quella che separa il 7°grado dall’8° grado, corrisponde al pozzo dei giganti, sono diverse.
Proprio riguardo a Malebolge, Dante stesso ci fornisce anche delle indicazioni quantitative e non solo qualitative: la nona bolgia dei seminatori di discordia è lunga 22 miglia (If. XXIX) mentre la decima dei falsari è lunga 11 miglia. I più antichi commentatori intesero questa come una progressione geometrica: 11, 22, 44, 88, ecc. ma così ragionando la dimensione di Malebolge diventa presto inaccettabile. Intendendo però la progressione delle bolge come aritmetica (11, 22, 33, 44...) era possibile ottenere una circonferenza di 110 miglia per la prima bolgia e di 11 per la decima. Galileo riuscì ad illustrare l’altezza del buratto di Gerione in poco più di 730 miglia e il pozzo dei giganti in circa 81 miglia.
Galileo passò quindi ad esaminare la superficie “di calpestio” dei vari cerchi e infine a stabilire la dimensione dei Giganti e di Lucifero che viene ricavata attraverso l’uso delle proporzioni partendo dalla dimensione della pigna citata da Dante e che ancor oggi di può vedere a San Pietro in Vaticano.
Galileo conclude la ricostruzione di Manetti scrivendo che
“indubitamente potremo affermare con maravigliosa invenzione avere il Manetti investigata la mente del Poeta”
Passa quindi ad esporre la ricostruzione di Vellutello che ritiene insostenibile; per il burrone di Gerione “si troveranno le pareti superiori prive di sostegno che le regga, il che essendo indubitamente rovineranno; perciò che essendo che le cose gravi cadendo vanno per un linea che drittamente al centro le conduce se in essa linea non trovano chi le impedisca e sostenga, rovinano e caggiono”
Mancano o ignoro del tutto delle dettagliate ricostruzioni dell’architettura infernale nel Seicento e Settecento, notevoli sono però quelle del secolo decimonono. Francesco Gregoretti, uno studioso che si laureò a Padova all’inizio del secolo, pubblicò a Venezia nel 1865, sesto centenario dalla nascita di Dante, quattro tavole in grande scala dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso dove si nota un ritorno al tentativo di quantificare le dimensioni della fabbrica del tormento. Dieci anni prima Michelangelo Caetani, pubblicò sei tavole piuttosto schematiche con una dimensione imprecisata quanto smisurata del vano infernale.
Ma tra tutti gli interpreti dell’architettura infernale del secolo scorso, il più interessante ed eterodosso, fu probabilmente il geografo Cosimo Bertacchi (1854-1945). Il geografo Giovanni Marinelli (che divenne poi docente all’università di Padova dal 1878) lo ebbe come allievo all’istituto tecnico e continuò ad incoraggiarlo gli studi geografici avviandolo all’insegnamento. Bertacchi divenne un geografo molto importante, allievo di Carducci e amico di Pascoli e Arturo Graf, organizzò numerosi congressi per la Società Geografica Italiana, promosse la geografia come scienza formativa nell’educazione nazionale insegnando nelle università di Messina, Palermo, Bologna e Torino.
Nel 1881 Bertacchi e Vaccheri pubblicarono la Cosmografia della Divina Commedia; la visione di Dante Allighieri considerata nello spazio e nel tempo seguita dall’opera Dante geometra.
La forma dell’inferno come cono a gradoni sarebbe stata, a detta degli autori, estranea a Dante e geometricamente impossibile. Nel nuovo modello proposto, l’Inferno è composto da due strutture distinte: una piccola conca con i primi quattro gradi che scendono sino alla palude Stige e da cui si discende al grado dei violenti e ancora a Malebolge. Da questi gradoni, sempre perpendicolari al centro della terra, si discende nel pozzo dei giganti passando da un emisfero all’altro che molto probabilmente avrebbe irritato anche un medievale ben disposto verso la popolazione degli antipodi.
Le tavole illustrative di questo nuovo Inferno, piuttosto confuse nel volume di Bertacchi, vennero riprese nel volume dedicato al Paradiso terrestre dantesco di Edoardo Coli e ancora nella topo-cronografia del viaggio dantesco del maestro Giovanni Agnelli (1897) che riassunse efficacemente la maggior parte dei modelli proposti sino ad allora. Ormai la ricostruzione scientifica dell’Inferno era diventata una pratica abusata e per molti cercare di ricostruire la posizione, sito e dimensione dell’inferno era diventata una operazione perfettamente inutile.