Tra gli epiteti con cui viene denominato Dante vi è quello di "padre della lingua italiana", padre cioè della lingua che parliamo ancor oggi, con una incredibile, anche se solo apparente, continuità dalle origini a oggi. È vero, infatti, che la quasi totalità del lessico comune usato ai nostri giorni ricorre già nei testi volgari del tempo di Dante. Ma osservare questo fatto, incontrovertibile, non fa che semplificare una questione ben più complessa. In un notissimo "esercizio d’interpretazione" del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare (pubblicato per la prima volta nel 1947), Gianfranco Contini ha osservato che sì, quel sonetto pare scritto ieri, dal momento che contiene tutte parole tuttora in uso (l’unica parola scomparsa è labbia: volto), ma "si può dire invece che non ci sia parola, almeno delle essenziali, che abbia mantenuto nella lingua moderna il valore dell'originale". Lo stesso può dirsi della grammatica, se, proprio nella nostra Università di Padova, un decennio fa è stata realizzata una Grammatica dell’italiano antico (Bologna, Il Mulino, 2010), coordinata da Lorenzo Renzi, assieme a Giampaolo Salvi: i due studiosi hanno sentito il bisogno di affiancare alla Grande grammatica italiana di riferimento dell’italiano contemporaneo, che avevano curato assieme ad Anna Cardinaletti, una grammatica dell’italiano del Due e Trecento, proprio perché le notevoli differenze tra l’italiano delle origini e l’italiano di oggi impedivano che la grammatica dell’italiano medievale potesse essere descritta compiutamente con le stesse regole con le quali possiamo descrivere e interpretare l’italiano moderno.
C’è però un primo, e fondamentale, motivo per il quale la definizione può essere accolta: Dante è stato scelto come padre della lingua italiana, o meglio come uno dei padri della lingua italiana. Nel lungo processo che ha alla fine portato, nel Cinquecento, a definire il modello dell’italiano letterario, si è affermato come punto di riferimento il fiorentino trecentesco di quelle che sono state definite le Tre Corone, Petrarca, Boccaccio e, per l’appunto, Dante. Il titolo di “padre della lingua” attribuito a Dante è, però, un titolo poco più che onorifico: quando Bembo nel secondo libro delle Prose della volgar lingua ha trattato lo stile della letteratura in volgare e nel terzo ha definito le caratteristiche grammaticali dell’italiano, che proprio in quell’opera trovano per la prima volta una configurazione esplicita, ha avuto come modelli Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Sia considerazioni stilistiche (l’eccessivo realismo di parte della produzione dantesca, in primo luogo l’Inferno), sia considerazioni linguistiche, legate all’eccezionale pluristilismo di Dante, portarono a escludere Dante dai modelli effettivamente proposti per fungere da guida nelle scelte grammaticali e lessicali di chi voleva scrivere in prosa e in poesia: proprio la ricchezza del pluristilismo dantesco rendevano la scrittura di Dante poco replicabile e, quindi, ne facevano un modello poco efficace nel processo di imitazione che è stato alla base della diffusione in tutte le scritture dell’italiano a base trecentesca.
“ Nel Cinquecento, a definire il modello dell’italiano letterario, si è affermato come punto di riferimento il fiorentino trecentesco di quelle che sono state definite le Tre Corone, Petrarca, Boccaccio e, per l’appunto, Dante
Ma ci sono altre ragioni che giustificano l’idea che Dante sia il padre della nostra lingua. Sono ragioni legate più propriamente all’uso che Dante ha fatto del volgare fiorentino in una grande opera letteraria quale è la Divina Commedia. Anche qui, però, bisogna sgomberare il campo da un equivoco: Dante non fu certamente il primo a usare il volgare e non più (solo) il latino in opere letterarie, oltre che in scritti non letterari: considerando la sola letteratura, è noto che la prima scuola poetica, indubbiamente di alto valore, la Scuola Siciliana, ha preceduto Dante di qualche decennio (i prodotti dei Siciliani datano a partire dal secondo quarto del XIII secolo); ritrovamenti recenti (una canzone e un frammento in una carta ravennate e un frammento piacentino) ci attestano la diffusione della lirica in volgare, con accompagnamento musicale, nel Nord Italia in un periodo ancora precedente, tra l’ultimo ventennio del XII secolo e il primo ventennio del XIII. Dante non è, dunque, l’iniziatore della scrittura letteraria in un volgare italiano. Però con Dante, e specificamente con la Divina Commedia, i volgari italiani fanno un enorme balzo in avanti: un volgare (nella fattispecie il volgare fiorentino) diventa una lingua capace di parlare di qualsiasi argomento, diventa una lingua enciclopedica, una lingua che può dire tutto. Il volgare cessa di essere solo una lingua da giullari o da poeti che affrontano, sia pure da diverse prospettive, un unico tema, l’amore; tratta di tutti i contenuti che facevano parte della cultura del tempo (filosofici, teologici, politici, psicologici), anche quelli che fino ad allora erano di esclusivo appannaggio del latino. Il volgare si rivela, così, una lingua dal lessico ricco e variegato, sia dal punto di vista semantico che da quello stilistico: per comporre il suo capolavoro (che ha un’estensione di 101.698 parole) Dante può far ricorso a un vocabolario di 12.831 parole diverse.
Ne consegue, inevitabilmente, un deciso incremento del lessico rimasto fino a noi. A questo punto si può riprendere un’osservazione fatta in apertura di questo intervento: gran parte del lessico di base presente nelle opere di Dante è il lessico di base dell’italiano d’oggi, pur con le modifiche semantiche, a volte anche profonde, che sono state operate nel corso dell’evoluzione della nostra lingua. Tullio De Mauro, nella postfazione al GRADIT (cioè al suo Grande dizionario italiano dell’uso, pubblicato dalla UTET), ricorda che all’inizio del Trecento, quando Dante si accinge a scrivere la Divina Commedia, il vocabolario fondamentale dell’italiano (cioè le 2000 parole oggi più frequentemente usate) era già costituito al 60%. Alla fine del Trecento, grazie anche all’opera di Dante, il vocabolario fondamentale aveva ormai raggiunto il 90% della sua attuale configurazione. Questa osservazione di De Mauro sostiene, con la forza dei numeri, l’osservazione di diversi studiosi di Dante, che, già alla fine dell’Ottocento, hanno definito il volgare al tempo di Dante come una “lingua bambina”, una lingua nascente, che con Dante è cresciuta e ha acquisito maturità e nobiltà.
L’osservazione di De Mauro può essere confermata da un altro punto di vista e ampliata. Numerose parole, in uso ancor oggi, di diverso livello linguistico, sono attestate, almeno allo stato attuale degli studi, per la prima volta proprio in Dante: pescando a mani basse in un insieme veramente ampio e differenziato, cito, quasi a caso, abbellimento, abituale, avvalorare, balbo, baratro, bava, caduco, cantilena, decenne, degenerazione, delinquere, gelido, idea, maculato, maltolto, medusa, mucchio, organo, paragrafo, pozza, ramarro, rombo, roteare, satira, sonnolento, stile, tafano, uniforme, valico. Sia chiaro: non sono parole create da Dante; sono parole che, prima di Dante, nessuno aveva usato in forma scritta in testi che siano giunti fino a noi.
Ma Dante ha anche creato parole che prima di lui nessuno aveva mai pensato di usare; tipici sono i verbi parasintetici che si trovano nella Divina Commedia (quasi tutti nel Paradiso): inverare, infuturarsi, intepidare, imborgarsi, imparadisare, incielare, impolare, inforsarsi, inmegliarsi, intuarsi, inmiarsi, intrearsi, incinquarsi, inmillarsi. La creatività dantesca si rivela non solo nell’abbondanza di questi neologismi d’autore, ma anche nel loro modello compositivo (i verbi parasintetici sono verbi creati con l’aggiunta simultanea a una radice di un prefisso e di un suffisso o una desinenza) e nella varietà delle basi usate, che sono nomi e aggettivi (vero, futuro, t(i)epido, borgo, paradiso, cielo, polo), avverbi (forse), comparativi (meglio), possessivi (tuo, mio), numerali (tre, cinque, mille).
“ Dante ha anche creato parole che prima di lui nessuno aveva mai pensato di usare; tipici sono i verbi parasintetici che si trovano nella Divina Commedia (quasi tutti nel Paradiso)
Vi è un ultimo aspetto, più marginale ma più popolare, per il quale possiamo sentirci figli di Dante: quello dell’inserimento di espressioni o motti danteschi nell’italiano comune, a riprova dell’ampia ricezione, almeno sotto forma di orecchiamento, del testo dantesco. Si va dalle citazioni di interi versi o loro parti che hanno assunto carattere proverbiale (“non ragioniam di loro, ma guarda e passa”, “fatti non foste a viver come bruti”), a modelli che vengono attualizzati con referenti sempre nuovi (per esempio ci si rifà spesso al modello “Galeotto fu il …” per indicare le condizioni propiziatorie di un evento: negli ultimi tempi ho incrociato più due volte l’espressione “galeotto fu il Covid-19”, per esempio nel racconto una storia d’amore iniziata da una cantata dal balcone nei giorni del lockdown o nella cronaca di un furto perpetrato da malviventi travisati con una mascherina chirurgica), a espressioni entrate a pieno titolo come espressioni idiomatiche nel nostro vocabolario: non mi tange, perdere il ben de l'intelletto, color che sono sospesi, dolenti note, il bel Paese, senza infamia e senza lode, far tremar le vene e i polsi, fino a cosa fatta capo ha che è una rielaborazione del dantesco “capo ha cosa fatta”.
Insomma, il lessico che usiamo oggi non è costituito solo dalle parole usate da Dante (il vocabolario della comunità linguistica italiana di oggi è ben più ampio di tutto il lessico dantesco), non include tutto il vocabolario di Dante (pensando anche solo ai neologismi danteschi, molti si essi sono rimasti hapax), ma contiene ancora, 700 anni dopo la sua morte, tanto vocabolario di Dante. È anche per questo che, nonostante i distinguo e le precisazioni che si devono fare, ha senso dare a Dante l’epiteto di padre della lingua italiana.