Negli ultimi tempi è aumentata la preoccupazione per la salvaguardia ambientale, anche da parte dei non addetti ai lavori. Fare la raccolta differenziata, sprecare meno acqua possibile, limitare l'uso di condizionatori ed elettrodomestici stanno diventando abitudini comuni, se non per la tutela del nostro pianeta almeno per una questione economica. Eppure ci sono azioni che compiamo ogni giorno che possono avere un importante impatto ambientale, per esempio inviare o ricevere email, scattare foto, girare video e magari a salvare questi file nel cloud.
Forse influenzati dal nome, percepiamo questo cloud come un'entità intangibile, ma non è così: i dati che riceviamo e inviamo occupano uno spazio fisico e dobbiamo cominciare a chiederci quale sia l'impatto ambientale di tutto ciò (ci sono stime che suggeriscono che nel 2025 l'8.5% delle emissioni di CO2 saranno imputabili al digitale, quando nel 2008 contavano solo per il 2%).
Anche Marco Bettiol e Eleonora Di Maria si sono posti questa domanda nello studio La sostenibilità del digitale: il ruolo dei data center che fa il punto sulle ricerche svolte grazie a una collaborazione tra Regione Veneto e Università di Padova (Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno”) presentato durante il ciclo di eventi Science4All e anche durante il workshop Transisizone energetica e sostenibilità delle infrastrutture digitali del Digital Meet.
Un punto è chiarissimo: anche sapendo che le nostre attività digitali possono impattare negativamente sulla salute dell'ambiente, nessuno pensa neanche lontanamente di proporre di tornare indietro. Una decrescita felice della tecnologia non è in discussione, anche perché la rivoluzione digitale permette anche di risparmiare le risorse riducendo gli sprechi, per esempio quando parliamo della quantità di energia utilizzata nei grandi processi industriali.
Come noi faremmo molta fatica ad abbandonare computer e smartphone se qualcuno ce lo chiedesse, anche le aziende non potrebbero mai tornare indietro (e nessuno si sogna di chiederglielo: il rapporto costi/benefici pende dalla parte dell'intelligenza artificiale). Di fatto però siamo di fronte a una medaglia a due facce: da una parte grazie alla tecnologia viene contenuto l'impatto ambientale, dall'altra si rischia di peggiorare la situazione.
Per comprendere meglio queste dinamiche, abbiamo intervistato Marco Bettiol, docente del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” nonché autore dello studio con Eleonora Di Maria.
Servizio e montaggio di Anna Cortelazzo
Ci sono quattro diverse voci che danno rischiano di mettere in crisi sostenibilità ambientale dei data center:
· La costruzione della struttura che andrà a ospitarli
· La produzione e il trasporto degli apparati tecnologici (pensiamo anche solo alle risorse minerarie necessarie)
· L'effettiva operatività di questi apparati, che hanno bisogno di energia per funzionare ma soprattutto per raffreddarsi
· Lo smaltimento dei materiali giunti alla fine del loro ciclo
Si sta facendo molto per ridurre le emissioni dei gas serra (per esempio le strutture vengono costruite preferibilmente in luoghi freddi, in modo da poter rendere meno dispendioso il raffreddamento degli apparati tecnologici che consuma circa un terzo dell'energia richiesta da un data center), anche perché il dispendio energetico rappresenta comunque un costo per le aziende. Meno rodate sono invece le iniziative volte allo smaltimento e all'eventuale riciclo dei materiali, ma si lavora anche in quella direzione, anche perché gli hard disk e il resto della tecnologia hanno vita breve: "In un periodo compreso tra i due e i 5 anni - spiega Bettiol - i data center rinnovano tutto il materiale al loro interno, per ragioni di sicurezza e anche di efficienza energetica, perché i materiali più recenti permettono un risparmio energetico più alto". Il che, naturalmente, è una buona notizia, ma al processo di rinnovo va affiancato quello dello smaltimento, e anche qui bisognerebbe diminuire l'impatto ambientale.
E, a proposito, come viene calcolato questo impatto? "Questa - dice Bettiol - è stata una vera sfida per la ricerca che abbiamo condotto con Valentina de Marchi e Linda Cerana: abbiamo dovuto applicare un modello di Life Cycle Assessment (LCA) a un Data Center ed è stato un processo molto lungo che ha richiesto molti mesi per poter calcolare effettivamente qual era l'impatto finale. Significa più o meno analizzare ogni componente del data center, dalla vite all'hard disk fino all'infrastruttura che lo ospita, per capire quale sia il suo impatto".
Si è trattato del primo caso italiano di analisi LCA con lo scopo di misurare i consumi energetici e le conseguenti emissioni di anidride carbonica del VSIX, il data center dell'Università di Padova, alimentato al 100% da energia verde. Per la rinnovata coscienza ambientale e anche per le pressioni della collettività, quasi tutte le aziende stanno cercando di rendersi indipendenti dalle energie non rinnovabili, ma non tutti i data center ci sono ancora riusciti.
Per quanto riguarda il VSIX, la maggior parte delle emissioni (il 61%) sono dovute alla sua realizzazione, mentre solo il 39% è determinato dal suo funzionamento. L'ulteriore analisi di questi dati darà preziose informazioni per costruire data center sempre più efficienti e verdi: si sta andando nella giusta direzione, ma c'è ancora molta strada da fare.
Nel frattempo, tutti noi potremmo riflettere sull'impatto ambientale che possono avere le nostre azioni quotidiane: a quante newsletter siamo iscritti? Leggiamo le mail che ci mandano? E una volta lette le cancelliamo? Considerando che per inviare una singola mail da un MB vengono emessi 19 grammi di CO2, è facile rendersi conto che, nel nostro piccolo, possiamo fare qualcosa per diminuire l'impatto ambientale dei data center.