SOCIETÀ

Un deficit di pace e democrazia dietro ai crudi numeri degli sfollati

Sfollati con la forza. Costretti ad abbandonare le loro case e spesso i loro paesi perché qualcuno, qualche esercito o qualche banda armata di criminali (e le definizioni a volte coincidono), ha deciso che lì quella gente non doveva più stare. Vittime civili di persecuzioni etniche e religiose, di conflitti armati, soggetti a violenze d’ogni genere (e soltanto un frammento di queste ne viene alla luce), al prezzo di intollerabili e sistematiche violazioni dei diritti umani. È questo il quadro della disperazione disegnato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), che ha stimato in circa 8,8 milioni le persone che nel 2023 sono state costrette a lasciare tutto quel che avevano, spesso poco o nulla, e a trasferirsi in un altrove stracolmo d’incognite, di pericoli, di stenti. Il che porta a oltre 117 milioni il numero complessivo degli sfollati nel mondo, compresi i richiedenti asilo, gli sfollati interni e gli apolidi: pari all’1,5% della popolazione mondiale, un numero che cresce implacabilmente da 12 anni a questa parte e che è raddoppiato negli ultimi dieci (e dalle stime di questi primi mesi del 2024 è stata già superata quota 120 milioni, quanto l’intera popolazione del Giappone). Circa un quinto degli attuali sfollati forzati si trova nei paesi più poveri del mondo, come il Sudan, dove imperversa una guerra troppo poco raccontata e dalle conseguenze devastanti, anche sotto il profilo umanitario; o come il Ciad, naturale “rifugio” per coloro che scappano proprio da quella guerra, dalla regione del Darfur verso il confine a ovest, ma che trovano accoglienza soltanto in campi profughi dove è quasi totale l’assenza di acqua e cibo, dove imperversano epidemie di colera, di febbre gialla, di meningite. E dove anche i residenti sono talmente poveri che spesso soffrono delle stesse necessità dei rifugiati, con drammatiche carenze idriche, alimentari, sanitarie, senza che sia possibile garantire un pur minimo programma d’istruzione ai più piccoli. Soltanto nella Striscia di Gaza, secondo quanto afferma il rapporto dell’UNHCR, sono state sfollate 1,7 milioni di persone (pari al 75% della popolazione complessiva) dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, nell’ottobre 2023. Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha commentato così la pubblicazione del report: «Dietro questi numeri, crudi e crescenti, si nascondono innumerevoli tragedie umane. Questa sofferenza deve pressare la comunità internazionale ad agire con urgenza per affrontare le cause profonde degli sfollamenti forzati».

Le “armi” spuntate della diplomazia

A spingere l’incremento di questi numeri c’è l’aumento inesorabile dei conflitti: da quelli “nuovi” (Sudan, Gaza) a quelli in corso da più di un anno (Ucraina, Etiopia, Nigeria, Congo), a quelli che si protraggono da così tanto tempo da meritarsi l’appellativo di “conflitti congelati” (Siria, Libia, Yemen, Myanmar, ma anche Kosovo e Transnistria) perché formalmente sono finiti, ma nei fatti non è stato mai firmato un trattato di pace, come mai si è arrivati a un accordo tra le parti. Secondo l’ultima edizione del Global Peace Index, il report che ogni anno viene redatto dall’Institute for Economics and Peace, sono attualmente in corso 56 conflitti armati attivi in tutto il mondo (e 92 paesi coinvolti al di fuori dei loro confini) il numero più alto mai raggiunto dalla fine della Seconda guerra mondiale. Sono invece 97 le nazioni che nel 2023 hanno peggiorato i loro livelli di pace: mai così tante dalla creazione dell’Indice, nel 2008. E la frequenza, la portata, la durata e l’intensità dei conflitti sono strettamente correlati al numero di persone costrette a fuggire ogni anno, sia all’interno dei confini del proprio paese, sia all’estero (un altro studio, l’Armed Conflict Survey, documenta che nel 2023 si sono combattuti 183 conflitti, considerando anche quelli regionali). Ma c’è anche, con ogni evidenza, un deficit di pace: una difficoltà oggettiva da parte degli organismi della comunità internazionale a contribuire alla “costruzione” degli accordi, a favorire una de-escalation, con una diplomazia che non riesce più ad avere una “voce” capace di sovrastare quella delle armi. Come se l’autorevolezza della diplomazia fosse evaporata, di fronte agli interessi più o meno nascosti delle singole parti. Al punto che ormai le risoluzioni dell’Onu vengono impunemente ignorate, così come le sentenze della Corte Penale Internazionale. «Stiamo assistendo a un numero sempre maggiore di conflitti che sempre meno vengono risolti perché i meccanismi che esistono per risolverli non funzionano», è il commento, amaro, di Raouf Mazou, assistente dell’Alto Commissario per le operazioni dell’UNHCR.

Il report del Global Peace Index offre anche un altro dato interessante: l’impatto economico della crescente violenza, tra spese militari, produzione e import-export di armamenti, è stato, nel 2023, superiore a 19 trilioni di dollari (vale a dire 19 miliardi di miliardi di dollari), pari al 13,5% del Pil globale del pianeta. Mentre invece le spese globali per la “costruzione e il mantenimento della pace” ammontano, per lo stesso periodo, ad “appena” 49 miliardi di dollari, pari allo 0,6% di quanto stanziato a livello mondiale per le spese militari. Una sproporzione che non è frutto del caso, ma di precise scelte politiche da parte dei governi dei vari paesi. Scelte che, secondo Michael Collins, direttore esecutivo dell’Institute for Economics and Peace, hanno anche importanti riflessi sulle singole economie: «A livello socioeconomico il mondo sta migliorando: le persone vivono più a lungo e meglio. Tuttavia, vediamo che l’esposizione ai conflitti rappresenta un rischio significativo per la catena di approvvigionamento dei governi e delle imprese. Quando si perdono vite umane a causa di un contesto di violenza o conflitto, si perdono quote di produttività. Allo stesso modo, più un paese è pacifico, meno risorse deve destinare al mantenimento della pace e più può investire in altri settori come l’istruzione o la salute». Prosegue Collins: «I paesi più pacifici spendono il 3% del proprio Pil per contenere la violenza, mentre i paesi più violenti spendono circa il 30%. Se questi ultimi riducessero la violenza, libererebbero quel bilancio, riuscendo a investire in altri settori. La guerra non porta affatto alla crescita economica. Ci sarà sempre bisogno di investire nella sicurezza, ma dedicarsi sempre di più alle tecnologie militari o di sicurezza significa che c’è più violenza da contenere, una mancanza di pace». Qui, per chi vuole approfondire, un recente articolo del Financial Times sulle aziende europee che più hanno guadagnato in questi ultimi anni di rinnovata “corsa agli armamenti”, con una spesa globale per la difesa che non si vedeva dai tempi della Guerra fredda, secondo la valutazione dell’International Institute for Strategic Studies.

Il ridimensionamento del World Food Program

La diminuzione degli investimenti sulla pace, e per la pace, ha peraltro ripercussioni assai gravi. L’esempio più eclatante è il taglio annunciato delle prestazioni offerte dal World Food Program, la più grande organizzazione umanitaria al mondo, sotto la gestione delle Nazioni Unite. L’allarme è stato lanciato lo scorso dicembre, ma nulla lascia intendere che un’inversione di tendenza sia all’orizzonte. «Il World Food Program sta affrontando un deficit di finanziamento pari al 60%», ha rivelato un portavoce dell’organizzazione a The New Humanitarian. «Il che vuol dire che saremo costretti a ridurre in maniera significativa delle dimensioni e della portata dei programmi di assistenza alimentare salvavita, in denaro e nutrizionale». I programmi in corso sono attualmente 86 (tutte situazioni di estrema emergenza), e le riduzioni riguardano già oggi quasi la metà di questi interventi: da Haiti all’Ecuador, dalla Tanzania al Congo, allo stesso Sudan, dalla Siria alla Palestina, all’Afghanistan. «A livello globale - scrive The New Humanitarian - più di 333 milioni di persone stanno affrontando una situazione di insicurezza alimentare acuta. I tagli alla programmazione del WFP potrebbero spingere 24 milioni di persone in più in questa categoria nel corso del 2024». E non è certo una novità: già lo scorso anno Carl Skau, vice direttore esecutivo del World Food Program, aveva parlato del “crollo delle donazioni” e di una “crisi di finanziamento paralizzante” che avrebbe costretto le Nazioni Unite a tagliare il cibo, i pagamenti in contanti e l’assistenza a milioni di persone in molti paesi, stremati non soltanto dalle guerre ma anche dal cambiamento climatico. «Siamo di fronte alla più grande crisi alimentare e nutrizionale della storia», aveva concluso Skau. E dopo un anno va sempre peggio, “disarmati” di fronte a un’emergenza senza precedenti, mentre i governi continuano a investire la grandissima parte delle loro risorse per incrementare e aggiornare i propri armamenti (tra sistemi anti-drone di nuova generazione, elettrificazione dei veicoli militari, sviluppo della robotica e investimenti nell’IA, come spiega Forbes). Le spese militari, in un anno, sono cresciute del 9%: e tutti gli indizi portano a pensare che la situazione sia destinata a peggiorare.

La crisi dimenticata del Sudan

Due parole infine sull’emergenza in Sudan, il terzo paese più grande del continente africano (dopo Algeria e Repubblica Democratica del Congo), da oltre un anno straziato da una feroce guerra civile e ormai sull’orlo di una carestia senza precedenti al punto che l’Onu continua a lanciare appelli per il cessate il fuoco, oltre a rimarcare, come ha fatto poche settimane fa il Segretario Generale António Guterres, «l’immensa sofferenza della popolazione sudanese a causa delle continue ostilità». Ci sono due parti in conflitto: le Forze armate sudanesi (SAF) e le Rapid Support Forces (RSF), che nell’ottobre del 2021 erano alleate quando hanno portato a termine un colpo di stato militare. Poi, si sa: il potere fa gola. E provoca sangue: nell’ultimo anno si calcolano almeno 16mila vittime oltre a un numero enorme di sfollati interni, più di 11 milioni. Una “guerra di ego”, com’è stata definita dall’inviato dell’Onu Martin Griffiths, tra due generali (Abdel Fattah Al-Burhan, dell’esercito sudanese, e Hamdane Dagalo, detto Hemedti, a capo delle RSF) disposti a tutto, perfino a sacrificare il destino del Sudan in nome della propria “ragione”. Entrambe le fazioni in guerra, peraltro, bloccano sistematicamente gli aiuti che potrebbero portare un minimo di sollievo ai civili. Una delle aree dove il conflitto è più intenso è oggi il Darfur, già teatro di un genocidio nel 2003, dov’è attualmente in corso un’operazione di “pulizia etnica” da parte delle milizie RSF ai danni della popolazione Massalit, come testimonia un recente rapporto dell’organizzazione umanitaria Human Rights Watch. La carestia in Sudan rischia di essere la più grave degli ultimi decenni: 18 milioni di persone nel paese (su 49 milioni di abitanti) soffrono la fame acuta, mentre 3,6 milioni di bambini sono gravemente malnutriti. E il sistema sanitario è al collasso, il che spalanca le porte alla diffusione delle malattie più letali: colera, morbillo, malaria, dengue.

L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, ha pubblicato lo scorso marzo un editoriale sul New York Times nel quale denunciava l’imminenza della “più grande crisi umanitaria sulla faccia del pianeta”, ma il suo appello è caduto nel vuoto. Mentre le due fazioni in guerra continuano a reperire senza alcuna difficoltà le armi per proseguire all’infinito la loro battaglia sulla pelle dei civili: le Forze armate sudanesi (SAF) da Russia e Iran; le Rapid Support Forces (RSF) dagli Emirati Arabi Uniti, formalmente alleati degli Stati Uniti. Gli aiuti non arrivano, le armi sì: c’è chi la chiama ipocrisia. Lo scorso marzo, a proposito dell’emergenza umanitaria a Gaza, il relatore speciale per le Nazioni Unite sul diritto all’alimentazione, Michael Fakhri, durante una sessione del Consiglio per i Diritti umani (UNHCR), aveva clamorosamente puntato il dito non soltanto contro Israele, accusato di aver montato una “campagna di fame” contro il popolo palestinese a Gaza, ma anche contro lo stesso organismo delle Nazioni Unite: «Le immagini della denutrizione a Gaza sono insopportabili e voi non state facendo nulla», aveva accusato Fakhri.«Parlate, parlate, dite belle parole. Ma come è possibile che il Consiglio non sappia affrontare la situazione? Non abbiamo mai visto bambini spinti in uno stato di malnutrizione così rapidamente. Vi prego: trasformate le vostre parole in azioni. Sappiamo tutti cosa servirebbe: accesso umanitario senza ostacoli e embargo delle armi. È il momento delle sanzioni: azioni reali, pressioni reali». Qualcosa è cambiato? Nulla. Il che diventa quasi una giustificazione alla disumanità dilagante. Qualcuno prima o poi, si spera, sarà chiamato a risponderne.

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