SOCIETÀ
Ecuador, tra criminalità e droga la difficile missione del suo neo presidente
Daniel Noboa, presidente dell'Ecuador. Foto: Reuters
La mission impossible del neo presidente dell’Ecuador, Daniel Noboa, è cominciata nel segno del pugno duro per tentare di contrastare l’enorme diffusione degli stupefacenti, non soltanto a livello di traffico, ma di consumo, spicciolo, in qualsiasi fascia d’età della popolazione: a meno di 48 ore dal suo insediamento ha cancellato, per decreto, la legge che consentiva a chiunque il possesso di droghe illegali, purché entro determinate quantità. Una norma, introdotta nel 2013 dall’ex presidente Rafael Correa che, nonostante l’opposizione dei conservatori e delle destre, puntava a distinguere tra trafficanti e semplici consumatori. Un principio che in realtà era già chiaramente enunciato nella Costituzione della Repubblica dell’Ecuador, che all’articolo 364 afferma che “le dipendenze sono un problema di salute pubblica”, mentre secondo l’articolo 220 del Codice Penale Organico Globale “il possesso o la detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope per uso o consumo personale nelle quantità stabilite dai regolamenti corrispondenti non è punibile”. La tabella del “lecito” era piuttosto generosa: era consentito detenere fino a 10 grammi di marijuana, non più di 2 grammi di pasta di cocaina, 1 grammo di cocaina, 0,10 grammi di eroina e 0,04 grammi di amfetamine. D’ora in avanti non sarà più così. Lo staff di Noboa ha diffuso una nota nella quale si sostiene che “le vecchie norme incoraggiavano il micro-traffico, diventando un elemento dannoso per la società ecuadoriana”. In sostanza, i trafficanti approfittavano delle maglie larghe della legge per vendere, con frequenti “rifornimenti”, piccole quantità di sostanze soprattutto all’interno delle scuole e nelle università, “creando un’intera generazione di minorenni dipendenti”. I ministeri dell’Interno e della Salute Pubblica sono stati inoltre incaricati di sviluppare “programmi coordinati di informazione, prevenzione e controllo sul consumo di sostanze stupefacenti e psicotrope” e di offrire cure e riabilitazione a “consumatori problematici abituali e occasionali”. «In questo modo – ha aggiunto Daniel Noboa - ci prendiamo cura del futuro delle famiglie ecuadoriane e proteggiamo i nostri bambini e adolescenti». Come, nella pratica, è ancora tutto da vedere: perché una nuova tabella, anche se più severa, dovrà comunque essere stilata, poiché resta la distinzione netta, come detta la Costituzione, tra traffico e consumo personale.
Controlli di polizia in Ecuador. Foto: Reuters
Una nazione in balìa del crimine e della violenza
Il problema è che il problema è assai più grande. Che l’Ecuador, un tempo tra i paesi più pacifici dell’America Latina, è scosso da anni da un’inarrestabile ondata di violenza, che i morti ammazzati soltanto lo scorso anno sono stati almeno 4.500, che le bande di trafficanti sono arrivate a reclutare bambini, che le carceri si sono ormai trasformate in “centri di comando” di potenti trafficanti, che le forze di polizia non sono più in grado di garantire l’ordine (o magari non vogliono), che la criminalità organizzata ha nel frattempo stretto accordi con i più potenti cartelli internazionali, da quelli messicani a quelli albanesi. Perché di droga, da quelle parti, ne gira a tonnellate: di produzione propria o più spesso dei vicini Colombia e Perù, tra i principali produttori di cocaina al mondo (il Rapporto globale sulla cocaina 2023, redatto dalle Nazioni Unite, sostiene che la coltivazione di coca tra il 2020 e il 2021 è aumentata del 35%). Come scriveva il New York Times, in un reportage pubblicato appena alcuni mesi fa: «La violenza legata alla droga in Ecuador ha iniziato ad aumentare intorno al 2018, quando i gruppi criminali locali si sono scontrati per conquistare posizioni migliori sul mercato. Inizialmente la violenza era principalmente confinata alle carceri, dove la popolazione era aumentata a seguito dell’inasprimento delle pene legate alla droga e del conseguente incremento della detenzione preventiva. Ma pian piano il governo ha perso il controllo del suo sistema carcerario, con i prigionieri che costringevano altri prigionieri a pagare per i letti, i servizi e la sicurezza, e persino ad avere le chiavi dei propri blocchi carcerari. Così ben presto le prigioni sono diventate basi operative per il traffico di droga». Poche ore fa c’è stata l’ennesima dimostrazione concreta dello strapotere dei boss del narcotraffico: Jaime Santacruz, alias “Mito”, leader della banda Los Lobos (i lupi), il più potente cartello dell’Ecuador, alleato con i messicani di Jalisco New Generation, è stato arrestato dalla polizia durante un controllo nella città portuale di Puerto Bolívar (e uomini della sua scorta hanno sparato contro gli agenti, ferendone uno). Ma il suo fermo è durato appena 12 ore: il boss, che era armato e in possesso di 15mila dollari in contanti, ha raccontato di essere un “allevatore di gamberetti” e il magistrato di turno ha disposto il suo immediato rilascio per “mancanza di prove sufficienti”.
Dunque uno stato nello stato. Un tumore che mangia da dentro le istituzioni democratiche. Lo scorso giugno il World Politics Review, autorevole forum online di analisti di relazioni internazionali, descriveva così la situazione nello stato sudamericano: «Nelle città portuali di Guayaquil ed Esmeraldas, dove la violenza è più intensa, massacri, omicidi mirati di poliziotti e funzionari pubblici e autobombe sono diventati eventi settimanali. In alcune parti di Quito, la capitale, i negozi ora chiudono presto e la polizia smette di pattugliare di notte. In tutto il paese, le reti di estorsione stanno strangolando aziende grandi e piccole, anche nelle remote isole Galapagos. Per molti ecuadoriani abituati da tempo a una relativa sicurezza rispetto agli stati vicini, l’ondata di criminalità ha sconvolto la vita. Per decenni l’Ecuador è stato uno dei paesi meno violenti dell’America Latina. Ora ha il quarto più alto tasso di omicidi della regione, superiore persino al Messico. Sono finiti i giorni in cui l'Ecuador era conosciuto come “l’isola della pace” a causa della sua posizione tra il Perù e la Colombia, storicamente dilaniati dalla guerra. Ora, il paese assomiglia sempre di più ai suoi vicini nel loro momento più violento, solo con uno stato molto più debole che porta sempre più i segni distintivi della cooptazione criminale». E quando si parla di crimine s’intende non soltanto la produzione e lo smercio di droga (dalla cocaina al famigerato fentanyl, l’oppioide sintetico che sta facendo stragi, soprattutto negli Stati Uniti), ma anche il riciclaggio di denaro, attività sempre più diffusa e ramificata.
Tutti gli errori dei presidenti
È questa la missione (impossibile? disperata?) che si trova ad affrontare Daniel Noboa, 35 anni, il più giovane presidente mai eletto in questo angolo di Sud America incastonato tra Colombia e Perù, leader mondiale nell’esportazione di banane, dove la politica è progressivamente scivolata in una crisi sempre più profonda proprio per aver mostrato la sua completa incapacità nell’arginare le violenze, nel garantire la sicurezza, nel porre rimedio alla sempre più diffusa povertà. Qualcosa di buono l’ex presidente Rafael Correa, populista di sinistra, l’aveva anche fatto: durante il suo mandato (dal 2007 al 2017) il tasso di omicidi era drasticamente calato, ed era diminuita la povertà (aveva tra l’altro consentito alle bande criminali di trasformarsi in associazioni culturali a patto che abbandonassero qualsiasi attività illecita). Ma ha sottovalutato i pericoli del narcotraffico, di fatto interrompendo la collaborazione con gli Stati Uniti e con la DEA (Drug Enforcement Agency) e lasciando priva di qualsiasi sorveglianza l’enorme zona marittima di competenza. Errore fatale: l’Ecuador si è rapidamente trasformato nella “rotta” preferita dai narcotrafficanti colombiani e peruviani per far arrivare la droga in nord America. Correa aveva inoltre deciso di cedere ai privati il controllo dei principali porti sulla costa del Pacifico, compreso quello di Guayaquil, che oggi è considerato uno degli snodi fondamentali del traffico internazionale di cocaina. Il suo successore alla presidenza, Lenin Moreno (2017-2021), ha sì riportato l’Ecuador nell’orbita degli Stati Uniti, ma indebolendo al tempo stesso le istituzioni interne, concentrandosi sull’epurazione sistematica dei fedelissimi di Correa (di cui peraltro era stato vicepresidente) e sostituendo perciò il ministero della Giustizia con un’agenzia ad hoc, che però ha perso rapidamente il controllo delle prigioni: dal febbraio 2021 ai primi mesi del 2023 all’interno delle carceri ecuadoriane ci sono stati oltre 400 omicidi.
E lì dentro, nei penitenziari, ormai arrivano armi d’ogni genere, droga, denaro. E nulla accade che non vogliano i boss. Il pane quotidiano è la corruzione. Poi la recessione economica, l’austerity con i tagli alla spesa sociale e le difficoltà dovute alla pandemia hanno ulteriormente “indebolito” gli ecuadoriani, che a più riprese sono scesi in piazza per protestare, anche contro l’ultimo presidente, Guillermo Lasso, un conservatore di destra, eletto grazie a un voto “di protesta” che non ha sortito gli effetti sperati. Secondo un dettagliatissimo rapporto pubblicato dalla piattaforma giornalistica ecuadoriana La Posta, basato su documenti segreti dell’intelligence, titolato “El Gran Padrino”, la mafia albanese avrebbe stretto accordi con diversi alti funzionari del governo, appartenenti alla cerchia più vicina al presidente Lasso, compresi generali di polizia. All’inizio di quest’anno Lasso è stato accusato di appropriazione indebita (presunti affari privati con società petrolifere: lui nega qualsiasi responsabilità), e per evitare una procedura d’impeachment si è dimesso, sciogliendo l’Assemblea Nazionale e indicendo nuove elezioni. Una campagna elettorale sconvolta dalle violenze: al punto che dieci giorni prima delle elezioni uno dei candidati, Fernando Villavicencio, 59 anni, giornalista, è stato assassinato a colpi di pistola appena terminato un suo comizio elettorale a Quito. Sosteneva che l’Ecuador era diventato un “narco-stato”, proponendo di ripristinare la sicurezza rafforzando le forze armate e schierando la polizia nelle strade, intraprendendo contemporaneamente una lotta contro quella che definiva “la mafia politica”. «Oggi l’Ecuador è occupato da Jalisco New Generation, dal cartello di Sinaloa e anche dalla mafia albanese. È chiaro che ovunque in America Latina, come in Colombia e in Messico, il traffico di droga non può stabilirsi in una società e soggiogarla senza la collusione e la connivenza del potere politico», aveva dichiarato Villavicencio pochi mesi prima. Quel politico, evidentemente, era considerato troppo pericoloso: perciò l’hanno eliminato.
La scommessa del miliardario
Così alle elezioni, lo scorso ottobre, a prevalere è stato Daniel Noboa, giovane rampollo di una ricchissima e influente famiglia che ha fatto fortuna con il commercio delle banane (ma c’è chi avanza sospetti di collusione, più o meno intenzionale, tra commercianti di banane e trafficanti di cocaina), leader di una formazione di centro (Acción Democrática Nacional) che al ballottaggio ha sopravanzato la candidata di sinistra Luisa Gonzalez. Sulla possibilità che la sua presidenza possa portare a qualche risultato lo scetticismo è grande, anche perché l’incarico avrà durata brevissima, appena diciotto mesi: in quanto “subentrante” per dimissioni del precedente presidente, il suo mandato scadrà nella primavera del 2025, quando si tornerà al voto. Noboa ha già presentato alcune proposte: creare una nuova unità di intelligence per la lotta al crimine, maggiori finanziamenti alla polizia, utilizzo di droni e localizzatori satellitari per frenare il traffico di droga, impiego dell’esercito per sorvegliare i porti utilizzati dai trafficanti, e le prigioni, che sono ormai sotto il controllo di bande criminali. I detenuti più violenti potrebbero essere spostati a bordo di navi-prigione, carceri allestite su chiatte posizionate al largo, nell’oceano, impedendo così loro di avere contatti con l’esterno (ma la sorveglianza e la logistica sarebbero problemi di non poco conto). Inoltre Noboa prevede di aumentare l’assistenza sociale agli strati più poveri della popolazione, anche se non è ancora chiaro come e dove troverà le risorse per finanziare le riforme. Basterà tutto questo per riportare stabilità in Ecuador? «Improbabile: l’Ecuador è stato e continuerà ad essere destabilizzato dall’ascesa di potenti gruppi criminali organizzati, stranieri e nazionali», risponde Will Freeman, del Council on Foreign Relations. Anche perché il partito di Noboa ha conquistato appena 14 seggi sui 137 dell’Assemblea Nazionale. Ha dunque e comunque un disperato bisogno di alleati: tutto sta a capire chi sceglierà.