Il presidente egiziano al-Sisi, foto Reuters
Il capo d’imputazione è netto: “calunnia e diffamazione di membri del Nation’s Future Party”, partito di maggioranza che sostiene il presidente egiziano Abdul Fattah al-Sisi. Sul banco degli imputati siedono in tre: Rana Mamdouh, Sara Seif Eddin e Beesan Kassab. Tre giovani donne, tre giornaliste di Mada Masr, l’unica agenzia di stampa rimasta indipendente in Egitto, tra i più importanti organi di stampa on line in tutto il Medio Oriente, noto soprattutto per i suoi reportage investigativi. C’era la loro firma il 31 agosto scorso in testa all’articolo che, sulla base di quattro diverse fonti interne allo stesso Nation’s Future Party, svelava episodi di “cattiva condotta finanziaria” tra i principali membri del partito. Uno scandalo che riguardava soprattutto figure “senior” del Nation’s Future Party. In sostanza, casi di corruzione, di abuso di potere, di arricchimenti illeciti. «Sta per arrivare uno scossone», avevano anticipato le fonti: «i principali leader saranno epurati». E tra i “pezzi grossi” il primo a cadere sarebbe stato Ashraf Rashad, segretario generale del partito e primo vicepresidente.
Lo scossone è poi arrivato davvero, ma nella redazione del giornale: centinaia di denunce a carico delle tre giornaliste sono state presentate contemporaneamente in diverse stazioni di polizia del paese da altrettanti esponenti del Partito, nonostante Mada Masr avesse correttamente pubblicato, l’indomani, la smentita formale di qualsiasi coinvolgimento da parte del Nation’s Future Party. Denunce fotocopia: stessi termini, stessa costruzione. Uno schema. Il 7 settembre i pubblici ministeri del Cairo hanno convocato le tre giornaliste, più una quarta, Lina Attalah, caporedattore di Mada Masr, per interrogarle sull’accaduto. Volevano “le prove”. In assenza delle quali, e dopo una serie di interrogatori individuali e collettivi, hanno disposto l’arresto per le giornaliste. Per aver “violato la sacralità della vita privata”, per aver violato la legge egiziana sulla criminalità informatica (che risale al 2018), per aver pubblicato “notizie false con l’intenzione di disturbare la quiete pubblica e danneggiare l’interesse pubblico”, causando “calunnia e diffamazione dei membri del Nation’s Future Party”. Lina Attalah è stata anche accusata di aver fondato un sito web senza licenza. Le giornaliste sono state subito rilasciate su cauzione. Martedì scorso, al Cairo, è cominciato il processo a loro carico. Rischiano una condanna a due anni di carcere.
Eliminazione sistematica dei dissidenti
Le giornaliste sono cadute in una trappola? Probabile, ma non dimostrabile. Nation’s Future è il partito politico più influente in Egitto: detiene la maggioranza in entrambe le Camere del Parlamento egiziano, ed è stato fondato al solo scopo di sostenere le politiche del presidente egiziano, il generale Abdel-Fatah al-Sisi, salito al potere dopo aver guidato la rivolta popolare-militare, sull’onda delle primavere arabe, contro il governo del presidente islamista Mohammed Morsi, “rimosso” dall’incarico il 3 luglio del 2013. Tecnicamente, un colpo di stato. Nelle elezioni del 2014 al-Sisi ottenne il 97% delle preferenze. Tutto bene? Non proprio: sotto la sua presidenza si sono moltiplicate le segnalazioni di clamorose violazioni dei diritti umani. Già nel 2018 le Nazioni Unite, il Dipartimento di Stato americano e moltissime ong denunciavano l’uso indiscriminato della detenzione illegale degli oppositori politici, della tortura, degli omicidi. L’Italia ne sa qualcosa, con la sconvolgente e ancora aperta vicenda di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato, torturato e infine assassinato nel 2016 dai servizi segreti egiziani. Mentre è stata rinviata a maggio la prossima udienza del processo contro un altro ricercatore, Patrick Zaki, attivista egiziano per i diritti umani che stava frequentando un master all’Università di Bologna nel 2020, quando fu arrestato al suo rientro al Cairo per una visita familiare.
Scriveva Amnesty International nel report dello scorso anno: «I diritti alla libertà di espressione e di associazione in Egitto sono stati duramente repressi. Le autorità hanno preso di mira difensori dei diritti umani, politici dell’opposizione e altri attivisti attraverso convocazioni illegali, interrogatori coercitivi, misure extragiudiziali di libertà vigilata, indagini penali, procedimenti giudiziari iniqui e inclusione in una “lista di terroristi”. Migliaia di persone, tra cui difensori dei diritti umani, giornalisti, studenti, politici dell’opposizione, imprenditori e manifestanti pacifici, sono rimaste arbitrariamente detenute. Decine di persone sono state condannate dopo processi gravemente iniqui. Le sparizioni forzate e le torture continuano senza sosta». Human Rights Watch ha denunciato l’intollerabile aumento degli abusi da parte della polizia e delle forze di sicurezza. Anche la Casa Bianca, sotto l’amministrazione Biden, ha più volte richiamato pubblicamente il governo egiziano per la situazione dei diritti umani. Mentre il suo predecessore, Donald Trump, era arrivato a definire al-Sisi “il mio dittatore preferito”. L’Egitto ha sempre difeso le sue azioni, sostenendo di “combattere gli estremisti”. È di pochi giorni fa la notizia della condanna all’ergastolo per 17 attivisti per i diritti umani che facevano parte del Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà. «Le prove erano talmente esigue che l’unica conclusione possibile doveva essere l’assoluzione», hanno commentato gli avvocati del team di difesa degli imputati. Per loro e per altre 14 persone, condannate a pene tra i 5 e i 15 anni di carcere, l’accusa è di “aver aderito e finanziato un gruppo terroristico”, vale a dire la “Fratellanza Musulmana”, organizzazione di ispirazione islamista dalla quale proveniva l’ex presidente Morsi, definita “terroristica” dal 2013, dopo la sua deposizione. Le sentenze sono definitive e non possono essere appellate.
All’interno di questa cornice è evidente che anche la stampa non se la passi affatto bene. Senza usare troppi giri di parole, Reporters Sans Frontières ha definito l’Egitto “una delle più grandi prigioni al mondo per i giornalisti”, classificando il paese al 168° posto su 180 in termini di libertà di stampa, nel 2022. «Il pluralismo dell’informazione è sostanzialmente inesistente in Egitto», scrive RSF. «I principali giornali nazionali, Al-Akhbar, Al-Ahram e Al-Gomhuriya, sono di proprietà statale. I media indipendenti sono censurati e presi di mira dai pubblici ministeri. Per quanto riguarda la televisione e la radio, la loro popolarità li ha costretti a servire come altoparlanti per la propaganda politica». Jonathan Dagher, responsabile per il Medio Oriente di Reporters Sans Frontières, scende nel caso specifico delle giornaliste a processo: «Il governo di al-Sisi non ha risparmiato sforzi per mettere a tacere Mada Masr. In primo luogo i giornalisti non avrebbero mai dovuto essere interrogati, non avrebbero mai dovuto essere arrestati, e sicuramente non dovrebbero essere accusati per aver fatto il loro lavoro». Sulla stessa linea, essendo peraltro parte in causa, Lina Attalah, caporedattore di Mada Masr: «È una vergogna che i giornalisti che fanno il loro lavoro in modo professionale debbano affrontare denunce che potrebbero minacciare la loro libertà. Ciò che davvero potrebbe minare la stabilità interna è forzare la punizione legale di qualsiasi lavoro di critica basato su informazioni chiare e basate sui fatti».
L’Egitto è a un passo dal default
Ma al di là dei principi, ora l’urgenza delle giornaliste è affrontare il processo. «Non sappiamo davvero cosa aspettarci», ha commentato ancora Lina Attalah. «Siamo sereni, ma ovviamente preoccupati. Come giornalisti, non ci piace essere noi stessi la storia. E anche prima che ci sia qualsiasi tipo di verdetto, non importa quanto severo, questo ci sta allontanando dal nostro lavoro in redazione». E non è la prima volta che l’agenzia Mada Masr deve affrontare le “carezze” del regime egiziano. Era il novembre 2019 quando agenti in borghese fecero irruzione nella redazione del giornale impedendo per diverse ore ai presenti di comunicare con l’esterno, sequestrando loro tablet e cellulari, con tre giornalisti (tra i quali Lina Attalah) ammanettati e portati via, per essere successivamente rilasciati. Il 20 settembre di quell’anno erano scoppiate massicce proteste antigovernative, con oltre 4.000 persone finite in carcere nel giro di poche settimane. Nel maggio del 2020 Attalah era stata nuovamente arrestata mentre intervistava la famiglia di un prigioniero politico, all’esterno del carcere di Tora, a sud del Cairo (e sono innumerevoli le denunce di torture e abusi all’interno delle carceri egiziane). Il pubblico ministero l’aveva poi rilasciata la sera stessa.
Ma più si guarda nel suo complesso, più la situazione dell’Egitto appare drammatica. L’economia è vicina al collasso, con la sterlina egiziana che in un anno ha perso oltre il 50% del suo valore (e nulla lascia presagire un’inversione di rotta a breve termine) e un’inflazione che ormai vola ben oltre il 25% su base annua. In sintesi: il default potrebbe essere dietro l’angolo. E la tensione sociale è alle stelle, con una “classe media” spazzata via dalla crisi globale, con oltre cento milioni di egiziani che stentano ad arrivare alla fine del mese. Anche il Fondo Monetario Internazionale, che lo scorso dicembre ha concesso al paese un ulteriore prestito di 3 miliardi di dollari, ha espresso le sue perplessità, in una relazione pubblicata a gennaio: «L’incertezza globale getta una lunga ombra sulla ripresa dell’Egitto e rimane la necessità di lunga data di portare avanti profonde riforme strutturali per stimolare una crescita sostenibile, inclusiva e fonte di occupazione». Nonostante la situazione oggettivamente complessa, il governo di al-Sisi non sembra traballare, forte anche del sostegno degli Stati Uniti e dei paesi arabi del Golfo che hanno tutto l’interesse ad allontanare lo spettro di una crisi politica che, oggi, potrebbe avere conseguenze imprevedibili nella regione.
L’Egitto, che lo scorso novembre ha anche ospitato la Cop 27 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), resta comunque la più grande economia nordafricana e continua a difendere il suo ruolo centrale nella produzione e nella distribuzione di gas naturale. Anche se qualche segno d’impazienza comincia a filtrare. Nell’incontro annuale del World Economic Forum, a Davos, lo scorso gennaio, il ministro delle finanze dell’Arabia Saudita Mohamed al Jadaan ha annunciato che il suo paese non è più disposto a concedere “assegni in bianco”. «Stiamo tassando la nostra gente, ci aspettiamo che anche gli altri facciano lo stesso, che facciano i loro sforzi. Vogliamo aiutare, ma vogliamo che anche voi facciate la vostra parte», ha dichiarato. Non che si chiuderanno i rubinetti, soprattutto per gli alleati storici, ma si punterà sempre più sugli investimenti e non sugli aiuti diretti. L’anno scorso l’Arabia Saudita ha firmato accordi per 7,7 miliardi di dollari con l'Egitto, anche per partecipare alla costruzione di una centrale elettrica.