SCIENZA E RICERCA

Epa: la scienza rischia l'esclusione dalle politiche decisionali americane

Gennaio 2020 è ormai alle porte ed è la data in cui l'Epa, l’agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati uniti, prevede di pubblicare le nuove regole sulla trasparenza delle ricerche scientifiche e i criteri in base ai quali si decideranno quali studi saranno presi in considerazione nella predisposizione delle politiche decisionali sulla salute umana e sull'ambiente e quali, invece, saranno ignorati. 

Nella comunità scientifica l'allarme è elevato perché l'elemento chiave grazie al quale i ricercatori riescono a ottenere molte tipologie di informazioni dalle persone che accettano di partecipare ad una ricerca è la garanzia della riservatezza. Come abbiamo illustrato in un precedente articolo, la questione ruota intorno ai "raw data" - cioè i dati grezzi, non elaborati - di cui, ad esempio, fanno parte anche informazioni mediche raccolte con l'impegno di mantenere l'anonimato. Dati che adesso l'Epa, dopo aver predisposto un supplemento al documento intitolato Strengthening Transparency in Regulatory Science e proposto nell'aprile del 2018, vuole che vengano resi pubblici così da permettere, sostiene l'agenzia, di validare in modo indipendente i risultati di uno studio. 

Nei giorni scorsi posizioni molto preoccupate erano emerse all'interno dell'Union of Concerned Scientists e adesso anche la rivista Science è tornata ad occuparsi del tema attraverso l'editoriale contenuto nel numero uscito il 6 dicembre. 

La firma è di Marie Lynn Miranda, professoressa di statistica della Rice University di Houston, in Texas, e direttrice del Children's Environmental Health Initiative nello stesso ateneo. "L'Epa - scrive la docente - il prossimo anno potrebbe rompere il patto fondamentale della riservatezza e questo potrebbe portare l'agenzia ad andare in contrasto con la sua stessa missione di proteggere la salute umana e l'ambiente". 

Marie Lynn Miranda non nega che l'idea di depositare i dati e i modelli della ricerca finanziata dal governo federale sia "lodevole" ma spiega che la regola, per come è stata articolata, pone dei problemi sostanziali e lo conferma il fatto che la maggioranza dei circa 600 mila commenti pubblici alla proposta del 2018 abbia espresso opinioni critiche. L'editoriale di Science prosegue puntualizzando che: "Negli studi epidemiologici e clinici i partecipanti forniscono informazioni - come la loro storia medica, i comportamenti, i titoli di studio, il tipo di lavoro e altri dettagli personali - a condizione che questi dati non siano condivisi e che la loro privacy sia protetta. Rendere anonime le informazioni è già difficile, se non impossibile. Con i dati geograficamente referenziati un programmatore abile può sfruttare le frontiere del machine learning e la forza computazionale per determinare l'ubicazione e, conseguentemente l'identità, di un partecipante allo studio. E, allo stesso modo, i software di riconoscimento facciale sono stati applicati alle immagini ricostruite a partire dalle scansioni del cranio". 

Le conseguenze della perdita dell'anonimato possono essere gravi. "Per i partecipanti ad uno studio - scrive Marie Lynn Miranda - l'identificazione può mettere a rischio il lavoro, le assicurazioni e le relazioni personali, mentre tra i ricercatori ci possono essere ripercussioni per quanto riguarda le borse di studio, la reputazione o l'ottenimento dei fondi". Inoltre, a queste condizioni, sarebbe molto più difficile trovare persone disposte a partecipare ad una ricerca, soprattutto tra le popolazioni svantaggiate che negli studi sono spesso sottorappresentate. 

Ma la rinuncia all'anonimato dei dati favorirà davvero la scienza, come sostenuto dall'Epa? Marie Lynn Miranda ipotizza di no, perché ritiene che a seconda degli interessi in gioco verrà finanziato un lavoro già inclinato verso un risultato particolare: un esempio è quello degli avvocati difensori dell'industria del piombo che hanno attribuito deficit neurologici dei bambini alla negligenza dei padroni di casa o agli errori dei genitori. Il rischio, secondo la docente della Rice University, è che il "peso delle prove" finisca per essere disgregato e che questo porti a contravvenire alla regola stessa della direttiva dell'Epa, contenuta nel Clean Air Act, che mira a stabilire standard "necessari per proteggere la salute pubblica" con "un adeguato margine di sicurezza".

E, aggiungiamo noi, considerata la posizione del presidente americano Donald Trump, che ha mostrato in modo chiaro tutta la sua contrarietà ad ogni misura a tutela dell'ambiente, non è difficile intravedere nella proposta dell'Epa i segni di un condizionamento politico. 

Molti ricercatori - precisa poi Marie Lynn Miranda - depositano già i dati in sistemi informativi aperti. I National Institutes of Health americani e altre agenzie di finanziamento federali richiedono piani di condivisione dei dati per supportare nuove analisi indipendenti all'interno della comunità scientifica, senza compromettere la riservatezza. E la revisione dei pari fornisce un ulteriore controllo sulla credibilità dei risultati della ricerca. "Un modello eccellente nella valutazione della validità della ricerca, senza compromettere la riservatezza o escludere studi - esemplifica la docente - è stato il lavoro dello Health Effects Institute, in cui una partnership finanziata dal governo dell'industria ha rianalizzato i dati dello studio Harvard Six Cities e dell'American Cancer Society Study sul legame tra inquinamento del particolato e mortalità. 

"La proposta dell'Epa - conclude Marie Lynn Miranda nell'editoriale di Science - non assicura il rigore nella ricerca e non migliora la trasparenza. Anzi, esclude senza dubbio la scienza dal processo decisionale". Quando a gennaio 2020 il supplemento sarà pubblicato, ricorda la docente, ci sarà un periodo aperto ai commenti del pubblico e sarà "un'opportunità per tutti di ricordare all'Epa che il suo obbligo è utilizzare la migliore scienza per proteggere la salute umana e l'ambiente". 

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