137 casi, poi 157, infine 212: come spesso accade in una situazione di emergenza esce il meglio ed il peggio, vale per le persone e vale anche per la stampa. L’effetto coronavirus si è fatto sentire anche nei media italiani che, in una situazione mediatica in cui la tempestività sembra prevalere sulla correttezza informativa, hanno iniziato a dare i numeri.
Sicuramente un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo in questi giorni implica una costante attenzione ma il giornalismo dovrebbe essere veicolo di chiarezza ed informazioni certe.
Le informazioni certe ci sono, come ci sono le fonti certe. Sicuramente spesso queste fonti certe non sono aggiornate costantemente minuto dopo minuto, ma forse è proprio questo il punto principale per arginare quella che è stata l’infodemia.
Siamo sicuri sia necessario aggiornare istantaneamente il numero di contagi rischiando di sbagliare piuttosto che aspettare delle comunicazioni ufficiali da parte della protezione civile? Cosa guadagna una testata giornalistica a seguire eventuali voci prive di conferma? È veramente necessario pubblicare ipotetiche indiscrezioni invece di aspettare? Rallentare un po' tutto questo flusso informativo ed attendere conferme da fonti ufficiali forse farebbe ragionare di più ed evitare futili allarmismi.
Ci sono poi delle regole non scritte che consigliano, a chi di lavoro comunica, come farlo in situazioni emergenziali. In questi casi il giornalismo, come dichiarato da Bill Hanage e Marc Lipsitch su Scientific American, dovrebbe "distinguere almeno tre livelli di informazione:
(A) ciò che sappiamo essere vero; (B) ciò che pensiamo sia vero: l’insieme delle valutazioni basate su fatti che dipendono anche dall'inferenza, dall'estrapolazione o da un'interpretazione competente di fatti che riflettono il punto di vista di un individuo su ciò che è più probabile che stia accadendo; e (C) opinioni e speculazioni".
In questi giorni sono stati numerosi i casi di mala informazione: dagli otto cinesi considerati "pazienti 0" di Vò all'ormai smentito "paziente zero" amico del 38enne di Codogno, primo positivo italiano al nuovo coronavirus. Tutto ciò senza considerare i titoli consapevolmente allarmisti come: "Siamo in guerra", "Vade retro virus", "Prove tecniche di strage", "Contagi e morte, il morbo è tra noi".
Nel momento in cui scriviamo (lunedì 24 febbraio alle ore 12:00) in tutto il mondo i casi confermati di nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) sono stati 79.339. Secondo i dati rilasciati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il contagio ha provocato 2.619 morti.
Dove sono avvenuti i contagi
La Cina è il luogo in cui si è sviluppato inizialmente il nuovo coronavirus e, ad oggi, ha più del 97% delle persone contagiate, precisamente 77.262. Il secondo Paese per numero di contagi è la Corea del sud con 763 persone, la maggior parte delle quali a Daegu, una città di 2 milioni e mezzo di abitanti. Al terzo posto troviamo il Giappone con 144 contagi, mentre l'Iran presenterebbe ufficialmente 43 casi di contagio ma, in questo caso, le informazioni che provengono dal Paese sembrano sottostimare il dato.
Contagi in Italia
Dati più aggiornati ed ufficiali poi, per quanto riguarda l’Italia, arrivano due volte al giorno, alle ore 12 ed alle ore 18. E' il Capo della Protezione Civile Angelo Borrelli a rilasciarli. Nella conferenza stampa di lunedì 24 febbraio alle ore 12 ha dichiarato che il nostro Paese presenta 219 contagiati in totale, di cui 5 persone decedute e 1 guarito. Le persone ricoverate sono 99, di cui 23 ora sono in terapia intensiva. Le persone decedute presentavano già altre patologie, l’ultima delle quali un uomo di 88 anni.
Numeri importanti che fanno anche capire come circa un 40% di chi risulta positivo al test non abbia poi necessità di ricovero ospedaliero.
LEGGI IL BOLLETTINO DEL MINISTERO DELLA SALUTE
Contagi in UE
Parlando dei Paesi a noi vicini invece, i dati OMS parlano di due casi in Spagna, 12 in Francia, 16 in Germania, uno in Belgio, 13 nel Regno Unito, uno in Finlandia ed uno in Svezia. Come possiamo notare quindi, i numeri sono di molto inferiori a quelli italiani. Questo però non deve preoccupare: a spiegarlo è la virologa Ilaria Capua ai nostri microfoni. Probabilmente, scrive Capua, presto anche altri Paesi europei si troveranno a fronteggiare situazioni simili alla nostra perché “forse, molto banalmente, abbiamo diagnosticato di più e prima”.