I pipistrelli giovani sono i preferiti dai virus: come prevenire nuove pandemie

I pipistrelli (chirotteri) sono il secondo ordine di mammiferi più ricco di specie al mondo dopo i roditori: oltre 1.400 specie distribuite in quasi tutti i continenti tranne l’Antartide. Vivono in colonie affollatissime, a volte di migliaia di individui, e hanno sempre affascinato l’essere umano (soprattutto all’approssimarsi di Halloween), che li ha inseriti con successo anche in letteratura legandoli ai vampiri. In effetti hanno qualcosa di magnetico: volano di notte, vivono appesi a testa in giù, comunicano con ultrasuoni che noi non sentiamo e… custodiscono dentro di sé moltissimi virus.
Se per un letterato questo può essere meno interessante, per i virologi è invece un fenomeno da osservare con attenzione: una delle particolarità di questi animali è che hanno un sistema immunitario che permette loro di convivere con virus di vario tipo senza ammalarsi, e infatti sono considerati uno dei serbatoi naturali più importanti per i patogeni capaci di fare spillover, quel salto di specie che può portare un virus dall’animale all’essere umano, come nel caso di Sars nel 2003, Mers nel 2012 e, come sappiamo, Covid nel 2019. Quasi mai con i pipistrelli il salto avviene direttamente, spesso serve un ospite animale “intermedio”, come lo zibetto per SARS o il dromedario per MERS, ma il serbatoio originario, l’archivio genetico in cui il virus prende forma, rimane il mondo dei chirotteri.
Una nuova ricerca su pipistrelli e coronavirus
Un nuovo studio pubblicato su Nature Communications ha osservato questo fenomeno con un livello di dettaglio inedito: per tre anni, i ricercatori hanno seguito cinque colonie di flying foxes (Pteropus), grandi pipistrelli frugivori dell’Australia orientale. Hanno raccolto 2.537 campioni fecali, sia catturando singoli animali per ottenere dati individuali, sia raccogliendo feci sotto i roost, i luoghi in cui i pipistrelli si radunano per riposare o dormire durante il giorno. Lo scopo era capire quando, come e in quali individui vengono escreti (cioè espulsi) determinati coronavirus, e quali sono le condizioni che favoriscono coinfezioni e ricombinazioni, cioè il mescolarsi di due virus diversi nello stesso ospite.
Tre anni sotto i roost
“È uno studio ampio – spiega Davide Lelli, virologo veterinario dell’Izsler (Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna) – perché analizza dinamiche spazio-temporali su un periodo lungo e con un campionamento molto esteso, dando robustezza alle conclusioni: oltre 2500 campioni su cinque siti nell’arco di tre anni”.
Il primo risultato importante è che i ricercatori hanno identificato sei cladi distinti di nobecovirus, cioè sei rami dell’albero evolutivo dei betacoronavirus, ospitati dai pipistrelli australiani. Tre erano già noti, altri tre erano nuovi, mai descritti prima nei database internazionali. “Non è sorprendente trovare virus nuovi – commenta Lelli – perché eventi di ricombinazione avvengono normalmente nei chirotteri e in altre specie e quindi è normale che emergano nuove varianti. La novità è che oggi, grazie al sequenziamento di nuova generazione, possiamo rilevarle e caratterizzarle molto più facilmente”.
Giovani pipistrelli e cicli stagionali
Le analisi hanno anche mostrato come i diversi cladi abbiano pattern stagionali specifici, ma in generale la prevalenza varia non solo in base alla stagione, ma anche alla specie di pipistrello studiata, al sito e persino all’anno considerato.
Lo studio conferma anche che i pipistrelli che ospitano più virus sono i giovani, in particolare al momento dello svezzamento. “La fascia dei pipistrelli più giovani è più vulnerabile – spiega Lelli – perché stanno perdendo l’immunità passiva ricevuta dalla madre tramite placenta e latte: il colostro trasferisce anticorpi pronti all’uso che proteggono il piccolo nelle prime settimane di vita, ma questi anticorpi spariscono in fretta, mentre gli animali non hanno ancora sviluppato una propria risposta immunitaria attiva. In quella finestra di tempo restano scoperti e diventano molto più suscettibili alle infezioni. Visto anche che vivono in colonie enormi, questo periodo coincide con un’esposizione massiccia ai virus”.
Il rischio delle coinfezioni
I ricercatori hanno osservato che in certi periodi oltre metà dei pipistrelli infetti ospitava più di un virus contemporaneamente, e questa è la condizione ideale per la ricombinazione.
“Con le coinfezioni – racconta Lelli – è come se una cellula potesse ricevere due manuali di istruzioni diversi. L’enzima che copia il genoma virale a volte commette errori, salta da un libro all’altro e scambia delle pagine: alla fine ne risulta un virus che contiene pezzi di entrambi i genomi-genitori. Non sempre questo porta a cambiamenti rilevanti, ma a volte può succedere che il risultato sia un virus con caratteristiche nuove, come la capacità di infettare un ospite diverso, di eludere il sistema immunitario o di resistere a una risposta pregressa”.
È così che nascono varianti e sottotipi, non è un evento eccezionale, è una caratteristica normale dell’evoluzione dei coronavirus, ma quando una di queste nuove combinazioni trova la strada per l’uom, le conseguenze possono essere serie.
“ La migrazione rende i pipistrelli dei veicoli a lungo raggio di potenziali patogeni ed essendo animali gregari i virus tendono a diffondersi in fretta Davide Lelli
Pipistrelli australiani e pipistrelli italiani
Lo studio riguarda pipistrelli frugivori australiani, che in Europa non esistono, ma il metodo di studio è applicabile anche da noi, perché campionare a lungo termine, tenendo conto dei cicli vitali, può rivelare i momenti più a rischio anche per le nostre specie. “In Italia – conferma Lelli – abbiamo circa 35 specie di pipistrelli, tutti microchirotteri insettivori. Non sono i flying foxes, ma il principio è lo stesso: monitorare nel tempo le colonie e prelevare campioni in momenti diversi del ciclo riproduttivo per capire quando il rischio è maggiore”.
Per ora in Italia non esiste un piano nazionale di sorveglianza sui coronavirus dei pipistrelli. “C’è una rete di laboratori facenti capo ai dieci istituti zooprofilattici italiani – racconta Lelli – ma l’unico piano armonizzato riguarda i lyssavirus, cioè i virus della rabbia, che sono molto pericolosi per esseri umani e altre specie. Per i coronavirus ci sono comunque delle ricerche, perché monitorare questi animali è importante: non è un piano strutturato, però in caso di bisogno le competenze ci sono e i metodi anche”.
Sorvegliare per prevenire
Ma come funziona concretamente la sorveglianza per le specie selvatiche? Lelli fa l’esempio dell’influenza aviaria: “Si collabora con il mondo venatorio e gli enti parco, si prelevano campioni da anatidi e altri uccelli migratori e se troviamo il virus possiamo lanciare un’allerta, rafforzare le misure di biosicurezza negli allevamenti e ridurre i contatti tra animali domestici e selvatici. È un sistema che ci permette di anticipare il rischio e prevenire la diffusione dell’infezione”.
Con i pipistrelli si campionano colonie, si sequenziano i virus e li si confrontano con quelli noti per verificarne le caratteristiche genetiche. “Noi, ad esempio, monitoriamo alcune colonie di rinolofi, che sono serbatoi di virus simili a SARS, – spiega Lelli – li sequenziamo e analizziamo la regione della spike, quella che si lega al recettore cellulare ACE2. Finora i coronavirus che abbiamo individuato non mostrano caratteristiche riconducibili a una potenziale capacità di infettare l’uomo, ma se un giorno emergesse un virus con proprietà diverse, potremmo identificarlo subito e valutare il rischio”.
Monitorare senza allarmismi
Si può prevedere il prossimo salto di specie? “In parte sì, – risponde Lelli – si può fare un’analisi del rischio basata sulla correlazione genetica con virus già noti. Se un virus è molto simile a un patogeno già pericoloso, è un segnale da non sottovalutare, ma bisogna procedere con cautela: un virus nuovo, mai osservato nell’uomo, non va automaticamente classificato come pericoloso. È fondamentale studiarlo attentamente, valutare le sue caratteristiche biologiche e molecolari, ma senza creare allarmismi inutili”.
È un equilibrio delicato, che passa anche dalla comunicazione. “Quando identifichiamo un nuovo virus, informiamo le autorità sanitarie regionali e centrali e non sempre è necessario avvisare i cittadini, perché bisogna distinguere tra rischio reale per la salute pubblica, che richiede misure preventive, e l’interesse scientifico”.
I progressi tecnologici
L’immagine che emerge dallo studio è quella di un laboratorio naturale sempre in funzione: colonie di pipistrelli in cui i virus circolano, si mescolano, cambiano volto. Non tutti questi cambiamenti hanno conseguenze, ma alcuni potrebbero avere impatti importanti. “I pipistrelli sono riconosciuti come i serbatoi evolutivi naturali della maggior parte dei coronavirus umani e animali – sottolinea Lelli – perché la loro ecologia e il loro comportamento sociale favoriscono la diversità virale”.
Trovare tre cladi nuovi in un singolo studio non significa che domani emergerà un nuovo virus pandemico, significa piuttosto che la biodiversità virale è vastissima, e che siamo solo all’inizio della sua mappatura. “Oggi – dice Lelli – con la metagenomica e il sequenziamento di nuova generazione possiamo studiare interi genomi in tempi rapidi e con costi bassi, è un salto enorme rispetto al passato. Possiamo risalire all’origine di un focolaio, capire le relazioni tra virus, ricostruire la loro evoluzione: tutto questo era impensabile fino a pochi anni fa”.
Perché serve tutto questo
Ricerche come questa ci riguardano perché i virus non hanno frontiere e i meccanismi osservati in Australia sono replicabili ovunque. Capire che i picchi di escrezione coincidono con lo svezzamento, o che certe specie ospitano cladi particolari, significa poter anticipare i periodi di maggior rischio e prepararsi.
“Il campionamento mirato è fondamentale – ribadisce Lelli – e conoscere i momenti più critici delle colonie ci dice quando aumentano le probabilità di ricombinazione e di genesi di varianti potenzialmente problematiche”.
La prevenzione delle pandemie (oppure “di nuove emergenze epidemiche”) è un lavoro quotidiano fatto di prelievi, analisi, sequenziamenti, valutazione del rischio e sviluppo di modelli predittivi. Non elimina la possibilità di un nuovo spillover, ma ci mette nella condizione di riconoscerlo per tempo: non possiamo spegnere il laboratorio evolutivo che pulsa dentro le colonie di pipistrelli, ma possiamo imparare a leggerne i segnali. E forse, grazie a studi come questo, saremo un po’ più pronti la prossima volta.