SOCIETÀ

Facciamoci una tazza di tè. Tutto quello che c'è da sapere sulla bevanda d’Oriente

Da quando ci siamo resi conto che certi alimenti sono più salubri di altri (ricordiamo il giorno – terribile per gli amanti della carne rossa – in cui, nel 2015, l’OMS l’ha inserita nella blacklist, con i dovuti distinguo) il tè ha accresciuto ancor più il suo fascino per i consumatori occidentali.

Il vecchio adagio secondo cui bere dodici tazze di tè verde al giorno procura lunga vita non è infatti ancora stato smentito. Complice anche la fascinazione che suscitano l’Oriente e le cerimonie del tè siamo dunque andati a documentarci, scegliendo come fonti i due testi di Nicoletta Tul, tea sommelier e degustatrice ufficiale di tè per il governo cinese, usciti per Santelli: La finestra sul tè. Guida definitiva alla più nobile delle bevande (2020) e La finestra sul Giappone. L’arcipelago del tè (2022).

Innanzitutto la pianta dalla quale si ricava la bevanda è una camelia (la Camellia sinensis) che proviene dalla Cina ed è stata omaggiata dall’arte e la letteratura diverse volte (si pensi a La signora delle Camelie di Dumas che Verdi ha poi trasformato ne La Traviata, per fare solo l’esempio celeberrimo). La sua classificazione botanica è sempre stata un grattacapo: la prima risale al 1712, ad opera del medico Kaempfer che la chiamò Thea japonense, fino alla classificazione di Linneo, nel suo Species Plantarium, che la denomina Thea sinensis. Ma ci vorrà diverso tempo perché, nel mondo botanico Occidentale, la camelia del tè venga considerata un’unica specie con diverse sottospecie (una quarantina).

Secondo le teorie più accreditate l’habitat di nascita della pianta del tè è la regione cinese dello Yunnan (parola che significa “a sud delle nuvole”), ai piedi della catena montuosa dell’Himalaya dove ancora ci sono antichi alberi più che centenari, addirittura in qualche caso millenari, che una volta costituivano la fascia forestale delle camelie selvatiche.

Secondo uno studio più recente, invece, una pianta antenata della camelia sinensis sarebbe vissuta a ridosso del fiume Irriwaddy in Birmania e poi da lì si sarebbe spostata in Cina, per poi migrare, grazie all’intervento dell’uomo ma anche di animali e di eventi metereologici, verso la Corea e il Giappone. In questo tragitto, e nel corso dei millenni, le piante sono cambiate e si sono adattate ai terroir che incontravano, fino a che nel secondo dopoguerra gli agronomi nei centri di ricerca hanno dato origine alle moderne cultivar.

Se entrassimo nel merito delle classificazioni botaniche scopriremmo che in Occidente e in Oriente tutt’oggi la pianta del tè viene classificata e suddivisa in modo diverso e piuttosto complesso, quello che invece interessa a chi il tè lo beve è comprendere le categorie più comuni in cui viene diviso per poterne fruire.

Ogni Paese produttore ha infatti nei secoli sempre preparato il tè con uno stile diverso, senza seguire delle procedure standard, semplicemente adattando le foglie a disposizione ai gusti, al clima e alla cultura locali. Nel 1979 Chen Chuan, massimo esperto cinese in materia di tè, comprese che per controllare la qualità delle produzioni, permettere ai consumatori di orientarsi e promuovere la ricerca scientifica sull’argomento, diventava necessario proporre una classificazione pratica e semplice, che utilizzasse però dei parametri scientificamente controllabili.

Analizzò quindi in laboratorio cosa avessero in comune a livello sperimentale i vari tè e scoprì che le sei categorie in cui aveva in mente di strutturare la sua tassonomia si differenziavano per una semplice caratteristica: la percentuale di riduzione di fenoli nella foglia durante la lavorazione. Di fatto quindi le diverse categorie mostravano differenti gradi di ossidazione. Ecco come nasce la distinzione in tè bianchi, tè verdi, tè gialli, tè azzurri detti anche oolong, tè rossi (o neri) e infine tè scuri o fermentati. A questa si sovrappongono poi altre variabili che servono a identificare una famiglia o classe, come le caratteristiche del colore del liquore, le note aromatiche riconoscibili e gli standard di lavorazione.

Il tè bianco (in cinese Bai Cha) è quello con la lavorazione più semplice e naturale per crearlo si possono usare diverse parti del ramo apicale della pianta, solo gemme o gemme e le foglie più grandi. Si inizia con la raccolta manuale delle foglie in primavera che vengono poi fatte riposare (appassire) per un periodo variabile dalle 20 alle 60 ore in un ambiente areato e protetto dal sole. In questa fase cui non segue alcuna ossidazione, l’acqua evapora e nella foglia si sviluppano le sostanze che danno al tè bianco il caratteristico aroma fresco, floreale, umami e dolce.

Il tè giallo è un prodotto molto raro, di produzione essenzialmente cinese e assai limitata.

Dopo la raccolta primaverile (gemme e foglie piccole nel rapporto di una a due), appena le foglie arrivano in azienda, vengono fatte riposare su piatti di bambù o sui teli per un periodo molto breve, per far dissipare il calore accumulato nei grandi sacchi di raccolta. Dopodiché si procede al blocco dell’ossidazione in grandi pentolini simili a dei wok alla temperatura di circa 200 °C quindi le foglie vengono impacchettate all’interno di piccoli involti di carta morbida per un paio d’ore per poi ripetere la procedura. In questo modo le foglie perdono la gran parte dell’acqua e durante il riposo “in carta” ingialliscono: la clorofilla verde decade in sostanze dal colore più giallo e in tazza il liquore risulta dorato e dal sapore morbido.

Il mondo del tè verde è, invece, incredibilmente vasto sia per numero di tipologie che per luoghi di produzione, anche se i tre principali Paesi da cui viene esportato in tutto il mondo restano Cina, Corea del Sud e Giappone. Nei primi due la tostatura delle foglie viene fatta in padella mentre in Giappone si utilizza la cottura a vapore, e anche i periodi di raccolta variano. In Cina dal mese di marzo fino ai primi giorni di aprile, e solitamente entro il 4, giorno che scandisce i festeggiamenti per la “luminosità pura”, si produce il primo raccolto, quello maggiormente ricercato e pregiato. Il tè ottenuto entro questa data ha grande morbidezza, note fresche e floreali oppure note aromatiche che ricordano le fave e le primizie vegetali. Questi tè sono ricchi di aminoacidi e oli essenziali.

Dopo il 4 aprile ed entro il 20 dello stesso mese si svolge il secondo raccolto primaverile che precede la festa del Guyu o “pioggia delle messi”, tappa fondamentale nella coltivazione dei cereali. Questi tè hanno una maggiore componente di polifenoli e quindi una leggera astringenza vegetale.

In Corea il raccolto primaverile inizia più tardi, verso le prime due settimane di aprile, e continua fino a inizio giugno: il primo raccolto è quello più pregiato e produce liquore chiaro in tazza e molto umami, mentre il risultato del secondo raccolto, che avviene fra fine aprile e inizio maggio, ha meno oli essenziali e profumo, ma maggiore dolcezza.

In Giappone la raccolta può iniziare ad aprile nelle regioni più a Sud, mentre comincia a maggio in quelle settentrionali: il primo raccolto di primavera, pregiato e ricercato, viene chiamato Shincha, letteralmente “il primo tè”, ed è un concentrato di aromi freschi e dal sapore umami e minerale.

Dopo la cottura, in padella o a vapore, viene data la forma alla foglia con una procedura di arrotolamento manuale o meccanica, durante la quale i succhi vegetali escono dalla foglia.

Il tè oloong è una tipologia di tè che subisce una parziale ossidazione, intermedia tra quella dei tè verdi e quella dei tè rossi. La cultura degli oolong nasce in Cina, precisamente nel Guangdong, una regione meridionale che si affaccia sul mare cinese orientale, a ridosso della catena montuosa nota come “montagne della Fenice”, oppure nel limitrofo Fujian.

Altra terra che produce meravigliosi oolong è l'isola di Taiwan che in passato si chiamava Formosa, da cui la dicitura “Formosa oloong”. La produzione del tè a Taiwan inizia approssimativamente 200 anni fa, quando le migrazioni di popolazione cinese dalle regioni di Guangdong e di Fujian avviene portando con sé piante e tecniche di produzione.

Uno dei più famosi tè oloong, l’Oriental Beauty, è infatti un tè di Taiwan e appartiene alla categoria dei tè bitten, ossia morsi da un piccolo insetto, la Jacobiasca, e che per questo sviluppano delle molecole di difesa responsabili del sapore particolare del tè.

Il tè oloong è costituito da gemme e foglie nel rapporto di uno a tre, o addirittura uno a quattro, e la sua tecnica di produzione prevede, dopo l’appassimento, fasi alternate di riposo e agitazione delle foglie sugli stessi piatti di bambù dove sono stese: in questo modo i bordi fogliari si lacerano, si producono le molecole responsabili del suo aroma e l’acqua contenuta nella foglia raggiunge anche le estremità. L’ossidazione viene, dopo un giorno, bloccata in essicatori rotanti, quindi segue la rollatura.

La gamma aromatica del tè oloong è molto amopia: dalle note dolci, fresche e floreali fino alle note di pesca, albicocca secca, prugne, cacao, noce, spezie, erbe mediche e fiori secchi.

Il tè rosso, noto in Occidente come tè nero, è invece il tè completamente ossidato per eccellenza. Sembra che l'idea di un tè ossidato sia nata nel Fujian, sulla catena montuosa di Wuyi. Le storie e leggende sono diverse e tutte convergono sul fatto che l’ossidazione sia avvenuta la prima volta per caso, ma i contadini, che all'epoca producevano tè verde, devono aver apprezzato il nuovo prodotto, così come i compratori, pertanto si è deciso di iniziarne una produzione massiva. La zona di Wuyi rimane quella d’origine di alcuni dei più noti tè neri, come il Lapsang souchong, a volte affumicato ma non necessariamente. Il tè nero in Cina resta però per i Cinesi un tè da esportazione, prodotto in quantità decisamente minori rispetto al tè verde, mentre nel resto del mondo, quella di tè nero rappresenta la maggioranza della produzione, in special modo in India nelle regioni di Assam (tè neri molto corposi, tannici ma con gusto dolce e melassato, adatti alla prima colazione), Nilgiri (tè neri dal sapore fruttato e tropicale), Sikkim (tè di alta quota dai sapori moscati, freschi e raffinati), Darjeeling (che produce i più sofisticati tè indiani: moscati, floreali e fruttati, dolci e frizzanti), Nepal e Sri Lanka i cui tè vengono ancora chiamati tè di Ceylon. Altri Paesi che producono tè neri molto rari sono la Corea del Sud e il Giappone. I tè che solitamente troviamo nelle bustine provengono da Malesia, Indonesia e Africa, così come da Turchia, Iran e Vietnam: sono tè CTC (Cut Tearl Curl), ossia polverizzati.

I tè neri ortodossi, cioè a foglia intera, hanno gemme e foglie nel rapporto di uno a due, vengono dapprima appassiti per quasi un giorno, di modo che le foglie perdano l’acqua e diventino malleabili, quindi rollati a mano o a macchina per far uscire i succhi vegetali che all’aria danno inizio all’ossidazione: i polifenoli semplici presenti nelle foglie verdi, a contatto con l'ossigeno, si ossidano in fenoli complessi che donano i classici sapori del tè nero, cioè di melassa, frutti rossi e confettura, e il colore rosso, bruno e brillante che tutti conosciamo. La fase finale è invece l’essicazione, che li asciuga e al contempo blocca gli enzimi dell'ossidazione.

Infine il tè fermentato è un tè antichissimo che veniva usato come merce di scambio perché, sottoforma di mattonella squadrata o rotonda oppure compresso in cestini di bambù, era semplice da trasportare. Le carovane partivano dal Sichuan e dallo Yunnan in Cina, e portavano tè pressato, cotone e sale lungo la cosiddetta Via del Tè e dei cavalli, che, attraverso gole profonde, picchi montani e strade impervie, giungeva fino alle remote città tibetane. Lì avveniva lo scambio: cavalli contro il tè, che avrebbe integrato la dieta prevalentemente proteica dei popoli delle montagne e delle steppe.

Il Pu'er è il più famoso tè fermentato, protetto da un disciplinare stilato nel 2008 che ne definisce lo standard di produzione. La normativa dice che il Pu'er proviene solamente dalla regione dello Yunnan, le foglie usate sono di Camellia sinensis assamica e si trova in forma di pu'er shu o sheng. Il primo (che si traduce come “cotto o maturo”) è nato negli anni ‘70, subisce una fase di fermentazione accelerata, in ambienti umidi e molto caldi, per circa 60 giorni, le foglie disposte in un’alta pila. Il prodotto finale, una volta essiccato, ha colore bruno scuro e liquore in tazza molto scuro, quasi color cuoio. Le note aromatiche ricordano il sottobosco, la terra umida, in alcuni casi i funghi o può avere sentori balsamici anche se resta un tè molto dolce.

Lo sheng (“crudo o verde”) ha bisogno di una ventina d’anni di stagionatura per ottenere un colore simile allo shu. Dopo la raccolta da alberi antichi, le foglie subiscono una piccola fase di riposo che permette loro di dissipare parte del calore accumulato nei cesti di raccolta. Si passa quindi alla fase di blocco dell’ossidazione con l’ausilio del wok rovente, all’arrotolamento, all’essiccatura finale al sole. Le foglie sfuse di sheng possono venire conservate e bevute in questa forma, ma essendo di un tè da lunghe stagionature, generalmente viene nuovamente cotto a vapore per essere poi pressato “a torta”, avvolto in un tessuto, schiacciato da una pressa e infine messo a stagionare per diversi decenni.

I tè però spesso hanno anche un aroma: una tradizione molto comune e molto antica in Cina è quella, infatti, di profumare le foglie di tè. Tutti conoscono il tè al gelsomino, ma anche altri sono i fiori che vengono aggiunti alle foglie già lavorate per diverse ore, come il fiore di osmanto, il crisantemo giallo o bianco, il fiore di pomelo, il loto e l’orchidea che rilasciano gli oli essenziali con il loro profumo e sapore. I fiori però vengono setacciati ed eliminati per evitare che possano marcire.

Una volta note queste distinzioni sarà sicuramente molto più facile orientarsi nel complesso mondo del tè. Ma restano moltissime altre cose da sapere: come va preparato (in funzione di quale tipologia si tratti), quali sono le cerimonie del tè nei vari Paesi (compreso l’afternoon tea inglese) e, perché no, qual è la sua storia del mondo.

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