SCIENZA E RICERCA

Federico torna in Sicilia e nasce la scienza europea

Il 22 novembre 1220, ottocento anni fa, lo stupor mundi, Federico di Hohenstaufen, figlio di Enrico VI di Svevia e della normanna Costanza d’Altavilla, Re di Sicilia, viene definitivamente incoronato a Roma da papa Onorio III imperatore del Sacro Romano Impero. Subito dopo il re e imperatore rientra, manca da alcuni anni, nel Mezzogiorno d’Italia. È un ritorno decisivo per la storia italiana ed europea. Non solo e non tanto, viene da dire, per la storia politica, ma anche e soprattutto per la storia culturale della penisola e dell’intero continente. Anzi, è un ritorno decisivo per l’identità stessa di quella piccola appendice, la più occidentale, dell’Eurasia che inizia a gettare le basi della sua stessa identità. Sì, possiamo dire che è a partire dalle settimane finali del 1220 che l’Europa inizia a diventare Europa.

«Vivrò finché potrò condurre una vita nel rispetto dell’amore e del bene: accanto a me terrò uomini sapienti e ben istruiti nelle arti». Così va dicendo il giovane re e imperatore (26 anni appena) quando ritorna nel Regno di Sicilia e si appresta a inaugurare non solo una nuova stagione della sua vita nella quale, per la prima volta dopo un paio di decenni, i mesi vissuti in pace supereranno, per numero, quelli spesi in guerra. Già, perché quel proponimento non solo viene realizzato – Federico II alla sua corte convoca davvero «uomini sapienti e ben istruiti nelle arti» – ma viene realizzato con tanta sagacia da produrre effetti sul diritto e sulla letteratura che durano ancora oggi.  

Del suo collaboratore più stretto, Pier Delle Vigne, Dante dirà che possedeva «ambo  le chiavi del cor di Federico». Ma anche il Sommo Poeta sbagliava. Perché il cor di Federico di porte ne possedeva almeno tre. E dunque tre sono le chiavi per aprire il suo cuore. È quella terza chiave non la possiede Pier Delle Vigne, ma la conserva egli stesso, Federico. Ed è proprio questa terza chiave che proprio lui, Dante, il poeta della scienza, ignora che spalanca la porta alle scienze naturali, per la prima volta, in Europa, e attraverso cui inizia a passare l’identità stessa dell’Europa. 

Sì, Federico II è il primo scienziato naturale d’Europa.  

Lo stupor mundi è noto per moltissime iniziative. Per le sue crociate pacifiche finite in discussioni filosofiche. Per i suoi numerosi castelli. Per le Costituzioni di Melfi con cui ha riformato il diritto. Per aver creato quella corte di «uomini sapienti e ben istruiti nelle arti» all’interno della quale è nata la poesia siciliana e dunque, come dice Dante, la lingua italiana.

Ma tornando in Sicilia, nel 1220, e dando vita nei trent’anni successivi alle attività di una corte di uomini sapienti e colti, Federico crea il primo centro di ricerca scientifica dell’Europa occidentale, con un gruppo cosmopolita di uomini interessati alla matematica e alla filosofia naturale. Un centro di ricerca di cui lui stesso è il primattore. 

L’intenzione di Federico è fondare lo sviluppo del regno sulla conoscenza: giuridica, letteraria, filosofica, ma anche scientifica.

Poiché finora la scienza vi era sconosciuta, il 1220, può ben essere considerato l’anno in cui le terre più occidentali dell’Eurasia scoprono la scienza. E scoprono la politica della ricerca.

Ma c’è di più. Federico II fa ricerca in prima persona. E con tale sagacia ed efficacia da poter essere considerato il primo scienziato naturale creativo dell’Europa in corso di formazione. 

Quando poi nel 1226 Federico II incontra a Pisa il primo matematico creativo dell’Europa occidentale, Leonardo Pisano detto il Fibonacci, allora la stretta di mano tra i due può essere considerata davvero l’avvio della scienza in Europa.

Non ci sono fulmini a ciel sereno nella storia. E neppure lo stupor mundi lo è, nell’Italia e nell’Europa del 1220. Federico è parte di una storia politica e culturale importante, che unisce le vicende degli svevi e dei normanni. 

Lungi da noi l’intenzione di richiamare alla memoria questa lunga e complessa storia, che vede molto spesso contrapposti il papa e l’imperatore. La Chiesa e lo Stato. Religiosità e laicità. 

Diciamo solo che Federico è nato a Jesi nel 1194 e che ha perso i genitori abbastanza presto, che prestissimo è diventato re di Sicilia, che più per necessità che  per convinzione giovanissimo si è ritrovato in Germania a ricompattare l’impero, riuscendovi, tanto che il 22 novembre del 1220 in San Pietro in Roma, è stato incoronato, come abbiamo già ricordato, Imperatore. 

Detto questo, da ora in poi parleremo solo del rapporto tra Federico II e la scienza, o meglio: la filosofia naturale. Ebbene, neppure da questo punto di vista l’eclettico re e imperatore si presenta come un fulmine a ciel sereno. 

Federico è figlio del suo tempo.

E quello dell’inizio del XIII secolo è un tempo di risvegli. Un tempo che è stato definito “il primo rinascimento”. Tutto è in fermento. Sta nascendo in Europa una civiltà urbana. Ne risentono la cultura e le arti. Il continente inizia a essere costellato da meravigliose cattedrali: le cattedrali gotiche. Da alcuni anni è in corso una formidabile opera di traduzione dall’arabo in latino dei classici greci, di filosofia e di scienza. Testi che gli arabi avevano tradotto sistematicamente tra il VII e l’XIII secolo a Damasco e a Baghdad. Vengono tradotti anche le opere originali dei filosofi naturali, dei medici e dei matematici arabi. 

Per fare qualche esempio, nel XII secolo viene tradotto dall’arabo in latino Aristotele e nascono i dottori della Chiesa che cercano di trovare una sintesi tra il pensiero dello Stagirita e la dottrina cristiana. A Toledo, grazie soprattutto a Gherardo da Cremona, vengono tradotti anche centinaia di altri libri dall’arabo in latino. Ivi compresi gli Elementi di Euclide. Nel 1120 – solo nel 1120 – gli europei possono leggere per la prima volta l’atto fondativo della moderna geometria, scritto 1500 anni prima dello studioso ellenista.

Anche nella Palermo del nonno di Federico II, Ruggero II, avviene qualcosa di analogo. Un gruppo di studiosi di ogni credenza religiosa – europei occidentali, bizantini, ebrei islamici – traduco numerosi testi dall’arabo in latino. Testi della cultura greca classica e anche testi nuovi prodotti dagli scienziati e dai filosofi islamici. Un po’ prima, nell’XI secolo tra Salerno e Montecassino Costantino l’Africano ha fatto altrettanto: traducendo dall’arabo in latino alcuni testi di medicina.

È chiaro che l’Europa si sta risvegliando è sta attingendo a piene mani dalla cultura araba che, a sua volta, ha fatto propria e innovato la cultura greco-ellenistica.

Ecco, Federico II quando nel 1220 ritorna in Sicilia si ritrova immerso in questo milieu culturale. Di cui si nutre e che lui arricchisce. Guadagnandosi sul campo il diritto a essere definito stupor mundi.

Ecco dunque che assume un senso la dichiarazione di Federico appena incoronato Imperatore (è la terza volta per la verità): «Vivrò finché potrò condurre una vita nel rispetto dell’amore e del bene: accanto a me terrò uomini sapienti e ben istruiti nelle arti». Nasce così la “corte di Federico”, dove si coltivano il diritto, la poesia e la filosofia naturale.

La divisione in tre comparti è alquanto forzata, perché tra quei dotti non è affatto sconosciuta l’interdisciplinarità. Ma non parleremo in questa sede dei due antri del cor di Federico cui si riferiva Dante.  Non parleremo degli uomini sapienti e colti che affollano la corte itinerante di Federico, dopo il suo ritorno, nel 1220, in Sicilia. Parleremo solo (solo?) del terzo antro, quello della filosofia naturale. Una stanza affollata da un numero davvero vasto di filosofi naturali. Qualche nome: Giovanni da Palermo, Domenico Ispano, Teodoro di Antiochia, Guido Bonatti di Forlì, e poi ancora Ja’aqov Anatoli, Mosé ben Šemū’ēl ibn Tibbōn e Giuda ben Salomone ha-Cohen (tre filosofi, astronomi e matematici ebrei. E, soprattutto Miche Scoto. Moltissimi sono ancora i nomi che non possiamo citare. Vale la pena, però sottolineare, che queste persone sono di provenienza – geografica e religiosa –, la più diversa. Quella di Federico è una corte multiculturale: ci sono cristiano d’Occidente, cristiani bizantini, ebrei e islamici. Vengono dall’Europa occidentale, dal mondo bizantino, dall’Africa e dal Medio oriente. Sono di ogni credo culturale, proprio come accadeva qualche decennio prima alla corte di nonno Ruggero d’Altavilla. 

Quella di Federico II è una corte dove regna la tolleranza e dove è viva la contaminazione culturale. La sua idea è quella di fare di Palermo una capitale della scienza come era stata Baghdad e prima ancora Alessandria d’Egitto. Partendo dalla consapevolezza che molto c’è ancora da imparare dagli arabi e dai bizantini. 

Aggiungete a questa corte una biblioteca strepitosa, che consente di tradurre anche e per la prima volta direttamente testi dal greco in latino; uno zoo ricco di ogni animale conosciuto e una voglia di interrogare la natura e capirete quanto pesasse la terza chiave del cor di Federico. Ma nel terzo antro di quel cuore c’è lui steso. Federico II che si accinge a diventare il primo scienziato naturale d’Europa.

È a Castel del Monte, nella splendida dimora ottagonale che ha fatto costruire che Federico scrive gran parte di un libro, il De arte venandi cum avibus: un’opera che, sostengono Lucio Russo e Manuela Salsiccia (Ingegni Minuti, Feltrinelli, 2010), «assicurerebbe al suo autore un posto di rilievo nella storia della scienza anche se di lui non avessimo altre notizie».

Sì, dopo essere tornato nel 1220 in Sicilia, Federico II diventa inquisitor, ovvero ricercatore. Il primo ricercatore in Europa. E il De arte venandi è il resoconto della sua ricerca. 

Certo, l’argomento scelto da Federico sembra, a prima vista, marginale (almeno agli occhi di una persona del XXI secolo): la caccia con il falco. Ma intanto, come va dicendo Ugo di san Vittore, tutto interessa la filosofia naturale. Tutto, dunque, è degno di essere studiato. Anche la caccia a un cacciatore.

E poi quel libro è il frutto di una ricerca empirica. «Fides enim certa non provenit ex auditu», sostiene Federico. Non si può avere certezza delle cose solo per sentito dire. La certezza si raggiunge solo attraverso l’esperienza diretta. E con questa presa di posizione, certo ancora acerba ma già promettente, Federico contribuisce a gettare le basi per un approccio sperimentale allo studio della natura – o, se si vuole, alla scienza – che tutto il medioevo posteriore eredita.

Il libro, diviso in sei volumi, parte con una descrizione generale degli uccelli, poi si occupa della falconeria in senso stretto: ma subito Federico chiarisce che è sua intenzione occuparsi delle strutture fisiche degli uccelli e delle forze naturali cui sono soggette. Una prospettiva, appunto, da filosofo naturale. Molti sostengono che la cura con cui Federico descrive l’accoppiamento, la nidificazione, le cove, le migrazioni, le malattie e la nutrizione raggiungono una precisione e una vivacità che ritroveremo solo nelle pagine di Konrad Lorenz.

In realtà, Federico nell’elaborare il suo De arte venandi cum avibus non si limita neppure a descrivere le sue esperienze. Ma segue un percorso complesso che prevede tutti gli stadi della ricerca che oggi definiamo scientifica. 

Inizia da un’analisi attenta e completa della letteratura esistente. Che è, soprattutto, letteratura greca e araba. Cerca elegge e critica così tutti i trattati di ornitologia e, più in generale, tutti i trattati che riguardano gli animali e, alcuni, li fa tradurre. 

E poi sperimenta. Per Federico non vale l’ipse dixit. Nel suo atteggiamento è possibile intravedere persino un’anticipazione di quello scetticismo sistematico che è uno dei valori fondanti della scienza moderna. 

Dimostra, per esempio, che gli avvoltoi mangiano solo carne di animali morti, avendo posto nelle loro gabbie dei pulcini vivi e constatato che i rapaci pur affamati li hanno ignorati. Verifica che a guidare gli stessi avvoltoi verso il cibo è la vista e non l’olfatto, avendo posto della carne nei pressi di avvoltoi resi ciechi e constatato che i rapaci la ignoravano.  

In breve: l’insieme di queste conoscenze consente di generare nuove tecniche nell’allevamento, nell’addestramento e nella cura dei falchi. Sì, Federico dimostra di essere la figura scientifica più importante della “corte di Federico”.

Ormai è chiaro, la terza chiave del cor di Federico non è Pier delle Vigne a possederla, ma Federico stesso. È lui che allestisce la stanza della scienza presso la sua colta corte. Ed è lui il primoinvestigator non solo a Palermo, non solo nell’Italia meridionale, ma in tutta l’Europa occidentale. 

Basterebbe questo per dedicargli un grosso paragrafo in una qualsiasi storia della scienza. Ma Federico II inquadra la sua attività di ricercatore e di manager della ricerca in un contesto – anzi, in una visione – più ampia. In una visione politica e, dunque, di politica della scienza.

La sua visione è estremamente moderna. L’idea innovativa: costruire uno stato, appunto, moderno fondandolo sulla conoscenza. In tutte le sue declinazioni: giuridiche, letterarie e artistiche, filosofiche e soprattutto scientifiche. 

Non a caso è lui a fondare il 5 giugno 1224, due anni dopo la fondazione dell’Università di Padova, l’università di Napoli, la prima università statale d’Europa. E a imporre che a esercitare la professione di medico potesse essere solo chi si fosse laureato presso la grande Scuola di Salerno. 

Non solo ricerca e formazione: Federico II è convinto che l’economia debba svilupparsi sulla base della conoscenza, della produzione di nuova conoscenza sul mondo naturale. Ovvero su quella che noi oggi chiamiamo scienza. Una simile impostazione ha bisogno, di conseguenza, di un luogo dove questa nuova conoscenza si produce. Ha bisogno di un centro scientifico, all’insegna della tolleranza e della contaminazione culturale. Lui lo crea, questo centro. E lo alimenta. Fino al 1250 non c’è nulla di simile in tutta Europa. 

Poi …

Poi nel 1250 Federico muore. Lasciando un grande vuoto. La sua corte si dissolve. E con essa il primo centro di ricerca scientifico in Europa. 

In definitiva, il grande progetto di Federico fallisce.

Perché? Forse perché era un progetto calato dall’alto. Che non rispondeva a una domanda che veniva dalla società del Mezzogiorno d’Italia. 

Resta il fatto che Federico II ha indicato una strada, ancora oggi valida. Quella della scienza e, più in generale, della conoscenza. E anche per questo che Federico II merita l’appellativo di stupor mundi. E che il suo ritorno in Sicilia, ottocento anni fa, alla fine del 1220 possa essere considerato, senza eccessive forzature, come l’atto inaugurale della scienza e della politica della scienza in Europa.

         

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