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Il fragile accordo tra USA e Turchia sembra già saltato: i nuovi scenari

Cinque giorni di tregua armata, al confine turco-siriano. A patto che i curdi del Ypg si ritirino a 30 km da quel confine. E soltanto allora, a ritiro avvenuto e verificato, le truppe di Ankara s’impegnerebbero ad arretrare a loro volta. È questo l’accordo che Turchia e Stati Uniti hanno firmato il 17 ottobre nel tentativo di trovare una soluzione al conflitto scatenato da Erdogan il 9 ottobre scorso in Siria. Ma se anche fosse rispettato (e difficilmente sarà così, perché tra i vari punti si parla anche di “disarmo dei miliziani curdi” e di “smantellamento delle postazioni militari”) si tratterebbe comunque di una soluzione parziale, che riguarda soltanto l’area tra Tal Abyad e Ras al Ayn, a nord-est della Siria, dove i turchi vorrebbero creare una “safe zone”. Per gli altri territori al nord della Siria occorreranno altri negoziati. Se ne parlerà con ogni probabilità martedì prossimo, a Sochi, dov’è in programma un incontro tra il presidente turco e Vladimir Putin, uno dei protagonisti di questa vicenda. Peraltro, proprio martedì 22 ottobre scadranno le 120 ore fissate nell’accordo Turchia-Usa.

Fragile intesa e accordo parziale

L’annuncio dell’accordo ha scatenato reazioni diverse. Da quelle entusiastiche di Donald Trump, che in un tweet ha scritto: “Grazie Erdogan, così milioni di vite umane saranno salvate”, a quelle più prudenti di Ankara (per il ministro degli Esteri si tratta soltanto di una “pausa” delle operazioni militari), fino a quelle fiduciose del comandante delle Forze democratiche siriane (Fds), Mazlum Kobani, che ha confermato di aver partecipato alle trattative che hanno portato all’accordo: «Washington ci ha dato precise garanzie: intendiamo fare tutto il necessario per far funzionare il cessate il fuoco. Questa è una vittoria della resistenza», ha dichiarato, precisando poi che la tregua riguarda soltanto l'area di circa 120 km tra Tal Abyad e Ras al Ayn, mentre per le altre aree del nord della Siria (dove non sono più presenti soldati americani, sostituiti di fatto da forze militari di Damasco e di Mosca) occorreranno altri negoziati. Anche se Salih Muslim, portavoce del Partito dell’Unione Democratica (PYD) ha subito precisato: «Diamo il benvenuto al cessate il fuoco, ma se saremo attaccati ci difenderemo. Non accetteremo mai l’occupazione del Nord della Siria». Il presidente siriano Bashar al Assad ha giudicato “vago” l’accordo raggiunto, con la sua consigliera, Butheina Shaban, che su Erdogan ha detto: «Per noi resta un invasore della nostra terra e un aggressore del nostro Paese». Ma secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani la tregua sarebbe stata già infranta dall’esercito turco, che avrebbe colpito la città siriana di Ras al-Ayn.

Gli attori protagonisti

Ma la partita è estremamente complessa, con molti attori protagonisti, in uno scenario assai delicato. A partire dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, naturalmente: che vorrebbe stroncare una volta per tutte le velleità dei miliziani delle Ypg (Unità di Protezione Popolare) considerati da Ankara come “terroristi” ed estensione del Pkk, il Partito dei Lavoratori curdi, da decenni in lotta per l’indipendenza dalla Turchia. Quindi da un lato c’è l’esercito turco (che è il secondo della Nato per numeri e mezzi, dopo quello degli Stati Uniti) e dall'altro le Forze democratiche siriane (Sdf), composte da quegli stessi curdi (e arabi) che dal 2015, per accordi con gli Stati Uniti (che nel frattempo continuavano le loro azioni di bombardamento), hanno combattuto via terra contro i fanatici dell’Isis (ed è per questo che i curdi hanno parlato di “tradimento” degli Stati Uniti) all’annuncio di Trump del ritiro delle truppe americane).

Ma ancor prima di lui c’è il presidente americano Donald Trump, capace di giravolte improvvise e imprudenti, assai pericolose, un tipico esemplare di elefante in cristalleria, che dopo aver “dimenticato” il recentissimo ruolo svolto dai curdi nella lotta all’Isis, ha difeso la decisione di ritirare le truppe dalla Siria accusando gli stessi curdi di non averli aiutati «durante lo sbarco in Normandia». Salvo poi tentare di riconquistare un ruolo da protagonista nella vicenda minacciando sanzioni alla Turchia e prendendosi il merito dell’aver “costretto” Erdogan a raggiungere l’accordo sul cessate il fuoco. Fatto sta che quella decisione di ritirare le truppe ha dato il via al conflitto, che in 10 giorni ha portato a oltre 200 civili uccisi, molte centinaia di feriti e 300mila sfollati.

Il ruolo di Mosca

E sullo sfondo, dietro le quinte come suo solito, c’è il presidente russo Vladimir Putin. Abilissimo a manovrare, a tessere trame, ad avanzare. Perché dietro l’accordo con gli Stati Uniti c’è ovviamente la mano di Mosca. Il presidente russo si è schierato apertamente al fianco di Erdogan. «La Turchia ha tutto il diritto di garantire la sicurezza dei suoi confini, ma ci aspettiamo che l’offensiva militare lanciata in Siria venga condotta in maniera proporzionale alle sue necessità», ha dichiarato nei giorni scorsi il portavoce del Cremlino. Dunque anche Mosca considera il Rojava (la regione siriana a guida curda) un covo di terroristi. E vuole decidere, approfittando anche dello spazio lasciato vacante dal passo indietro del presidente Trump. Al confine turco-siriano oggi ci sono i blindati russi. Quanto il passo indietro di Trump e quello in avanti di Putin siano collegati e difficile dirlo: c’è soltanto un nesso temporale (ingenuità di Trump e/o abilità di Putin) o si tratta di un pianificato accordo di spartizione d’influenza? «Non permetteremo che Turchia e Siria si scontrino», ha detto l’inviato speciale russo in Siria, Alexander Lavrentyev. Il ministero della Difesa a Mosca ha annunciato che i militari russi stanno «pattugliando la linea di contatto tra le forze siriane e turche nel Nord-Est». Lo stesso Trump, con il solito tweet, ha dato il via libera a Putin: «Ben venga chiunque voglia aiutare i curdi: russi, cinesi o Napoleone Bonaparte. Spero che abbiano successo. Noi siamo a 7 mila miglia di distanza». Il prossimo 13 novembre, alla Casa Bianca, è atteso il presidente turco.

L’Europa sembra avere un ruolo marginale in questa partita. Il Consiglio europeo, preso atto dell’accordo, è tornato a condannare la Turchia per la sua azione unilaterale nella Siria nordorientale e a chiederne il ritiro delle truppe: «Una guerra che sta provocando inaccettabili sofferenze umane, che mina la lotta contro l'Isis e che minaccia pesantemente la sicurezza europea», è la posizione di Bruxelles. Parole simili dall’Onu, con il segretario generale Antonio Guterres che, pur dichiarandosi «gravemente preoccupato per la situazione», approva l’accordo e «qualsiasi ulteriore sforzo per invertire l’escalation e proteggere i civili».

Il dramma della situazione umanitaria

Mentre resta drammatica la situazione umanitaria. Circa 300mila gli sfollati nel nord est della Siria (la stima è approssimativa, ma secondo le Nazioni Unite il numero è destinato a moltiplicarsi rapidamente) che secondo le organizzazioni umanitarie che operano in zona sono ridotti allo stremo. Il cessate il fuoco consentirà a molte Ong di tornare a soccorrere le popolazioni locali. Intanto le Forze democratiche siriane avanzano il sospetto che l’esercito turco stia utilizzando armi chimiche. «Sollecitiamo le organizzazioni internazionali a inviare le loro squadre per indagare sulle ferite riportate negli attacchi», ha scritto su Twitter il portavoce delle Forze democratiche siriane a maggioranza curda, Mustafa Bali. Le armi usate potrebbero essere napalm e munizioni al fosforo bianco. Il medico curdo Manal Mohammed, responsabile del Rojava Health Board, ha detto che le persone ricoverate negli ospedali di Ras al-Ain, nella Siria settentrionale, presentano «ferite per nulla comuni, che fanno temere che siano state usate armi non convenzionali». Ma Ankara nega: «Tutti sanno che l’esercito turco non ha armi chimiche», ha replicato il ministro della Difesa, Hulusi Akar. «Semmai sono le milizie del Ypg a usarle, per poi incolpare noi turchi».

 

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