CULTURA

Giacomo Joyce all’Università di Padova

Nell’Archivio storico dell’Università di Padova sono depositati documenti che ci parlano del passaggio di James Joyce a Palazzo Bo più di un secolo fa. Le celebrazioni del centenario della pubblicazione del suo Ulysses (1922) che si svolgono in tutto il mondo il prossimo 16 giugno (Bloomsday), e le celebrazioni degli 800 anni dell’Ateneo patavino nel 2022 ci offrono l’occasione per riprendere in mano alcune carte autografe ingiallite dal tempo, che fanno parte degli scritti sparsi e poco studiati di Joyce e che meritano attenzione non tanto perché non se ne conoscesse l’esistenza, ma perché sono rimaste a lungo in silenzio, non lette e non interrogate.

Di Joyce conosciamo i racconti di Gente di Dublino, Un ritratto dell'artista da giovane, il magistrale Ulysses e il babelico Finnegans Wake – quattro stazioni di un viaggio mentale, come Joyce stesso li considerava, che costituiscono un corpus che non ha eguali per scavo psicologico, innovazione stilistica, e per l’apertura a ospitare tante lingue e tante voci, a mischiarle e ibridarle.

Se rilette in questo millennio, le sue opere mature sembrano quasi un messaggio per il mondo dei flussi globali, dove le lingue hanno iniziato a confondersi, ma le culture non incrociano ancora gli archivi l’una dell’altra.

A me piace pensare che con il suo attacco preciso e divertente a binarismi di ogni genere, Joyce si è impegnato nella riapertura di dispositivi (linguistici, culturali, politici…) che si volevano chiusi e non comunicanti, e ha demolito – per eccesso, per oltraggio, per presa in giro – modi di pensare egemonici da cui fenomeni quali il razzismo e l’imperialismo, ma anche il sessismo, dipendono da sempre.

I brevi testi nel nostro Archivio precedono e informano in vari modi quest’opera grande, e sono il prodotto di un anno particolare nella vita dello scrittore irlandese, il 1912: un anno difficile che sul finire di aprile, dal 24 al 30, porta Joyce a Padova dal suo esilio triestino, nella speranza di trovare un lavoro.

Giacomo Joyce – lo chiamavano così a Trieste, dove era noto come insegnante privato d’inglese – non viaggia con l’obiettivo di ottenere un lavoro accademico prestigioso all’università, bensì di trovare un posto d’insegnante d’inglese nella scuola pubblica italiana, per il quale gli serve un’abilitazione.

Un tempo lungo ci separa dal 1912: vi chiedo di pensare a un tempo prima dei conflitti mondiali, prima del boom economico del secondo Novecento, prima dell’era informatica, prima della globalizzazione e della modernità liquida, prima delle nuove ondate di migrazioni.

Da questa distanza, vorrei che provassimo a immaginare se e quanto ci assomiglia il Joyce trentenne che si rivolge all’Università di Padova per sostenere l’esame di abilitazione all’insegnamento nelle scuole secondarie italiane.

Sono convinta che la figura di questo giovane irlandese senza lavoro e senza soldi, con una famiglia da mantenere, in un paese che non è il suo, ci possa sembrare molto vicina, quasi familiare. Suona familiare, per esempio, il suo non appartenere a uno stato: pur avendo cittadinanza britannica, Joyce era un irlandese senza patria, esule in fuga dal controllo coloniale inglese e da quello spirituale della Chiesa Cattolica Romana. Avendo dato inizio alla sua guerra personale contro Impero, Stato e Chiesa, e dopo esser passato senza fortuna per Parigi e Zurigo, era approdato in territorio austriaco, prima a Pola – “una Siberia navale” come la definì lui stesso, e poi a Trieste, in un’ibridissima zona di confine dove abitò dal 1904 al 1914, e che gli fece sperare di poter ottenere un lavoro stabile in Italia.

Al tempo di Joyce, Trieste era una città cosmopolita ma prevalentemente italiana, punto d’incontro di greci, turchi, albanesi, slavi ed ebrei, al cui esilio diasporico un po’ alla volta Joyce finì per associare il proprio, grazie anche all’amicizia con Italo Svevo.

Nel 1912 Joyce aveva due figli, una moglie e una sorella a carico, si ubriacava spesso, abitava con la famiglia in locali angusti di cui non riusciva a pagare l’affitto. Ma Trieste era anche un crogiolo di lingue, un confine verso sud e verso oriente, che si rivelò uno snodo centrale per la sua arte, e per la produzione saggistica in italiano, in cui rientra di diritto il primo dei testi scritti per l’esame di abilitazione a Padova.

A Trieste l’italiano diventa il mezzo della scrittura giornalistica e critico-letteraria, oltre che il suo ‘lessico famigliare’. In casa Joyce si parla italiano, i suoi figli si chiamano Giorgio e Lucia, e quella resterà nel tempo la loro lingua di comunicazione. Così lo scrittore letteralmente “cambia lingua” e definisce un modo ‘totalizzante’ di stare nell’italiano e nei suoi dialetti, che gli permette di affinare gli strumenti del mestiere.

Di cosa pensasse Joyce di Padova sappiamo poco o nulla. Abbiamo solo una cartolina spedita al fratello Stanislaus, durante il secondo giorno delle prove di concorso, in cui scrive che

“Padova è inondata dagli straripamenti di Venezia. Quando sono arrivato ho dovuto fare un pellegrinaggio di porta in porta prima di trovare una camera. Di conseguenza qui è tutto più caro.”

Poche parole in cui troviamo più che altro un’irritata stanchezza, e la preoccupazione per le spese del concorso, sostenute fra l’altro inutilmente.

Il passaggio padovano di Joyce sembrò infatti un viaggio inutile e un’inutile spesa, che ci fornisce un ulteriore motivo per cui quell’esperienza ci risulta familiare: il giovane artista, colto e intelligente, fu vittima dell’indifferenza della burocrazia ai bisogni e ai diritti di chi non è cittadino.

Joyce sperimentò sulla sua pelle l’ottusità di amministrazioni statali non comunicanti fra loro, quella italiana e quella britannica, perché pur avendo ottenuto risultati eccellenti in un esame di concorso difficile, composto di più parti e sostenuto in più giorni nelle aule di Palazzo Bo, alla fine non poté insegnare nelle scuole italiane: nel giugno del 1912 il nostro Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione respinse la domanda di equipollenza del diploma di laurea conseguito a University College Dublin, invalidando così il concorso padovano, che aveva superato con punti 421/450.

Al di là del dato storico-biografico e burocratico di questa esperienza conclusasi in modo deludente per Joyce, i materiali nel nostro archivio hanno un valore speciale perché ci restituiscono i due ‘temi’ d’esame, uno in italiano su “L’influenza letteraria universale del Rinascimento” e uno in inglese su “The Centenary of Charles Dickens”, che offrono in poche pagine un concentrato del singolare, leggermente irriverente acume critico dell’artista da giovane.

Tra i due il testo più significativo è certamente quello in italiano. Qui Joyce risponde alla consegna della Commissione con il taglio originale dello scrittore alla ricerca della propria poetica, declinando in modo quasi aforistico il rapporto ambiguo con il Rinascimento, un’ambiguità motivata sia dall’esser cresciuto in un collegio gesuita a stretto contatto con la Scolastica (che gli diede un’idea ‘alta’ del Medioevo) sia dal desiderio di spostare l’accento dal Rinascimento sulla frontiera della modernità.

La composizione è ricchissima di spunti, perché attiva dinamiche di lettura del tempo, della storia e della letteratura che riaprono gli archivi europei dell’inizio del secolo scorso, li scompaginano e li ri-assemblano per noi. La scrittura ha un tratto veloce, che comprime i pensieri in immagini pregnanti, a rappresentare idee e intuizioni con una modernità che travolge anche la postmodernità.

E allora vi invito a capire insieme come questo succede.                    

Joyce inizia il tema con un cappello polemico in cui fa piazza pulita della teoria evoluzionistica come metodo per comprendere il divenire delle culture e dello spirito umano: l’evoluzionismo pretende di insegnarci che “quando eravamo piccoli non eravamo ancora grandi” e, nel caso del Rinascimento, che prima di allora l’umanità non possedeva che l’anima e il corpo di un bambino.

Quindi, tanto per cominciare, Il Rinascimento non può essere visto come uno spartiacque fra l’infanzia e l’età adulta dell’umanità. Se guardiamo bene al progresso del Novecento, dice Joyce, vedremo solo un avanzamento delle scoperte scientifiche e delle conquiste meccaniche e non una ‘rinascita’ o ‘maturazione’ dell’uomo. Nella città moderna, che è immagine della “civiltà complessa e multilaterale” del presente, la mente umana si perde.

In questo scollamento fra uomo, contesto urbano e progresso tecnologico, che è un argomento tipico della scrittura inglese dei primi decenni del secolo, Joyce vede atrofizzarsi il potere di controllo della mente sulla realtà, e si chiede se le radici di questa perdita non siano da rinvenire proprio nel Rinascimento.

L’incipit è chiaramente una provocazione ironica, utile a impostare l’argomentazione in chiave dialettica e, infatti, l’idea viene approfondita in un secondo blocco di discorso, in cui Joyce ingaggia lo spirito del “sublime Nolano,” il filosofo Giordano Bruno, che gli ha fatto da guida fin dai tempi dell’università.

Unico fra i suoi contemporanei inglesi, Joyce recupera Bruno per proporre una visione del farsi della cultura e della storia – alternativa a quella evoluzionistica: “Ogni potere nella natura o nello spirito deve sviluppare un opposto come unica condizione e mezzo per la propria manifestazione.”

È così che il Rinascimento si afferma, non tanto soppiantando naturalmente una fase infantile e inferiore della storia dell’uomo, ma contrapponendosi alla fredda, potente e lucida chiarezza dell’Aristotele medievale; nel far questo, dice Joyce, “come un Dio stanco della propria perfezione, il Rinascimento crea il mondo,” cioè abbraccia la vita in cui “si vive, si pecca e si muore”.

Joyce deve quindi riconoscere tutta la forza di questa ‘creazione’: il Rinascimento arrivò quando l’arte medievale moriva di perfezione formale e il pensiero si perdeva in cavilli oziosi; come un uragano, travolse l’Europa con un desiderio estremo di vedere e di sentire. È in quel momento che nasce la cultura moderna, che Joyce chiama ‘generale’ (ma forse sarebbe opportuno dire ‘generalista’), cioè una cultura che accumula stimoli di superficie e dettagli osservati, e che si appassiona al nuovo e allo strano.

Per questo può affermare, con una delle sue intuizioni sorprendenti, che Shakespeare e Lope de Vega “sono responsabili … per il cinematografo”. La vitalità, esuberanza, fecondità del teatro rinascimentale non solo regge il confronto con la settima arte ma, in qualche modo, la inventa. Con un anacronismo, potremmo dire che con Shakespeare e Lope de Vega la rappresentazione artistica della vita si ‘cinematografizza’, il palcoscenico si fa rivale della realtà – tutto sommato un grande riconoscimento dell’artista nei confronti dei drammaturghi rinascimentali, che non sorprende se si ricorda che una delle imprese dello scrittore fu l’apertura del Volta Picture Theatre, la prima sala di proiezione a Dublino e il primo cinema in Irlanda, nel dicembre del 1909.

Ma il punto vero dell’iperbole cinematografica è che a secoli di distanza ci sono aspetti di questo cambio di sensibilità che hanno subito una radicalizzazione, sia per quanto riguarda l’uomo che per ciò che attiene all’arte. L’uomo moderno, dice Joyce, “ha un’epidermide invece di un’anima”: ha sviluppato un enorme potere di sentire, di captare il mondo attraverso la pelle, a detrimento dello spirito, del senso morale, della forza immaginativa.

Questa metamorfosi Joyce la traduce sul piano culturale con un’immagine spavalda, affermando che il rinascimento “ha messo il giornalista nella cattedra del monaco.”

Il giornalista diventa dunque il nuovo agente della cultura: diversamente dallo studioso medievale isolato dal mondo nella sua cella, il giornalista si muove per il mondo, accumula fatti e impressioni, insegue un’estetica dell’attimo, sostituendo la mentalità acuta, ma limitata e formale del Medioevo, con una facile ed estesa, ma al contempo irrequieta e informe, che apre anche a una nuova dimensione del tempo.

Il giornalismo sarebbe quindi una forma moderna della letteratura, e anche figura di un cambiamento dei contenuti dell’archivio culturale, che a quel punto include tracce di una miriade di discorsi diversi, alti e bassi, effimeri ed eterni. Quando Joyce, all’inizio del tema parla di “un groviglio di macchine il cui scopo è appunto quello di raccogliere in fretta e furia gli elementi sparpagliati dell’utile e dello scibile e di ridistribuirli ad ogni membro della collettività” sembra veramente che stia parlando dei nuovi archivi digitali.

E così l’artista moderno non è più il cartografo delle idee del Medioevo, in cui si produceva un’arte ‘ideativa’; non è più colui che ‘traduce’ l’idea di uno spazio vasto, terribile e sconosciuto scrivendo sulla mappa Hic sunt leones. Non somiglia più neanche all’autore della Divina Commedia: nell’opera di Dante l’idea lavora insieme all’emozione, creando un preciso ordine estetico ed etico. Invece l’autore di un’arte di circostanze, legata a stimoli evanescenti e contingenti, è per Joyce vicino all’esperienza e lontano dall’immaginazione.

Ma allora qual è la proposta del candidato in questo tema? Collocando il monaco e il giornalista ai due estremi del suo spazio d’indagine, il giovane Giacomo sembrerebbe intenzionato a offrire un giudizio di valore severo sull’influenza ‘universale’ del Rinascimento. Sorprendentemente, però, non è così.

Infatti l’autore chiude il saggio condensando in un’immagine degna della miglior poesia metafisica inglese del Seicento il rapporto fra antico e moderno. A quest’altezza, dice Joyce, per noi moderni, le opere del Rinascimento sono come conchiglie in cui udiamo la voce lontana del mare, una voce che assomiglia a un pianto. A distanza di secoli la capacità rinascimentale di sentire e di vivere ci giunge in un insieme di citazioni e di echi interni, pronti a richiamarsi, a entrare in risonanza fra loro, come in un unico macrotesto, un archivio fluido che, volendo, possiamo concentrare in un’unica goccia d’acqua salata, “una lagrima” – che è l’immagine metafisica/simbolica scelta da Joyce per rappresentare il “senso della pietà per ogni essere che vive e spera e muore e s’illude.”

La compassione, la capacità di sentire con l’Altro, è dunque il lascito del passato rinascimentale e il terreno su cui i moderni finalmente superano gli antichi: “in questo il giornalista volgare è più grande del teologo.”

In conclusione, dove si colloca l’autore in questo panorama?

Joyce sta sia dentro che fuori il suo discorso: all’interno come voce di saggista e critico, all’esterno come artista che vorrebbe essere sintesi delle opposizioni delineate (in vero stile Bruniano) e creare un nuovo linguaggio per la modernità.

Le ‘poetiche’ di Joyce, come direbbe Umberto Eco, si giocano nella tensione continua tra il lavoro formale dell’artigiano-monaco, che vuole imporre una ‘struttura’ al caos del mondo, e la folle e folgorante ricerca dell’artista-scrittore di un nuovo idioma ospitale, duttile e inclusivo, che quel caos possa abbracciare. Una ricerca che porta Joyce a Ulysses e Finnegans Wake, entrambi espressioni di caos ordinato: insieme la negazione e l’affermazione del caos; l’affermazione e la negazione dell’ordine.

È questo il ruolo moderno dell’intellettuale e dell’artista proposto da Joyce: trasgressivo – perché profondamente immedesimato nella tradizione e insieme fuori del proprio tempo – è lui che segna il passaggio da un’epoca all’altra, diventando così sintesi del passato e di un presente che prefigura il pensiero del futuro.

Joyce in questo modo firma la modernità, se pensiamo che un segno distintivo del moderno sia la possibilità di creare, con ogni nuova opera d’arte, un nuovo sistema linguistico.                                               

Nel tema padovano Joyce interviene in modo autonomo nella polemica storico-letteraria degli antichi e dei moderni, ma le sue posizioni sono troppo spostate in avanti ed eccentriche per essere ben valutate dai commissari d’inizio secolo: il punteggio ottenuto è 30/50, e sappiamo che non gli fece piacere.

Del resto mi chiedo se, trovandoci oggi nella stessa situazione dei commissari padovani, avremmo saputo apprezzare quel testo così ‘strano’ e nuovo; mi domando se l’avremmo considerato un tema eccellente non sapendo chi era quel James Joyce, in assenza cioè della prospettiva su ciò che Joyce è stato e continua ad essere per noi che lo rileggiamo da cento anni – uno sempre un po’ più avanti, mai scontato, mai conformista, sempre lucidamente visionario nonostante il bere e la progressiva perdita della vista.

Joyce non faceva gran conto si sé. Allo psicologo Jung si descrisse come “un uomo di poca virtù, incline alla stravaganza e all’alcolismo.” Negò di avere genio e immaginazione, ma voleva che la sua scrittura diventasse uno specchio per i suoi contemporanei, particolarmente gli irlandesi, perché, fatta piazza pulita di convenzioni e illusioni, potessero conoscere se stessi ed essere più liberi e più vivi. La funzione della letteratura, come la definiscono Joyce e il suo alter ego Stephen Dedalus, è l’affermazione eterna dello spirito umano, sofferente e irridente. Davanti a questo spettacolo, che i suoi testi ci mostrano in dettaglio, possiamo riconoscere le nostre miserie, i nostri sentimenti e risentimenti, piangere, ma anche riderci un po’ su. Possiamo versare quelle che lo scrittore chiamava laughtears – ridacrime.

Un po’ ridendo e un po’ piangendo, noi percorriamo ancora, alla ricerca di senso, molte delle strade aperte da questo irlandese errante, per il quale l’arte è strumento ermeneutico e di liberazione, ma anche gioco e godimento. A distanza di molti anni, possiamo quindi unirci a Richard Ellmann, il grande biografo di Joyce, nell’ammettere che stiamo ancora cercando di comprendere il nostro interprete. Ciò che la riapertura del nostro archivio ci conferma è che stiamo ancora imparando a essere i contemporanei di Giacomo Joyce.

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