La vicenda di Gigi Meroni è una di quelle storie da presentare in pompa magna a tutti quelli che sostengono di non credere nel destino. Una storia romantica, nel senso più tradizionale del termine, una storia malinconica che narra la nostalgia per un calcio che manca a tutti, anche a chi non c’era.
La breve vita di Meroni potrebbe essere riassunta in poche parole: nasce a Como, gioca al campetto, viene comprato dal Genoa dove comincia a incantare, ma è nel Torino del post Superga che fa davvero la storia. Non riesce a sfondare in Nazionale e muore investito da un'auto in un tragico, ancora in senso tradizionale, incidente.
I bignami però non rendono giustizia alla storia, neppure nel calcio. Ed è riduttivo anche parlare di tecnica: Meroni, quando scendeva in campo era pura grazia, sembrava un ballerino e il suo gioco era di una bellezza che gli aveva regalato un soprannome da parte dei tifosi, "farfalla". Un soprannome piuttosto beffardo: si dice che le farfalle durino un solo giorno, o 24 anni, in questo caso. Ma non è stata solo la tecnica a renderlo indimenticabile: di brave ali se ne trovano, ma non tutte fanno scendere in piazza i tifosi, per ben due volte, per scongiurare la cessione. Stiamo parlando di un ragazzo che sapeva farsi amare per ciò che era fuori dal campo, al netto delle sue eccentricità. Un ragazzo fedele a sé stesso, un anticonformista entusiasta troppe volte paragonato a George Best, che invece era genio e sregolatezza, con una vena autodistruttiva distantissima da Meroni, che la vita la amava senza se e senza ma, e che in campo era di una correttezza quasi spiazzante.
Gigi Meroni era un vero anticonformista. E non lo era per lanciare un messaggio politico, o per portare avanti grandi ideali (non era, insomma, il Che Guevara morto pochi giorni dopo di lui), ma semplicemente perché voleva vivere senza nascondersi, senza compromessi né inutile affettazione, rendendo omaggio a ciò che era. Appassionato di arte e di musica, aveva già capito che i Beatles avrebbero fatto strada, e gli piaceva vestirsi un po’ come loro, ma rielaborando gli spunti londinesi. Per questo si disegnava i vestiti, portava i bozzetti a un sarto e li indossava in giro per Como, per Genova e per Torino, senza curarsi dei sopraccigli alzati dei benpensanti. Girava con una gallina al guinzaglio e sgommava, per quanto fosse possibile, su una Balilla con dentro un lampadario.
Alla fine aveva incantato quasi tutti: non per i suoi dribbling, per le giocate che ti ipnotizzavano ogni domenica (perché sì, allora il calcio si giocava solo di domenica). Gigi Meroni incantava gli altri per l'entusiasmo, il candore e la semplicità con cui affrontava il mondo. Non era ingenuo, e neppure particolarmente buono, non sta per partire il ritornello “sono sempre i migliori ad andarsene prima”. Meroni era, più semplicemente ma nemmeno così tanto, una persona curiosa che amava la vita e le sorprese che questa gli presentava ogni giorno. Andava in giro per Genova a intervistare i passanti chiedendo loro cosa pensassero di Gigi Meroni (all’epoca la televisione non era così diffusa, infatti quando gli andava male gli intervistati coglievano solo una vaga somiglianza) e non lo faceva per narcisismo o per deriderli, ma perché lo trovava divertente. Si vestiva in modo eccentrico per l’epoca perché era così che amava vestirsi, scendeva in campo con i baffi e i capelli lunghi perché se se li fosse tagliati non sarebbe stato più lui e forse solo la maglia fuori dai pantaloncini era frutto di vera sciatteria, perché allo stadio contava più il gioco che l'apparenza.
Almeno, se non vuoi andare in Nazionale: Fabbri, che lo voleva sbarbato e con i capelli corti, se lo portò dietro una volta sola, ai disastrosi Mondiali del 66, quando l'Italia viene eliminata dalla Corea e non lo aveva nemmeno fatto andare in campo.
Diverso il rapporto con gli altri allenatori: Santos al Genoa era stato uno dei primi a credere in lui, anche se all'inizio non passava mai la palla. Quando nell’estate del 64 il Genoa sta per cederlo al Torino per 300 milioni di lire e i tifosi scendono in piazza De Ferrari per scongiurare la cessione, Santos era in vacanza. Raggiunto dalla notizia si mise in macchina per dare subito le dimissioni, ma a Genova non ci arrivò mai: morì in un incidente schiantandosi contro un albero, forse perché era troppo arrabbiato per guidare. E poi c'è il burbero Nereo Rocco, con cui senza dubbio Gigi aveva una certa affinità: entrambi si curavano molto poco del giudizio altrui.
Nell’ambiente si dice che Meroni abbia amato una sola donna, Cristiana Uderstadt, che aveva conosciuto poco prima delle sue nozze. Subito dopo il matrimonio lei scappò con lui, e visse more uxorio in una mansarda di Torino, in attesa dell'annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota: uno scandalo per molti e forse l'unico caso in cui il parere degli altri gli dava un po' fastidio, perché coinvolgeva proprio lei.
Non faranno in tempo a sposarsi, però: il 15 ottobre del 67, dopo aver vinto la gara contro la Sampdoria, Gigi viene investito da uno dei suoi più grandi tifosi: si chiama Attilio Romero, ha preso da poco la patente e nel 2000 del Torino diventerà il presidente, fino all'anno del fallimento. Meroni muore poco dopo all'ospedale.
La partita successiva è il derby con la Juventus, la squadra che pochi mesi prima stava per comprarlo. Ma i tifosi del Torino non c'erano stati, erano scesi in piazza (tra loro anche Romero), quelli che lavoravano alla Fiat di Agnelli avevano scioperato e alla fine non se n'era fatto niente. Destino beffardo, se si pensa che, se fosse partito, non sarebbe stato a Torino quel 15 ottobre. Il derby con la Juve si giocò comprensibilmente in un'atmosfera surreale, con i giocatori muti sugli spalti. Un derby che entra nella leggenda, sfidando la razionalità dei detrattori della metafisica calcistica. Meroni glielo aveva detto a Combin: "Segnerai tre gol contro la Juve", e lui lo fa. Il gol del 4-0 lo segna un ragazzino che parte dalla panchina: si chiama Carelli e indossa la maglia numero 7. Quella di Meroni.
Forse è vero, le farfalle vivono un solo giorno. Ma che giorno, ragazzi, che giorno!