CULTURA

Nereo Rocco l'eroe di un calcio che non c'è più

Sono passati 40 anni dalla morte di Nereo Rocco, per certi versi uno dei personaggi chiave del calcio italiano, tanto che viene ancora definito "l'inventore del calcio moderno". Sono anche in molti a dire che ha inventato il catenaccio, quello su cui altrettanti sputano sopra ma che è saltato fuori su uno striscione anche in quell'epica Italia-Olanda del 29 giugno 2000: l'Italia conquistò la finale degli Europei ai rigori (fu il miracolo di Francesco Toldo), contro un'Olanda decisamente più forte, oltre che padrona di casa: il tanto bistrattato catenaccio, a quanto pare, aveva ancora i suoi estimatori.

In realtà Nereo Rocco non lo aveva inventato di sicuro: al limite, lo aveva importato dalla Svizzera. Quello schema, con l'uomo in più in difesa, lo utilizzavano in molti, ma evitavano di dichiararlo. Non sia mai che poi passi alla storia come l'allenatore che chiude la porta, come è successo al nostro Nereo. E invece Rocco un po' se ne vantava, non del catenaccio in sè, ma della schiettezza: "Solo noi femo el catenacio, i altri fa calcio prudente!"
Che poi un conto era allenare il Padova, che era una squadra di provincia che lottava per la salvezza (l'anno dopo, nel 1955 fu addirittura promossa in serie A): per avere tre attaccanti bravi da schierare titolari ci vuole il budget, se non ce l'hai aggiungi il libero e incroci le dita. Al Milan, però era tutta un'altra storia: non fai catenaccio se davanti hai Rivera, Altafini e Chiarugi.

La storia la si sa: Rocco era nipote di un Roch, che per poter lavorare era stato costretto a fare la tessera del partito fascista. Il cognome austriaco non andava bene, e quindi voleva modificarlo in Rocchi, ma la dipendente dell'anagrafe sbagliò a scrivere, così i posteri rimasero con l'eterna domanda senza risposta: Nereo Rocco suona davvero meglio o ci siamo solo abituati? Perché quando si legge la sua storia ci si può sentire suoi amici, o suoi nipoti, senza averlo mai conosciuto. Senza peli sulla lingua, credeva che il triestino fosse una lingua universale, tanto che era dichiaratamente seccato di dover parlare in italiano con lo svedese Nils Liedholm che aveva l'ardire di non capirlo. E anche con la stampa non dava il meglio di sé: spesso nelle interviste si nota lo sforzo di parlare in italiano, e ci si rende conto che si sentiva imbrigliato in una lingua che non era la sua. Rocco era un allenatore da osteria, uno che le cose non le mandava a dire, con uno stile che era l'opposto del rivale di sempre, Helenio Herrera. Vederli vicini era come trovarsi impelagati in un pranzo a base di caviale e soppressa, il mago da una parte e il paròn dall'altra.

Perché Rocco, come tutti i personaggi che rimangono nel cuore, aveva le sue idiosincrasie: non voleva essere chiamato mister, semmai "signor Nereo Rocco", e per questo era stato soprannominato Paròn. Quando doveva affrontare una squadra più forte della sua e l'allenatore avversario se ne usciva con il classico augurio "vinca il migliore" non si faceva certo scrupolo a rispondere "speremo de no". Con Trieste poi aveva un rapporto molto particolare: da una parte la amava e non riusciva a starci lontano, dall'altra si faceva esonerare e doveva cercare altri lidi calcistici. Si racconta che quando fu chiamato al Padova che stava per retrocedere, la condizione per accettare la sfida fu una: "Se mi date la casa, più un tanto al mese e mi lasciate tornare a Trieste tut­te le settimane senza creare problemi, posso anche venire a tentare di salvare la barca. Però non prometto niente; per il futuro vedremo".

Il futuro, non quello di Nereo ma il nostro, è oggi. Quello di Nereo Rocco è un calcio per nostalgici, un calcio che i giovani di oggi probabilmente non capirebbero. Dopo la sua morte è stata la volta del calcio totale, del calcio spettacolo, del calcio strapagato di Cristiano Ronaldo e dei diritti televisivi che comandano il calendario. In questo calcio cos'è rimasto di Nereo Rocco? Poco, o forse moltissimo: i ricordi di quelli che lo hanno conosciuto, il rispetto degli avversari con un fegato più sano e tanti bicchieri in meno, il figlio Tito che racconta che, in punto di morte, il padre gli ha detto: "Dame el tempo", come se fosse una partita, purtroppo l'ultima. E poi ci sono lo stadio di Trieste che porta il suo nome, come la via dello stadio Euganeo a Padova, e poi la statua a Milanello con cui Rino Gattuso ha confessato di andare a parlare nei momenti di difficoltà: contento lui… di sicuro Rocco lo apostrofa dall'Aldilà esattamente come apostrofava tutti quando era in vita, con il suo classico e pittoresco "mona".

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