SOCIETÀ

Giornata mondiale dell’alimentazione: cosa si muove in casa FAO?

Ci risiamo, puntuale ogni anno il 16 ottobre la FAO celebra il World Food Day. Un’edizione un po’ particolare, quella di quest’anno, che fa i conti con l’impatto della pandemia e che al contempo allarga lo sguardo ragionando per la prima volta di intero sistema agroalimentare con diversi attori e ruoli e responsabilità. Una pandemia, meglio dirlo subito, che ha avuto tra gli altri il terribile effetto di aumentare per la prima volta, da anni, in modo consistente il numero di persone che non mangiano a sufficienza sulla terra. Secondo lo State of Food Security and Nutrition in the World pubblicato a luglio scorso, circa 811 milioni di persone, quasi un decimo della popolazione mondiale, sono sottonutrite. Erano 720 milioni un anno prima. Il che si traduce, secondo le Nazioni Unite che curano assieme ad altre organizzazioni il rapporto, nel fatto che sarà impossibile raggiungere l’obiettivo di fame zero per il 2030, quando si stima ci saranno ancora più di 660 milioni di affamati, 30 milioni in più dello scenario prepandemico.

Più di metà dei sottonutriti, 418 milioni, stanno in Asia. Un terzo, 282 milioni, in Africa e una parte più piccola ma pur sempre significativa, 60 milioni di esseri umani, una intera Italia, soffrono la fame in America Latina. La crescita più feroce però si è avuta in Africa dove a soffrire la fame è ora il 21% della popolazione, una persona su cinque, il doppio di qualsiasi altra regione della terra. Non bastano questi numeri. Mettiamone altri: 2,3 miliardi di persone, una su tre abitante sulla terra, non ha sicurezza alimentare, e cioè non ha accesso garantito e continuativo a cibo di qualità. Sono 150 milioni circa i bambini sotto i 5 anni danneggiati dalla sottonutrizione in modo permanente, cresciuti e sviluppati in modo insufficiente; più di 45 milioni sono troppo magri e circa 40 milioni invece sono in sovrappeso (spesso associato a una alimentazione di pessima qualità più che alla quantità). Circa 3 miliardi di persone, in totale, mangiano male e non hanno accesso a cibo nutriente e di alta qualità per motivi economici. Insomma, nel complesso, la situazione nutrizionale nel mondo rimane molto lontana dai famosi obiettivi di sviluppo sostenibile, gli SDGs, che le Nazioni Unite si sono date per il 2030 (vedi il video qui sotto con la descrizione di tutti i 17 SDG).

Ne abbiamo parlato molto spesso qui su Il Bo Live. La produzione alimentare non è certamente una pratica che possa essere gestita solo da un punto di vista tecno-scientifico. Ci sono in gioco moltissimi livelli diversi e qualsiasi ragionamento deve fare i conti con aspetti produttivi, scelte politiche, organizzazione e interessi economici e naturalmente molto, moltissimo, con la crisi ambientale e climatica e con le necessità sociali e culturali espresse dalle diverse comunità e con le risposte che queste stesse comunità provano a dare all’esigenza, fondamentale, di produrre cibo sano per tutti senza distruggere il pianeta. Non basta dunque produrre di più, ma è necessario produrre meglio, rendere accessibili i mezzi della produzione anche alle piccole comunità rurali, ridurre il controllo del mercato da parte di pochissimi grandi attori, tipicamente immense aziende che ormai controllano intere filiere e che fungono da collo di bottiglia e da blocco per molte innovazioni più locali, di piccole filiere e di realtà meno industriali. È necessario diversificare, valorizzare e proteggere la biodiversità e ridurre lo sfruttamento intensivo del suolo. È necessario considerare le necessità anche culturali oltre che colturali che vengono espresse dalle comunità rurali, perché non è giusto immaginare che se si è poveri si debba essere costretti a coltivare e mangiare qualunque cosa senza poter scegliere. È necessario ragionare in modo molto onesto sull’impatto delle filiere agroindustriali sia sulle emissioni e dunque sulla crisi climatica che sullo spreco, enorme e davvero vergognoso se pensiamo a quel 30% del cibo prodotto e non consumato ogni anno. Insomma, siamo ben lungi dal poter immaginare che la risposta all’urgenza del problema alimentare sia solo nell’innovazione tecnologica, nella scienza applicata in campo e magari proprio in quello stesso sistema agroindustriale che a oggi è tra i principali responsabili del degrado ambientale associato all’agricoltura e dell’aumento netto delle disuguaglianze tra small farmers, i cosiddetti piccoli agricoltori, e immense corporations ben poco sensibili e preoccupate rispetto ai mali del mondo. Detto ciò, e dunque senza affatto la pretesa di trovare un’unica soluzione che funzioni ovunque e in tutte le situazioni, vale la pena evidenziare almeno due iniziative messe in campo dalla FAO che potrebbero, se ben governate, dare qualche opportunità e risposta.

La FAO, che ha un nuovo direttore eletto due anni fa, QU Dongyu, sta rinnovando in modo abbastanza radicale la propria struttura organizzativa, con una chiamata molto chiara a tutti: è solo guardando al sistema nel suo complesso che possiamo immaginare una evoluzione per una agricoltura sicura e con un minore impatto ambientale. In questo contesto, l’organizzazione sta adottando uno Strategic Framework che dovrebbe entrare in vigore l’anno prossimo e rappresentare una guida per il decennio successivo. Sviluppato attraverso una ampia consultazione non solo dei paesi membri ma anche di molti partner esterni, il Framework mira a rendere sempre più attuabili gli SDGs, rendendo i sistemi agroindustriali migliori in quattro aree. Con lo slogan “the four betters”, e nello specifico intendendo better production, better nutrition, better environment e better life, la FAO punta a dare un contributo più concreto a tre SDG: l’SDG 1, e cioè l’eliminazione della povertà; l’SDG 2 (fame zero) e l’SDG 10, sulla riduzione delle disuguaglianze.

Villaggi digitali in Asia

Diversamente da alcune prese di posizione alquanto ingenue che ritroviamo soprattutto espresse da una parte della comunità scientifica nostrana, la FAO sembra aver sviluppato nel corso dell’ultimo decennio una maggiore attenzione alla necessità di dover sperimentare e sostenere diverse strategie non opponendole l’una all’altra ma scegliendo, in base alle condizioni economiche, sociali, ambientali, culturali e dunque alle realtà locali diversificate che stanno dietro i diversi sistemi agricoli. Si parla di agroecologia, di diversificazione delle filiere, di ricerca e innovazione applicabile su larga scala ma anche, in molti casi, capace invece di rispondere a esigenze locali molto particolari. Si parla di restoration land, con iniziative mirate a recuperare la vitalità e la fertilità degli ecosistemi biodiversi, un approccio che è esattamente il contrario delle monocolture protagoniste dell’agricoltura convenzionale. E poi, tra le altre cose, si parla di infrastrutture che potenzino anche le piccole realtà rurali. 

Ecco dunque la Digital Village Initiative, che parte come pilota nella regione asiatica e punta a sfruttare la già avanzata digitalizzazione dell’area grazie all’apporto di paesi come la Corea, il Giappone, la Cina e l’India. Frutto di una collaborazione pubblico-privata, l’iniziativa ha come obiettivo quello di costruire una rete digitale che connetta e favorisca la collaborazione tra villaggi, tra agricoltori piccoli e meno piccoli, tra tutti i diversi attori dei processi produttivi e trasformativi in ambito rurale. Seguendo quanto previsto dall’SDG 9, sullo sviluppo di infrastrutture innovative, la Digital Village Initiative guarda alla rete Internet come facilitatrice di processi e di connessioni e anche come strumento chiave nella gestione sostenibili, attraverso lo scambio di dati e conoscenze, la condivisione di informazioni e la costruzione di mercati virtuali che possono essere di grande interesse anche per le comunità rurali. La disintermediazione può portare con sé grandi benefici: elimina il cappio rappresentato da intermediari disonesti, e addirittura può favorire un sistema distribuito rispetto a una filiera in cui solo pochi attori riescono a controllare tutto il mercato. Ovviamente, aggiungiamo per completezza, è poi necessario capire chi gestisce le infrastrutture digitali e quali sono ad esempio i protocolli di raccolta e condivisione dei dati. Ma di per sé l’idea di una digitalizzazione più intensa dei contesti rurali è indubbiamente una opportunità cui guardare con una certa attenzione. Chi scrive ha potuto raccogliere esperienze molto positive in campo da comunità rurali in diversi paesi africani, dal Senegal all’Etiopia al Sudafrica dove, grazi all’accesso digitale sia ai mercati non necessariamente di prossimità così come a sistemi di pagamento online, alcune comunità che erano del tutto isolate fino a meno di dieci anni fa si sono svincolate dal rapporto controverso e poco trasparente con diversi intermediari che non davano spazio di contrattazione. 

Dati e progetti mano nella mano

La logica di sviluppare piattaforme digitali sta dietro anche l’iniziativa, sempre di casa FAO, definita Hand in hand. Si tratta sostanzialmente, anche in questo caso, di una grande piattaforma digitale, una infrastruttura che integra database di diversa provenienza e software di modellizzazione geospaziale per fare una analisi molto puntuale delle situazioni più povere, disagiate e difficili dal punto di vista dello sviluppo rurale. 

Sulla piattaforma è possibile esplorare e mettere insieme, visualizzandoli su base satellitare e dunque avendo un colpo d’occhio su tutto il pianeta ma anche una visione locale e puntuale ad altissima definizione nei luoghi di interesse, tutti i dati di casa FAO già consultabili sulla piattaforma FAOSTAT ma resi più integrati e immediatamente comprensibili con i database di altra provenienza, come quelli delle diverse organizzazioni che monitorano lo stato delle risorse idriche, delle foreste, della fertilità del suolo, i parametri demografici, le infrastrutture come strade, porti e via dicendo, i mercati. Insomma, la piattaforma è una specie di grande mappamondo interattivo, una google earth ma arricchita di tutti i dati scientifici, economici, ambientali, sociali necessari a capire lo stato reale dei diversi paesi e regioni della terra. 

Questa analisi non dovrebbe rimanere fine a se stessa a scopo descrittivo. Sempre grazie a questa piattaforma, dovrebbe infatti integrarsi con le conoscenze utili ricavate dai vari studi scientifici, per dare indicazioni evidence-based utili a definire interventi di sviluppo efficaci. Infine, la condivisione di queste conoscenze dovrebbe facilitare la nascita di collaborazioni e iniziative di cooperazione (matchmaking) che mettano a disposizione risorse e competenze, scientifiche tanto quanto organizzative, commerciali e di policy, per creare partnership tra le comunità dei paesi più svantaggiati e le realtà più ricche e avanzate sotto il profilo dello sviluppo rurale. 

Secondo quanto descritto sul sito dell’iniziativa, la Hand in hand initiative è dunque una mossa coraggiosa evidence-based, country-led e country-owned per accelerare la trasformazione agricola necessaria al raggiungimento degli SDG 1 e 2. La fase pilota include tre paesi ad alto tasso di povertà e difficoltà, come lo Yemen, l’Etiopia e Haiti. L’obiezione immediata è, naturalmente, che questi paesi non hanno solo un problema di povertà e sviluppo rurale insufficiente. Si tratta di paesi che vivono anche situazioni di conflitto interno, problemi di governabilità e corruzione, instabilità politica se non di vere e proprie derive autoritarie. Dunque, la scelta di dare il coordinamento di queste iniziative a istituzioni così fragili e spesso addirittura perlomeno corresponsabili delle situazioni di disuguaglianza e crisi delle proprie popolazioni rischia di essere controproducente. Insomma, non è detto che le comunità rurali riescano a trarne direttamente un vantaggio. Ma è evidente che questa è l’unica strada percorribile da una organizzazione internazionale come la FAO. 

Lo ripetiamo dunque, a scanso di equivoci. La digitalizzazione, così come qualsiasi altra iniziativa innovativa o meno, presa da sola, non servirà a fare alcun passo avanti. Ma è certamente un approccio che può avere dei risvolti interessanti perché, come in molti altri casi, l’accesso alle risorse digitali può sbloccare iniziative nuove, messa in comune di risorse e magari anche una certa creatività nella costruzione di progetti e di reti attive capaci di cercare delle risposte ai propri problemi. E in ogni caso, è benvenuta una iniziativa che prova a usare la grande quantità di dati prodotti fornendo una strada di lettura integrata e utile che può dare almeno alcune risposte concrete e attuabili. 

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