Alessio Figalli, laureato a Pisa frequentando la Scuola Normale, ha vinto qualche settimana fa la Medaglia Fields, che i matematici considerano un riconoscimento a livello del Premio Nobel. Con una differenza: la Medaglia Fields viene assegnata a matematici che hanno meno di 40 anni. Alessio Figalli di anni ne ha 34 ed è dunque un giovane.
Pochi giorni fa la rivista scientifica inglese Nature ha eletto due italiani - Silvia Marchesan, dell'Università di Trieste, e Giorgio Vacchiano, dell’università Statale di Milano, tra gli 11 giovani emergenti della scienza mondiale.
Ancora: un paio di mesi fa sono stati 42 i giovani italiani che hanno vinto un Starting Grant dello European Research Center (ERC), con relativo generoso finanziamento. Solo i tedeschi hanno fatto meglio con 73 premiati: ma in Germania il numero di ricercatori è molto più ampio di quello italiano. Se si divide il numero dei premiati per il numero di ricercatori, i giovani ricercatori italiani risultano primi in assoluto.
Queste tre recentissime notizie dimostrano che i giovani ricercatori italiani sono bravi. Talmente bravi da confrontarsi con il resto del mondo ed emergere. Per fare un esempio, la Gran Bretagna – che pure vanta due tra le più accreditate università del pianeta da anni in testa ai più svariati ranking internazionali – di vincitori di Starting Grants ERC ne ha vinti solo 22: la metà degli italiani.
Certo, i due terzi dei giovani italiani – 27 su 42 – il loro budget lo andranno a spendere all’estero e solo in 15 lo spenderanno in Italia. Mentre il Regno Unito ospiterà ben 67 Starting Grant: oltre i due terzi saranno stranieri. Detta in altri termini, gli italiani sono bravi ma fuggono all’estero. Gli inglesi sono un po’ meno bravi, ma i giovani di tutta l’Europa corrono in Inghilterra perché lì trovano una collaudata capacità di accogliere le eccellenze.
Ma resta il fatto: l’Italia forma giovani ricercatori di grande classe e capacità. Giovani eccellenti. E dove si formano, questi giovani brillanti? Beh, è chiaro nelle università e nelle scuole italiane.
Il che sfata un primo luogo comune: non è affatto vero che il sistema educativo italiano è inefficiente. Al contrario è straordinariamente efficiente. Più efficiente di quello di altri paesi, almeno nel formare giovani di talento. Questo è un grande titolo di merito.
Un titolo di merito che diventa un vero e proprio paradosso rispetto a due fattori relativi sia alla scuola che all’università italiane. Il primo è l’immagine che del nostro sistema educativo – secondario e terziario – ne danno i media e non solo i media: di luoghi dell’inefficienza, dove gironzolano professori fannulloni il cui unico impegno è confrontarsi con genitori bulli e ragazzi intenti solo a compulsare cellulari. Non è affatto così. Questa immagine mediatica (e, ahinoi, non solo mediatica, perché corroborata talvolta da improbabili analisi tecniche) è completamente sbagliata. I dati oggettivi ci dicono che l’Italia vanta uno dei migliori sistemi di formazione al mondo. Sistemi che consentono ai vari Figalli, Marchesan, Vacchiano e a tantissimi altri di emergere nella competizione mondiale dei cervelli.
Il secondo fattore paradossale è che questo sistema educativo così efficace è ampiamente sotto finanziato. La nostra scuola e la nostra università sono tra quelle, in ambito europeo e OCSE, che ricevono meno finanziamenti pubblici e privati. Le strutture sono spesso fatiscenti. I docenti sottopagati. Eppure il livello di formazione resta elevatissimo.
Un miracolo.
Le domande a questo punto sono due. Primo: fino a quando potrà continuare questa miracolosa asimmetria? Fino a quando riusciremo a celebrare magnifiche nozze avendo a disposizione solo fichi secchi?
La seconda domanda è: non sarebbe il caso di aumentare gli investimenti nella scuola, nell’università e nella ricerca per continuare a formare giovani di altissimo livello, per consentire loro di restare in Italia (se lo vogliono) e di attrarre altri giovani valenti stranieri (come fa l’Inghilterra)? Non sarebbe questo l’investimento strategico per tirare fuori l’Italia dalla sua ormai trentennale crisi economica?