CULTURA

La guida all’uso delle parole di De Mauro ha 40 anni: anche le parole migrano

Prima che termini il 2020 è opportuno riprendere in mano un vecchio libro, firmato da un autorevole linguista scomparso ormai quattro anni fa (il 5 gennaio 2017). Il grande comune maestro Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 1932 – Roma, 2017) pubblicò per la prima volta la Guida all’uso delle parole nel 1980, un testo ancora oggi indispensabile a chiunque parla e scrive in italiano, qualsiasi cosa dica o firmi, rivolto a qualsiasi altro, in qualsiasi forma si esprima: lettera articolo saggio racconto poesia lirica barzelletta messaggio post tweet. Per certi versi riguarda probabilmente anche i silenzi e le pagine bianche, non voler parlare o evitare di scrivere costituiscono comunque narrazioni letterarie in determinati contesti relazionali, da ponderare e curare, ognuno a proprio modo (proprio del comunicante, proprio dei comunicati, proprio dello strumento). 

Incipit: “Parlare non è necessario. Scrivere lo è ancor meno. Per milioni di anni gli antenati degli esseri della specie umana hanno vissuto sulla Terra gridando come gli altri animali, ma senza parlare… Per centinaia di migliaia di anni esseri molto simili alle donne e agli uomini di oggi hanno vissuto senza parola. Essi sapevano camminare su due gambe. Avevano, cioè, la ‘stazione eretta’. Come noi, mangiavano già cibi di natura varia e usavano materiali per costruire strumenti. Quasi certamente non parlavano. Poi comparve la parola. Dopo di allora passarono certamente decine e decine di migliaia di anni. Finalmente i lontani discendenti sentirono il bisogno di fissare, di far durare in qualche modo le parole che fino ad allora erano state solo dette e udite.” Seguirono le prime scritture su pietra, tavolette di argilla, legno, poi la lenta marcia verso la conquista dell’alfabeto, mai conclusa visto che l’analfabetismo è rimasto sempre molto diffuso. Negli anni settanta del secolo scorso, circa cinquanta anni fa, “non si va lontano dal vero calcolando che almeno uno ogni tre italiani non sa né scrivere né leggere. Eppure, in Italia, come nel Terzo Mondo, coloro che non sanno scrivere sopravvivono e vivono. Anzi, molto spesso, poiché sono più sfruttati degli altri, contribuiscono più di altri alla vita economica delle società nei paesi capitalistici. Dunque, scrivere non è necessario. E anche del parlare si può fare spesso a meno.” Siamo spesso ammirati della profondità di pensieri senza parole. “Ma lo conosciamo solo perché qualcuno lo ha scritto e aveva a disposizione le parole. Senza le parole nessuno e niente, né saggi, né poeti, né proverbi, potrebbe lodare il silenzio. E nemmeno questo capitolo avrebbe potuto cominciare ricordando che parlare non è necessario”.

Chiusa: “Sul terreno particolare del come costruire le frasi, ancora una volta si è potuto vedere che quello del parlare e dello scrivere è il regno della libertà. Non facciamoci mai spaventare da chi pretende di imporre vincoli dall’esterno al nostro esprimerci, da chi stende liste di parole di modi di dire accusati di questa o quella colpa: origine straniera, eccessiva popolarità, dialettalità, colloquialità. La sola regola nel modo della comunicazione con parole è data dagli altri coi quali comunichiamo. La sola vera regola è verificare la capacità che una parola o una frase ha di trasmettere a interlocutori e ricettori determinati il senso che con essa volevamo trasmettere”. Dunque, pensiamo bene perché e a chi vogliamo esprimere qualcosa. “Chinarsi a riflettere umilmente su quel che si è scritto, sorvegliare quel che si viene dicendo, mettersi, in entrambi i casi, dalla parte del lettore, dalla parte dell’ascoltatore, dalla parte degli interlocutori: in altri paesi questo è un costume tecnico consolidato. In Italia, siamo agli inizi. Ma abbiamo il previlegio di poter fare di ciò, oggi, una parte importante delle lotte per migliorare costume morale e vita intellettuale della nostra società”.

Il formato è piccolino, il saggio è breve, si tratta di 145 pagine senza appendici, 175 con le appendici. Riporto anche i titoli dei 23 capitoli, dicono molto: Parlare non è necessario; Le parole non sono tutto; Le parole e gli altri segni; Che cosa è un segno e come è fatto; I linguaggi della certezza; I linguaggi del risparmio; Il gioco delle parti; I linguaggi dell’infinito; I linguaggi per risolvere problemi; Il filosofo e Pulcinella; Il linguaggio creativo; Siamo tutti (un po’) ‘creativi’…; Elogio dell’imitazione; La flessibilità delle parole; Kant, la contadina e le parole; Gli ordini delle parole; Il linguaggio ‘interiore’ ed ‘esteriore’ e gli stili collettivi; Le condizioni esterne dei discorsi; La scelta delle parole; Parole per farsi capire; Frasi per farsi capire; Conclusione: dalla parte dell’interlocutore. Nel corso della trattazione, dietro ogni angolo trovate foto, vignette, simboli, riquadri, tabelle, mappe, elenchi, lunghi consecutivi paragrafi in carattere più piccoli. Esplicativi. Niente note o citazioni, l’ordine del discorso è piano e autorale. E, come si vede, vi sono molti riferimenti alla semiologia oltre che alla linguistica e all’evoluzione.

La parte solo da usare è la prima appendice, potete non leggerla, non dovreste prescinderne se volete parlare o scrivere, sono poche pagine: “Il vocabolario di base della lingua italiana” contiene ovviamente solo i lemmi, non le definizioni. Ogni lingua ha un vocabolario fondamentale, pure l’italiano, quello che approssimiamo ogni volta. Si tratta dei vocaboli che chi parla una lingua ed è uscito dall’infanzia conosce, capisce e usa, noti alla generalità dei cittadini che abbiano fatto studi elementari. Sono le parole di massima frequenza nel parlare e nello scrivere e disponibili a chiunque in ogni momento, sempre che beninteso conosca l’italiano. Con metodo scientifico e apporti plurali, De Mauro e i suoi collaboratori isolarono le 2000 parole fondamentali che si possono ragionevolmente ritenere capite e comunemente usate dal 76% della popolazione italiana di allora. Ovviamente, ognuno di quei tre quarti d’italiani conosceva migliaia e migliaia di altre parole. Ma le conosceva solo insieme a quelli della stessa classe sociale o della stessa regione o dello stesso mestiere o, perfino, della stessa e sola sua famiglia. L’appendice le elencava insieme ad altre quasi 5000 parole non fondamentali ma “di base”, tutte insieme minimo comun denominatore da costruire per cittadini che avessero fatto anche le medie inferiori, o usate con maggiore frequenza in un campione di testi italiani scritti (non stanno necessariamente nei nostri pensieri ma stanno nell’uso di tanti nostri concittadini) o legate a oggetti, fatti, esperienze ben noti a tutte le persone adulte nella vita quotidiana (stanno nei nostri pensieri anche se non le utilizziamo quasi mai).

Se vogliamo giocare a capirsi, a farci capire e a capire, meglio considerare quell’elenco ogni volta che apriamo bocca e prendiamo penna (o tastiera), ogni volta che ascoltiamo altri e leggiamo carte (o schermi). Ovviamente possiamo usare tutte le altre parole che possiamo e vogliamo, che pensiamo ci servano a comunicare, solo che dobbiamo ricordarci di definirle sinteticamente. Oppure, possiamo tentare di inventarne: una lingua, frasi e parole, non rispettano l’assioma di non-creatività, ogni giorno possono nascere parole nuove, sparire parole usate fino ad allora, riapparire parole dimenticate. Anzi, più ne scoviamo meglio è, talvolta proprio cercando la definizione impariamo anche noi a usarle meglio. E possiamo giudicare lo stile e la comunicativa di altri che parlano e scrivono, proprio verificando se sono attenti alle parole di base e fondamentali e chiariscono cosa intendono quando fanno ricorso ad altre. Così, De Mauroconsiderava essenziali gli apparati di accompagnamento al testo del saggio. Sollecitava sempre a mettere consigli di “altre letture” (una bibliografia selezionata) e l’indice dei nomi propri citati. Nel suo i più citati sono: Wittgenstein, cinque volte, Alighieri, quattro, e Leopardi, tre, per la rilevante capacità di imitare e ripetere, per la ricerca di parole chiare anche sull’incerto e per il sofferto isolamento. Aggiunse inoltre una seconda appendice al suo libro: “l’indice dei termini definiti”, in ordine alfabetico le parole e le locuzioni che aveva usato non appartenenti al vocabolario di base, con accanto la pagina dove ne aveva spiegato il significato. Nel caso del suo libro si tratta soltanto di un centinaio di altri vocaboli, l’intero testo era costruito esattamente e preliminarmente per parlare e scrivere in modo semplice e preciso Ah, lo facessimo tutti!

Siamo a fine 2020, l’uso attuale dell’ottima guida e del meraviglioso vocabolario di De Mauro va fatto criticamente, non ciecamente. Faccio un solo esempio, soprattutto perché allude a temi ricorrenti in linguistica: lo slittamento semantico; la sincronia e la diacronia; la creatività nel pensare e parlare oltre che nello scrivere; la migrazione delle parole all’interno della stessa lingua, da e verso altre lingue (o dialetti). Nel 1980 De Mauro non inserì nel suo vocabolario di base, composto di 6690 parole, elaborato poco più di quaranta anni fa, i lemmi migrare e migrante. Non c’erano nemmeno “immigrare” e “immigrato”, tuttavia venivano contemplate “emigrare” ed “emigrante” (non fra le 2000 parole di maggiore uso). Forse, sulla base degli stessi criteri scientifici e pratici, oggi “migrare” continuerebbe a essere assente, sarebbe necessario sostituire solo il prefisso della radice e inserire “immigrare”: nella percezione e nell’uso diffusi il fenomeno migratorio si riassume solo con le immigrazioni, mentre nei decenni dopo la seconda guerra mondiale la dinamica sociale ed economica che più interessò l’Italia furono le emigrazioni, interne e internazionali. Il linguaggio non è mai neutro. Trovare parole precise è un dovere democratico.

L’esatta indicazione bibliografica è: Tullio De Mauro, Guida all’uso delle parole, Editori Riuniti Roma 1980. Dopo di allora sono seguite ristampe e varie successive edizioni. L’ultima è del giugno 2003, la XII°, e contiene una lucida mirabile postfazione dell’autore, oltre al consueto aggiornamento lessicale (circa 7300 parole di base). Infine, l’anno scorso il volume è stato meritoriamente ripubblicato nell’edizione 2003: Tullio De Mauro, Guida all’uso delle parole, Laterza Bari 2019, pag. 233 euro 15. Per inciso, nel testo che potete trovare in libreria ci sono le parole “emigrazione” e “immigrato”, una delle possibili meditate evoluzioni linguistiche. Riandiamo ora puntigliosamente alla prima edizione: l’intera collana, nella quale si inseriva come terzo titolo, si chiamava “Libri di base”, ispirata a un’esperienza editoriale francese, avviata nel 1979, diretta dallo stesso De Mauro, e applicava gli stessi principi del vocabolario all’intera divulgazione scientifica e umanistica. Il responsabile e i redattori avevano cioè convinto tutti gli autori dei volumi della collana a usare liberamente qualsiasi delle 6690 parole previste e, poi, a definire in breve ogni altra parola che eventualmente avessero deciso di usare. La collana era articolata in otto sezioni tematiche con diverso colore di copertina: 1. Il mondo: l’universo, gli ambienti, i paesi; 2. La storia: epoche ed eventi; 3. La donna, l’uomo: il corpo, mente e funzioni; 4. Arti e comunicazioni: linguaggi e tecniche espressive (la Guida all’uso delle parole ne era il primo titolo, colore distintivo rosso); 5. Economia e lavoro: organizzazione e tecnologie; 6. La società: istituzioni e forze politiche e sociali; 7. Il sapere: scienze e campi di ricerca; 8. Classici, testi, documenti, biografie. Fra le appendici era previsto, in genere, anche un glossario per le definizioni più lunghe e significative oppure un repertorio biografico delle personalità studiate. Prima o poi bisognerà rimettere al centro dell’educazione linguistica e civica primaria lo straordinario contributo di De Mauro e rivalutare un’impostazione metodologica ancora condivisibile e fertile.

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