SOCIETÀ
"L'amore non basta": l'autobiografia collettiva di un uomo rivoluzionario
I dubbi, le inquietudini, la paura sono sentimenti insiti nell’uomo. Anche chi spende la vita per gli altri, chi è un costante punto di riferimento, dentro di sé coltiva quotidianamente il dubbio. E’ proprio questo forse quello che fa andare avanti, fa realizzare delle cose che spesso sembrano impensabili. “L’amore non basta” è un’autobiografia “collettiva” di don Luigi Ciotti, un uomo e un sacerdote fuori dal comune. Dall’infanzia passata tra Pieve di Soligo e Torino fino all’importanza del dire i nomi, nel libro si ripercorre l’intera esistenza di don Luigi Ciotti, fatta di abnegazione ma anche di una visione lungimirante, dai 55 anni del Gruppo Abele fino alla fondazione, 25 anni fa, di Libera.
“ Per occuparsi degli altri, l’amore è base fragile. Occorre il sentimento di giustizia, un'empatia per le vicende umane, sentire sulla pelle le ferite degli altri che impedisce l’indifferenza, il giudizio, il pregiudizio, frutti velenosi dell'ignoranza Don Luigi Ciotti
La nascita del Gruppo Abele
Una storia che parte dal difficile dialogo con Mario, che ha insegnato a don Luigi Ciotti la perseveranza della gentilezza, alla voglia di fare qualcosa per gli altri. Una missione che nel 1968, in un’Italia in sommovimento culturale e sociale, l'ha spinto a organizzare il suo lavoro all'interno di un'associazione. Nasce infatti il Gruppo Abele, che prende il nome da una trasmissione televisiva firmata da Sergio Zavoli ed intitolata “I Giardini di Abele”, con un chiaro riferimento biblico in cui don Luigi Ciotti si è sempre ritrovato. Dalle prime esperienze in carcere e dalle prime piccole ospitalità all’interno della sede del Gruppo nacque anche l’idea della comunità. Anche in questo caso il tutto iniziò con piccoli passi tra mille difficoltà ed allusioni. Ne è riprova un fatto raccontato nel libro. Inizialmente la comunità erano due modesti appartamenti, uno maschile ed uno femminile, situati all'interno di un condominio con altri appartamenti privati. Un appartamento di sole giovani donne però, creò immediatamente falsità sul reale obiettivo del progetto. I condomini ben presto pensarono che quella fosse una casa di appuntamenti ed una notte la polizia fece irruzione, convinta di trovarsi di fronte a qualche reato. Di fronte a loro però i poliziotti trovarono solamente delle ragazze assonnate ed impaurite. Il tutto si risolse quando, poco dopo, fu il vescovo Pellegrino (figura molto presente nella vita di don Luigi Ciotti) a ripercorrere le scale fatte dalle forze dell'ordine qualche settimana prima, salendo rumorosamente per farsi vedere dai condomini e far capire la reale natura del progetto senza che nessuno potesse malignamente cercare di mettere in giro false dicerie.
L’impegno del Gruppo Abele però divenne ben presto anche politico, nel senso nobile del termine. Il lavoro stava diventando sempre più ampio e collettivo e questo però doveva anche rapportarsi con la dimensione personale della fede. Dopo un confronto schietto tra tutti i partecipanti, nel 1970, prevalse la ragione collettiva e, anche grazie a quest’apertura, il Gruppo Abele negli anni successivi divenne un’avanguardia per tante battaglie sui diritti delle persone in Italia, a partire dal primo manifesto programmatico del gruppo, uscito nel 1971, che, nonostante i suoi quasi 50 anni, sembra più attuale che mai. "Le attività del Gruppo Abele si sono sempre ispirate all’impostazione di Basaglia e altri grandi esponenti dell’impegno a fianco degli esclusi - scrive Luigi Ciotti nel libro -. La cultura della reciprocità, della parità fra la persona in difficoltà e chi gli si affianca come terapeuta. Ci si “salva” insieme, perché insieme si cambia e si cresce".
“Secondo la nostra esperienza le cause dell’odierna forma di disadattamento vanno anche ricercate nelle strutture e nel costume della società. La complessità del sistema sociale, incomprensibile e spersonalizzante, e del lavoro, in genere alienante e di scarsa soddisfazione personale, rendono il mondo adulto estraneo al giovane, togliendogli lo spazio per realizzarsi come persona e come membro attivo della società... Certi interessi economici gli inculcano modelli di vita, tendenze e bisogni che non sono affatto autenticamente suoi, da cui non può liberarsi e che gli impediscono di maturare”.
La Costituzione ed il Vangelo
Un prete rivoluzionario don Luigi Ciotti, che affianca al Vangelo la Costituzione in un unicum “tra la Terra e il Cielo” . Nella costituzione ci sono le regole del diventare cittadino, quelle regole che sono sempre state il fondamento dell’azione di don Luigi Ciotti. Un’azione che l’ha portato a conoscere ed essere amico anche di due preti che sono figure fondamentali nella storia della lotta alle mafie. Don Peppe Diana e don Pino Puglisi condividevano con don Ciotti non solo la fede, ma anche la voglia e la ricerca di giustizia.
“Don Peppe lo incontrai l’ultima volta pochi mesi prima che lo ammazzassero - si legge nel libro -. Lui non era tipo da restare a guardare, di fronte alle ingiustizie.[...] Don Peppe Diana fu ucciso la mattina del 19 marzo 1994, il giorno del suo onomastico, dentro la chiesa di cui era parroco, mentre si preparava a celebrare la messa. Con quei proiettili la camorra si era illusa di spegnere per sempre la sua voce scomoda, senza capire che il suo messaggio sarebbe risuonato invece ancora più forte, amplificato dal martirio”. Come spesso accade pochi giorni dopo l’omicidio, attraverso una parte della stampa locale, iniziarono ad uscire delle insinuazioni. Si pensava che l’uccisione di don Peppe Diana fosse per “una storia di donne”, la più classica e becera diffamazione che la mafia è solita fare per ridicolizzare la vittima e fuggire dalle responsabilità.
Rosario Livatino, magistrato ucciso nel 1990 a 38 anni dalla Stidda agrigentina, una volta scrisse: ”Alla fine dei nostri giorni, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili“. Don Peppe Diana credibile lo era e la sua parola non fu fermata dai proiettili.
“ Alla fine dei nostri giorni, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili Rosario Livatino
La lotta alle mafie e la legge 109/96
L’autobiografia di don Ciotti non può non entrare nel vivo quando si parla della sua costante lotta contro la criminalità organizzata. Una lotta mai banale iniziata ancora prima della fondazione dell’associazione Libera. Tra mafie e tossicodipendenza infatti c’è da sempre un forte nesso, che il Gruppo Abele aveva già cercato di analizzare con il libro Dietro la droga. Un impegno, quello contro le sostanze stupefacenti, che portò il gruppo ad interessarsi sempre di più anche al narcotraffico, facendo aumentare il livello di attenzione della criminalità nei confronti di don Ciotti.
Sono del 2013 le parole intercettate a Totò Riina quando in carcere dice: “Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo”. La “colpa” di don Ciotti era quella d’aver toccato il patrimonio dei mafiosi. Il 30 giugno 1995, anno della sua fondazione, uscì su oltre 40 testate nazionali e locali l’appello di Libera: “Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli dei mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i Comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza e lotta”. Un anno dopo l’associazione riuscì a raccogliere un milione di firme per far si che si potenziasse quella legge, la Rognoni-La Torre del 1982, che introduceva per la prima volta nel codice penale il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis) e una prima norma per la confisca dei beni ai mafiosi. La legge 109/96 sull’uso pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie viene approvata in via definitiva dal Senato il 7 marzo del 1996, con il sostegno di uno schieramento politico ampio e trasversale.
Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie
Il 1996 è un anno cruciale per Libera. Solo pochi giorni dopo il successo della legge 109/96, il 21 marzo si svolse a Roma, in piazza del Campidoglio, la prima “Giornata della Memoria e dell’Impegno per le vittime delle mafie”. Memoria e Impegno: le due colonne portanti dell’associazione.
“Ricordo bene quella giornata - scrive don Luigi Ciotti nel libro edito da Giunti -, l’aria fresca del mattino che via via lasciava il passo a un tepore primaverile. E ricordo i volti un po’ spaesati degli studenti, le facce incuriosite dei giornalisti e quelle abbottonate delle personalità pubbliche, sciogliersi piano piano in un unico sorriso commosso. Segno forse di una comune consapevolezza maturata in quelle ore così intense, seppure nella semplicità della cornice e dei gesti”.
Emozioni intense che ancora oggi, a distanza di 25 anni, sono ciò che fa smuovere le coscienze fino a farle diventare una coscienza collettiva. Chi ha partecipato anche solo ad una “Giornata della Memoria e dell’Impegno per le vittime delle mafie” sa che il clima che si respira all’interno della manifestazione è unico. Sono rare infatti le occasioni in cui c’è un sentire comune in piazza, portato avanti da giovani ragazzi che leggono i nomi di vittime innocenti.
Quando si parla di criminalità organizzata bisogna fare i nomi, i nomi di chi delinque, i nomi di chi si impossessa di un pezzo di vita pubblica ma anche i nomi delle persone che a causa delle mafie non ci sono più. E’ questo uno degli insegnamenti più grandi che Libera ci consegna ogni giorno, ed il tutto è partito, anche in questo caso, da un fatto triste della storia italiana e da un uomo, don Luigi Ciotti, sempre con le antenne dritte, pronto a captare le necessità altrui.
“ ...ricordo i volti un po’ spaesati degli studenti, le facce incuriosite dei giornalisti e quelle abbottonate delle personalità pubbliche, sciogliersi piano piano in un unico sorriso commosso Don Luigi Ciotti
“Io non so chi sia quella donna minuta seduta accanto a me, vestita tutta di nero, con gli occhi inondati di lacrime - scrive don Luigi Ciotti ricordando un fatto accaduto durante una cerimonia per l’anniversario della strage di Capaci -. Se ne sta lì composta ad ascoltare gli interventi delle personalità presenti, ma si vede che dentro è tutt’altro che immobile: qualcosa in lei freme, si dibatte per uscire. A un tratto, come per dare sfogo a quella vibrazione segreta, mi afferra una mano stringendola sempre più stretta. Infine il suo turbamento trova la strada della parola. La frase che mi dice sale strozzata dalla gola, combattendo per non sciogliere in singhiozzi il pianto sino a quel momento silenzioso: «Perché non dicono il nome di mio figlio?». «Perché – ripete di nuovo – non dicono mai il suo nome?».
Quella signora si chiamava Carmela ed era la mamma di Antonio Montinaro. Antonio era il caposcorta di Giovanni Falcone e il 23 maggio 1992 viaggiava sulla prima auto, quella colpita maggiormente dall’esplosione. Morì sul colpo assieme ai colleghi Vito Schifani e Rocco Dicillo, e solo poche ore prima di Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo.
“Libera – Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”: è questo il nome completo dell’associazione ed il motivo ora è chiaro.
“L’amore non basta” è un libro che fa capire come sia fondamentale avere un “impegno costante, non fatto di parentesi”. L’amore non basta perché oltre all’amore bisogna provare un sentimento di giustizia che è esso stesso un atto d’amore per la comunità. L’amore non basta perché bisogna provare anche empatia verso gli altri e l’amore non basta se è l’io a sopraffarlo. In un momento storico predominato proprio dall’io, ma in una fase di transizione in cui la pandemia ha fatto anche riscoprire l’importanza del noi, il libro “L’amore non basta” è ossigeno per chi crede nelle battaglie sociali, senza le quali la vita di tutti sarebbe peggiore.
Un’autobiografia collettiva la chiama don Ciotti, ed è vero perché "L’amore non basta" parla anche di noi, della comunità, dell’importanza di stare insieme.