SOCIETÀ

L'America Latina e la tutela degli attivisti dell'ambiente

Troppe vittime, troppi martiri immolati sull’altare della difesa dell’ambiente, per aver avuto la forza di dire no al saccheggio indiscriminato dei territori e delle risorse naturali, per aver denunciato gli impatti del collasso climatico, per aver lottato in difesa dei diritti umani e delle minoranze sfruttate, mortificate, dimenticate. Sono i “leader sociali”: figure fondamentali nella battaglia secolare per la costruzione di una società più giusta e inclusiva. Donne e uomini coraggiosi, che però muoiono come mosche, soprattutto in America Latina, che detiene il triste record degli omicidi mirati: per aver osato sfidare le industrie, locali o multinazionali, o braccia operative della criminalità organizzata, responsabili a vario titolo della devastazione di foreste intere o di preziosissime zone umide, per impiantare coltivazioni sempre più vaste (a partire da quelle di coca) e di miniere sempre più profonde, senza alcuna tutela della salute, offrendo condizioni di lavoro assai prossime alla schiavitù. Voci di protesta che si alzano e danno un gran fastidio a chi governa quegli affari. Voci da spegnere prima possibile, a qualsiasi prezzo: e che sia da monito per quanti volessero seguire le loro orme. Ora però è entrato in vigore un trattato che potrebbe avere una portata storica, perché è il primo che stabilisce, tra l’altro, precise disposizioni a tutela dei “difensori dell’ambiente”. E’ l’Accordo di Escazù, dalla località del Costa Rica dov’è stato firmato nel 2018 da 24 paesi dell’America Latina e dei Caraibi, promosso dalle Nazioni Unite all’interno della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Eclac), nel rispetto di quanto previsto nell’agenda 2030, dopo negoziati durati 6 anni. Un trattato diventato operativo da pochi giorni, perché 12 di quei 24 governi l’hanno finalmente ratificato: la condizione vincolante era ottenere 11 ratifiche entro il 22 aprile scorso, in concomitanza con la Giornata mondiale della Terra. Decisiva è stata la firma dell’Argentina, seguita pochi mesi dopo da quella del Messico.

Uno strumento senza precedenti per l’America Latina

Dunque si riparte dall’Accordo. Che sarà pure fragile, e magari con il rischio che resti un esercizio di “retorica teoria”, ma almeno un testo scritto c’è. Un testo che obbliga in linea di principio i paesi firmatari a garantire, ciascuno per la propria popolazione (minoranze comprese) il diritto a vivere in un ambiente sano e ad adottare tutte le misure necessarie, che siano legislative, regolamentari o amministrative, per garantire l'efficace attuazione dell'accordo. Ma che prevede (ed è questo uno dei passi decisivi) per le popolazioni il diritto alla partecipazione e il libero accesso alle informazioni su tutti i progetti che possano avere un impatto ambientale. Come dire: ciò che prima veniva tollerato o segretamente consentito, ora dovrà necessariamente diventare di dominio pubblico. Ma c’è di più: è garantito anche l’accesso alla giustizia per la difesa dell’ambiente. I magistrati possono perciò disporre misure precauzionali per prevenire danni all’ambiente, o per farli immediatamente cessare. Con la possibilità, inoltre, di disporre meccanismi di riparazione del danno nei confronti delle aziende responsabili, attraverso la riparazione (quando è possibile) o l’applicazione di penali economiche, oltre all’impegno di non reiterazione del danno stesso. Alicia Bárcena, segretario esecutivo dell’Eclac, ha definito l’Accordo di Escazù «uno strumento senza precedenti per l’America Latina, perché in grado di rimuovere quelle barriere che ostacolano o impediscono il pieno esercizio dei diritti».

Sulla bontà dei princìpi c’è poco da eccepire. Ma restano talmente generici da rendere indispensabile, per la loro corretta attuazione, la “complicità” della politica, delle amministrazioni locali, che non sempre si sono distinte per comportamenti virtuosi. Anche perché diverse norme contenute nell’Accordo esistevano già (uccidere, minacciare, intimidire è sempre un reato): solo che nessuno s’era, quasi mai, premurato di farle rispettare. E l’urgenza di un intervento normativo (e culturale) è dato ancora oggi dalla cronaca quotidiana. L’ultima notizia arriva dalla Colombia, dove gli “squadroni della morte” (bande armate di narcotrafficanti) hanno assassinato 5 attivisti in una fattoria a Santa Cruz, nel comune di Andes, nel dipartimento nord-occidentale di Antioquia. Secondo l’Instituto de Estudios para el Desarrollo y la Paz (Indepaz), è il 31° massacro di difensori della terra e leader sociali che avviene in Colombia in appena 4 mesi, dall’inizio del 2021. Colombia che è stabilmente in testa alla classifica sugli omicidi commessi, stilata da Global Witness (ong internazionale che si occupa di violazioni dei diritti umani, di conflitti, povertà e sfruttamento delle risorse naturali). E sette dei primi dieci in classifica sono Paesi dell’America Latina: oltre alla Colombia, Brasile, Messico Honduras, Guatemala, Venezuela, Nicaragua. Secondo un altro rapporto, pubblicato da Front Line Defenders, sono 331 i difensori dei diritti umani assassinati nel 2020 (di nuovo Colombia in testa), il 69% dei quali era impegnato nella difesa dell’ambiente e dei diritti delle popolazioni indigene.

La frenata di Cile e Costa Rica

Diventa così interessante scorrere l’elenco degli Stati che hanno ratificato l’Accordo di Escazù. Che sono appena 12 (su 46 paesi e territori coinvolti): Argentina, Bolivia, Ecuador, Guyana, Messico, Nicaragua, Uruguay i paesi più grandi, ai quali si aggiungono Panama e i caraibici Antigua e Barbuda, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia. Costa Rica e Cile, che pure erano stati tra i promotori “teorici” dell’Accordo, si sono tirati indietro (il governo del presidente cileno Sebastián Piñera si è rifiutato di firmarlo, per presunte ambiguità e “rischi di contrasto con la legislazione ambientale nazionale”). E spicca l’assenza dei Paesi dove le aggressioni sono più frequenti: il Brasile (dove il testo non è stato nemmeno portato in Parlamento), la stessa Colombia e il Perù (dove la maggioranza dei deputati ha negato la ratifica per il timore che le norme possano minacciare la crescita economica e la sovranità nazionale sui territori dell’Amazzonia). Cuba e Venezuela non si sono nemmeno sedute al tavolo dei negoziati.

E immediatamente si sono levate, altissime, le voci di protesta delle più importanti aziende sudamericane. Il presidente della Camera delle Industrie del Costa Rica (CICR), Enrique Egloff, ha dichiarato il trattato “incostituzionale” perché inverte l’onere della prova per i reati ambientali: ossia dev’essere l’azienda accusata a dimostrare di non aver provocato un danno ambientale, ribaltando il principio di presunzione d’innocenza. «A queste condizioni, qualsiasi progetto imprenditoriale può essere ostacolato e paralizzato dall’azione di qualsiasi persona. Sarebbe un cattivo segnale per il sistema produttivo». Ancora Alicia Bárcena: «C’è evidentemente una lobby d'affari che ritiene che questo accordo impedirà loro di andare avanti con le loro attività: non dovrebbero vederla così». Secondo l’ultimo rapporto di Global Forest Watch il Brasile è in testa alla lista delle nazioni che hanno perso la maggior quantità di foresta primaria nel 2020, seguito da Perù e Colombia, al quinto e sesto posto.

«Questo trattato fornirà meccanismi efficaci per garantire un ambiente sicuro ai leader ambientali nel loro compito fondamentale di preservare ecosistemi di grande importanza sia in Argentina, sia nella regione», sostiene Leonel Mingo, coordinatore della campagna Greenpeace Climate and Energy per l’America Latina. Ma nessuna illusione che la partita sia vinta. Ancora dalla Colombia arriva la notizia della protesta di migliaia di indigeni, che dopo l’omicidio del governatore indigeno Sandra Liliana Peña, avvenuto il 20 aprile 2021, hanno deciso di sradicare un’intera piantagione di foglie di coca nel Cauca, all’interno della loro riserva: dieci ettari di terreno, a mani nude. I gruppi armati dei produttori di droga gli hanno sparato contro: a fine giornata si conta un morto e oltre trenta feriti. Secondo Marcos Orellana, consulente delle Nazioni Unite ed esperto dei diritti umani e dell’ambiente, «Escazú è la speranza che il cambiamento sia possibile per l’America Latina». Una speranza, appunto. Come quella che trapela dalla lettera scritta dal Papa a Ivan Duque Marquez, presidente della Colombia: «Proteggere l’ambiente e rispettare la biodiversità del pianeta sono questioni che riguardano tutti noi. Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo malato».

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