Camminare con un geologo può riservare qualche sorpresa. Metti che lui (che ti ascolta finché gli parli per carità) butti l’occhio per terra e noti qualcosa che attira la sua attenzione: per te, magari, un semplice sassolino; per lui probabilmente qualcosa di interessante da studiare. Ma da quel punto in poi che accade? Come si riesce a identificare di che materiale si tratta? E con quali strumenti?
C’è da dire innanzitutto che la passeggiata finisce lì e si entra in laboratorio. Si seleziona un frammento del materiale raccolto e si sottopone alla diffrazione ai raggi X, una delle tecniche principali usate in geologia. All’università di Padova, in particolare, grazie a un finanziamento di quasi un milione e mezzo di euro da parte dell’European Research Council per il progetto Indimedea (Inclusions in Diamonds: Messengers from the Deep earth) nel 2012 è stato possibile acquistare una strumentazione all’avanguardia che, fino a poco tempo fa, era la sola al mondo a offrire tecniche come i difrattometri a raggi X in grado di studiare numerosi materiali senza doverli distruggere.
Grazie al telescopio presente sullo strumento, il cristallo appare ingrandito sullo schermo del computer ad esso collegato. Colpendo la materia cristallina, i raggi X producono i cosiddetti “spot di diffrazione” da cui è possibile ottenere la carta d’identità del materiale oggetto di studio.
I dati che si ottengono vengono incrociati con database disponibili gratuitamente online, come il Crystallographic and Crystallochemical Database for Minerals and their Structural Analogues. In questo caso l’attenzione era caduta su una pietruzza scura che si è poi rivelata essere qualcosa di più interessante di un semplice ‘sassolino’.
Riprese e montaggio di Elisa Speronello