SOCIETÀ

La Libia sull'orlo dell'ennesima crisi

I libici sono esasperati: dall’inflazione, dalla mancanza di cibo, dalle carenze di carburante e di elettricità (le interruzioni di corrente durano anche 18 ore al giorno e da quelle parti, in questi giorni, le temperature oscillano tra i 40 e i 50 gradi). E soprattutto dalla persistente incapacità di una classe politica che da undici anni a questa parte, da quando l’ex dittatore Muammar Gheddafi è stato brutalmente assassinato a Sirte (grazie anche all’intervento della Nato), non fa altro che dividersi, scontrarsi, contrapporsi, con due “governi paralleli”, uno nel nord-ovest, l’altro nel nord-est, autorità che non si riconoscono reciprocamente, in un impasto di corruzione, clientelismo e fanatismo che ha fatto scivolare il Paese nel caos. Rivolte violente sono scoppiate nei giorni scorsi non soltanto a Tripoli, ma anche a Bengasi, a Misurata, a Tobruk, dove il 30 giugno scorso un gruppo di manifestanti ha preso d’assalto la sede del Parlamento, sfondando con un bulldozer il portone d’ingresso, per poi saccheggiare, distruggere e incendiare l’edificio. I bilanci finali degli scontri parlano di 3 morti, decine di feriti e centinaia di arrestati. E gli interventi dei mediatori internazionali non sembrano avere alcun effetto sulle parti. L’ultimo negoziato, a Ginevra, si è concluso senza un accordo, come il penultimo al Cairo, e via a ritroso. La soluzione ancora non si vede. Mentre sia l’Onu sia l’Egitto (uno degli stati più attivi sul fronte negoziale) continuano a ripetere che la via del dialogo è l’unica percorribile per superare l’impasse e arrivare a indire nuove elezioni. Come dire: l’opzione dell’intervento militare esterno è, almeno per ora, esclusa.

Il problema è che un qualsiasi accordo dovrebbe essere accettato dalle parti in causa, dai due governi che attualmente si contendono il potere, con l’appoggio più o meno esplicito di manipoli di milizie armate a fare da contorno, oltre agli stati stranieri, pronti a intervenire per “orientare” il conflitto interno. Il governo ad interim, che ha sede nella capitale Tripoli e che gode del sostegno internazionale, è guidato da marzo 2021 da Abdul Amid Dbeibah. Il suo incarico sarebbe dovuto terminare alla fine dello scorso anno, il 24 dicembre, con le elezioni presidenziali e legislative fissate dall’Onu come punto terminale del processo di pacificazione del Paese, avviato dopo gli scontri e le violenze culminate nel 2020. Ma quel voto non c’è mai stato: nessun accordo è stato trovato sulle regole da tenere per le candidature, come sui poteri da affidare al futuro presidente. Un caos totale. Così Dbeibah ha deciso di rimanere in carica. Mentre lo scorso febbraio il parlamento libico, che ha sede nella città orientale di Tobruk (quella assaltata nei giorni scorsi dai manifestanti) aveva forzato la mano, nominando come nuovo premier l’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha. Ma Abdul Hamid Dbeibah ha considerato la nomina illegittima, in quanto non espressione di un voto popolare: «Per questo non rinuncerò al mio incarico», aveva dichiarato. Bashagha non è solo: accanto a lui (o meglio, davanti a lui) c’è il generale Khalifa Haftar, definito “l’uomo forte della Cirenaica”, capo del sedicente Libyan National Army (LNA, l’esercito nazionale libico), protagonista dei combattimenti contro il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, durante la guerra civile dal 2014 al 2020 (e diversi membri dell’LNA, si presume sotto il suo comando, sono stati incriminati per crimini di guerra dal tribunale penale internazionale). Le ambizioni di Haftar, 78 anni, sono note: punta a diventare presidente della Libia. Nel novembre 2021, un mese prima delle elezioni poi annullate, aveva annunciato: «Mi candidonon perché inseguo il potere, ma perché voglio guidare il nostro popolo verso la gloria, il progresso e la prosperità. Le elezioni sono l’unica via d’uscita dal caos libico». Lo stesso Haftar, nel 2018, sosteneva che la Libia non era ancora matura per la democrazia. C’è anche chi sospetta che ci sia proprio la mano del generale dietro l’assalto al Parlamento di Tobruk (dove sono state sventolate bandiere verdi del regime di Muammar Gheddafi): per alzare ancor di più la tensione, per sfidare apertamente il governo ad interim di Dbeibah e la comunità internazionale. Il presidente della Camera dei Rappresentanti, Aguila Saleh, ha chiaramente accusato i nostalgici di Gheddafi di aver deliberatamente eseguito l’assalto a Tobruk. Anche l’Lna ha strizzato l’occhio ai dimostranti: «Il nostro dovere nazionale è avvicinare il popolo libico con l’invito a non infliggere danni alle strutture pubbliche e private».

Tutti a casa e nuove elezioni

Questo lo scenario sul campo. Il primo ministro Abdul Hamid Dbeibah ha lanciato un disperato appello pochi giorni fa: «Aggiungo la mia voce a quella dei manifestanti in tutto il Paese: l’unica soluzione possibile per la Libia sono le elezioni, per consentire le quali tutte le istituzioni, compreso il governo che presiedo, dovrebbero dare le dimissioni. I partiti che ostacolano le elezioni sono noti al popolo libico e sono gli stessi che hanno bloccato i bilanci e chiuso i pozzi di petrolio, il che ha contribuito all'inasprimento della crisi del costo della vita». Proprio il petrolio è l’unica, enorme, ricchezza di cui la Libia potrebbe disporre(è la più grande riserva conosciuta del continente africano), ma che le faide interne stanno rendendo inaccessibile. La National Oil Corporation (NOC) libica ha appena dichiarato lo stop forzato nei giacimenti petroliferi di Sidra, El-Feel e Ras Lanuf, oltre a quelli di Brega e Zueitina, con una perdita di circa 3 miliardi di dollari americani. Lo stop alle estrazioni è stato deciso dai sostenitori di Bashagha come “strategia” nella sua lotta per il potere con Dbeibah. Il calo della produzione è stimato nell’ordine dell’88%. E le interruzioni delle forniture dalla Libia hanno, naturalmente, contribuito a far salire il prezzo del petrolio. Ma chi rimette sono i libici, che ormai hanno perso qualsiasi residua pazienza. E che continuano a protestare, in migliaia, spesso giovani, spesso incappucciati, a volte “manovrati”, chiedendo a gran voce il ritorno dell’energia elettrica e le dimissioni di tutti i politici, esasperati dalla totale incapacità di affrontare questo momento di crisi, e d’inflazione dovuta allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina (la Libia importa quasi tutto il suo fabbisogno di cibo). Jalel Harchaoui, analista esperto di Libia, ha dichiarato all’agenzia France Presse che “la cleptocrazia e la corruzione sistematica” sono tuttora diffuse sia nella Libia orientale sia in quella occidentale. Con un contorno di violenze e sopraffazioni che coinvolgono, drammaticamente, tutti gli “attori” presenti sul campo, che non possono far altro che affidarsi a milizie armate per la difesa del loro territorio.

Come dire: in questa situazione, intricata e complessa, nessuno si salva. In un rapporto diffuso da Amnesty International lo scorso aprile, si denuncia la repressione brutale da parte della Laaf (Forze armate arabe libiche), sotto il comando del generale Haftar, nelle aree da loro governate, soprattutto a Sirte. «La LAAF e i suoi gruppi armati affiliati hanno rafforzato la presa sul territorio sotto il loro controllo. Negli ultimi anni, sospetti oppositori e critici sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco per strada, sono scomparsi con la forza o stanno languendo in carcere». Aggiunge Diana Eltahawy, vicedirettrice per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International: «La realtà di Sirte offre solo uno spaccato spaventoso della vita sotto la LAAF e i gruppi armati affiliati, che hanno brutalmente schiacciato i diritti alla libertà di espressione, associazione e riunione pacifica, e messo a tacere tutte le voci dissenzienti». In un altro rapporto ancor più recente delle Nazioni Unite, sullo stato dei migranti detenuti in Libia (in attesa di trovare un imbarco per attraversare il Mediterraneo), redatto sulla base di testimonianze raccolte personalmente, si denunciano le sistematiche violenze sessuali alle quali sono sottoposti, spesso per costringere i familiari a versare loro altro denaro, a volte soltanto per ottenere cibo o acqua, come denunciato da una donna reclusa a Ajdabiya, una città nella Cirenaica, nel nord-est del Paese. È scritto nel rapporto: «La missione conoscitiva dell’Onu ha fondati motivi per ritenere che crimini contro l'umanità siano stati commessi contro migranti in Libia. Donne e uomini detenuti in modo arbitrario, vittime di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani».  Mentre a Tarhouna, nella regione della Tripolitania (a nord-ovest, nella zona controllata dal Governo di Unità Nazionale, GNU) una missione delle Nazioni Unite in Libia ha annunciato pochi giorni fa di aver scoperto “probabili fosse comuni, forse fino a 100”. Il rapporto indica come principale responsabile di rapimenti, omicidi e torture una milizia guidata da sette fratelli che ha imperversato nella zona almeno dal 2016 al 2020. Tra le vittime ci sono donne, bambini e disabili.

Una strada in salita

Venirne a capo non sarà semplice. Anche perché le ricchezze della Libia fanno gola a molti. Secondo il consigliere delle Nazioni Unite per la Libia, Stephanie Williams, «tutte le attuali istituzioni in Libia mancano di legittimità dopo anni di divisione: la legittimità delle istituzioni può arrivare soltanto attraverso regolari elezioni». Mentre il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha preferito lanciare un appello per il ritorno alla calma, invitando i manifestanti a evitare atti di violenza e le forze di sicurezza a esercitare la massima moderazione negli interventi, oltre a esortare le forze politiche “a unirsi per superare il continuo stallo politico”. Il movimento giovanile Beltrees, uno dei gruppi più attivi nell’organizzare le proteste di piazza, ha diffuso un comunicato nel quale si afferma “la nostra determinazione a continuare le manifestazioni pacifica fino all’ultimo respiro per raggiungere i nostri obiettivi”.

Martedì il Consiglio di Presidenza libico ha annunciato un piano per superare la crisi politica e arrivare a indire nuove elezioni. In una nota si legge: «In risposta alle legittime richieste del popolo libico e al loro desiderio di cambiamento, il Consiglio presidenziale ha concordato un quadro generale per un piano di lavoro per risolvere lo stallo politico del Paese», senza indicare questioni concrete e specifiche. L’unica indicazione è che questo piano «preserverà l'unità nazionale della Libia, porrà fine allo spettro della guerra e porrà fine all’intervento straniero». Più un sogno che una realtà. Perché se l’accordo tra le parti non sarà trovato, lo sbocco naturale sarà di nuovo la guerra civile. Uno scenario ben riassunto pochi giorni fa in un report di Crisis24, società leader a livello mondiale che offre consulenze alle aziende nella gestione del rischio: «La sicurezza in Libia rimarrà instabile almeno fino alla fine di luglio, principalmente a causa dei combattimenti intermittenti e degli scontri armati tra vari gruppi di milizie rivali in tutto il Paese. L’assenza di un organo di governo coeso e di forze di sicurezza unificate potrebbe consentire alle organizzazioni militanti, incluso lo Stato islamico (IS), di riprendere piede in Libia. Inoltre, grandi manifestazioni si verificano frequentemente in tutta la Libia in risposta a questioni socio-economiche e politiche; le proteste possono diventare violente. Fino a quando le parti interessate esterne non si impegneranno seriamente a raggiungere un accordo di pace in Libia, le prospettive di pace e stabilità rimangono molto limitate. Egitto, Francia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Russia sostengono l’LNA, mentre Turchia, Italia e Qatar hanno fornito supporto al GNU. Il perseguimento da parte di questi paesi di interessi divergenti in Libia complica gli sforzi per arrivare a una soluzione politica significativa. Nonostante la creazione del GNU, il paese rimane diviso tra est e ovest, con i rispettivi sostenitori internazionali rimasti sostanzialmente invariati».

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