CULTURA

L’insostenibile frivolezza di Shakespeare versione cool

Gli allestimenti di Shakespeare, lo abbiamo già commentato, sono diventati un ottimo metro per valutare come si evolve l’offerta teatrale in Italia, nei suoi aspetti commerciali e di contenuto. Interpreti selezionati blandamente, pubblico affamato di intrattenimento rapido e casalingo, budget risicati: tutti fattori che concorrono a rimodellare le messinscene dell’autore che del teatro riassume la sublimità e la complessità, secondo linee che guidano, ormai, le scelte di molti direttori artistici. Shakespeare è considerato “digeribile” solo a condizioni ben precise: la presenza di uno o più volti popolari, noti al pubblico televisivo generalista, spesso divenuti famosi con prodotti seriali di successo; una robusta sforbiciata a testi e cast, per offrire le opere del Bardo in versione sufficientemente “light” sia per gli spettatori che per la produzione; una riscrittura che pieghi i temi shakespeariani dall’universale al particolare, utilizzandoli non tanto per valorizzarne la atemporalità, quanto per dimostrare tesi legate a specifici argomenti di attualità; oppure lo sfruttamento dei testi originali, o loro passi ben miscelati, come spunto per qualunque altro genere di spettacolo, con un utilizzo intensivo del brand del Poeta per proporre infinite diluizioni e varianti delle trame più note.

Un buon esempio di queste tendenze è il cartellone 2023 del più prestigioso festival italiano dedicato a Shakespeare, l’Estate Teatrale Veronese, che in tre quarti di secolo ha visto al Teatro Romano i maggiori registi e attori italiani succedersi in spettacoli memorabili. La rassegna di quest’anno presenta come titolo di apertura un Allegre Comari diretto da Andrea Chiodi la cui locandina è cannibalizzata dalla protagonista Eva Robin’s, attrice di lungo corso ma certo non di matrice shakespeariana, in uno spettacolo che (scorrendone la presentazione) parrebbe un’antologia falstaffiana basata, più che sull’intreccio originale, sulla notorietà dell'interprete principale. C’è poi un Aspettando Re Lear che viene introdotto come una rilettura beckettiana dell’epilogo della tragedia, e anche questa sarà una sfida non indifferente per l’attore-regista Alessandro Preziosi, alla ricerca di nuove prospettive con cui affrontare il classico dei classici. C’è anche Letti d’amore, un’antologia di dialoghi e monologhi shakespeariani (messa in scena di Raffaello Fusaro) sul tema della coppia e della relazione amorosa, descritto come “un medley di carne, tradimenti, denaro, potere, passione, comico e tragico” che fa leva su quattro attori notissimi (De Sio, Adriano Giannini, Montanari e Morante) con l’intento di legare “i temi di Shakespeare al nostro tempo”.

Insomma, il rischio è forte: perché se il drammaturgo per eccellenza è, giustamente, saccheggiato da decenni in continui tentativi di dire qualcosa di nuovo sulla sua eterna contemporaneità, è impossibile non percepire come si assista a una sua parcellizzazione, all’addomesticamento di temi e personaggi per polverizzarli in un’infinità di microstorie, spesso al servizio di operazioni di grande richiamo ma, forse, troppo piccine per meritare il riferimento al poeta di Stratford.

La difficoltà a mettere in scena Shakespeare oggi si riscontra, però, anche in allestimenti che partono con i migliori presupposti. Un caso interessante è quello del Riccardo III diretto dalla regista ungherese Kriszta Székely, coproduzione degli stabili di Torino, Bolzano ed ERT. Qui è escluso in partenza qualunque ammiccamento commerciale: si tratta di un progetto con ambizioni alte, protagonisti di peso (Paolo Pierobon, Manuela Kustermann) e una regista ben determinata a connotare il suo teatro con grande sensibilità verso temi politici e sociali. Il suo serissimo Riccardo (che è dichiaratamente una libera riscrittura) non fa eccezione, con una versione totalmente centrata sul presente, un sovrano che è un magnate politico-mediatico, una corte che è uno stuolo di collaboratori tra maxischermi e tavole imbandite, ossessionati dal curare l’immagine del capo, addolcire l’informazione, lanciarsi in party vintage da discoteca, con una scena che rievoca baite hitleriane in chiave (è inutile nasconderlo) berlusconiana, trumpiana o, vista la provenienza della Székely, orbániana. Pensieri e linguaggio sono ipercontemporanei, ci sono riferimenti ad ansiolitici, psichiatri, “spedire con Postacelere la tua anima in cielo” (magari si poteva osare una Pec), lifting, mosse da breakdance, selfie, sacchi neri che si accumulano a contenere i cadaveri delle vittime, quasi obitorio clandestino da Sudamerica.

Quindi l’odierno tiranno è un dittatore mediatico, manipolatore del consenso, adulato e adulatore, come Riccardo ossessionato dal potere e rinchiuso in uno zoo di parassiti azzimati che lo isolano dal mondo, con la complicità dei vertici di istituzioni corrotte. Tutto legittimo, forse non così sorprendente né nuovo. Libertà maggiore la troviamo nell’epilogo, quando la regista immagina che a sconfiggere Riccardo e prendere il potere sia una donna, Elisabetta, la regina vedova di Edoardo IV, che finisce anch’essa, inebriata dal potere, per perdersi in una spirale di violenza e desiderio di armi e guerra (con riferimenti per nulla velati al dibattito su come fronteggiare un’aggressione nemica e in che modo, quindi, perseguire la pace). Nella messinscena di Székely ci sono, indubbiamente, intuizioni felici: la scena del raggiro dei fratellini eredi al trono, riprodotta in un video ambientato all’interno di un Suv in cui i principini sono irretiti dalle lusinghe dei collaboratori di Riccardo e infine imprigionati, è una sintesi simbolica ed efficace di un potere basato su lusso, piaggeria, cinismo, obbedienza cieca, volgarità e disprezzo per la vita e per le istituzioni democratiche. Ma rendere i temi perenni del Riccardo funzionali a un racconto che si nutre di piccolezze, delle miserie di intrighi ed esistenze del triste circo di colletti bianchi al servizio di un autocrate dei tempi nostri, produce lo straniamento di Cenerentola raccontato come love story tra un calciatore e una influencer. Shakespeare è, sempre, un titano da maneggiare con cura.

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