SOCIETÀ

L'Isis dopo Al-Baghdadi

Il 27 ottobre, stando alle notizie diffuse dal governo americano, il capo dell’Isis Abu Bakr Al-Baghdadi è stato ucciso dalle forze speciali statunitensi nella provincia di Idlib, nel nordovest della Siria. Un’operazione che vorrebbe porre fine a un incubo, ma che in realtà apre la porta a nuovi e imprevedibili scenari. Che farà adesso l’Isis? Il suo successore annunciato (Abu Ibrahim Al-Hashimi Al-Qurashi) avrà il carisma sufficiente per risollevare le sorti del gruppo terroristico? E soprattutto: ci saranno nuovi attentati anche in Occidente?

Lo chiediamo a Renzo Guolo, docente di sociologia dell’Islam presso l’università di Padova ed esperto di Medio Oriente. “Le condizioni in cui al Baghdadi è stato preso ci dicono che era in fuga e probabilmente cercava protezione in una zona in cui la presenza del suo gruppo non è così forte, anche se Idlib resta comunque un’area a concentrazione jihadista. Non è detto che non cercasse un passaggio in Turchia, con tutto quello che significa in termini di implicazioni politiche, e che questo non sia stato anche sostanzialmente il prezzo che i turchi hanno pagato agli americani per avere in mano libera nella zona curda dentro l'area siriana”.

Ascolta l'intervista a Renzo Guolo

Pur rimanendo molti aspetti oscuri, resta comunque la grande difficoltà dell’Isis dopo la perdita del territorio che controllava: “Si tratta di un gruppo che non è abituato alla clandestinità – continua Guolo –. Il fatto di aver concentrato attorno a sé molti nemici, dagli americani ai russi, fino agli iraniani e al governo siriano, ha prodotto una situazione di sostanziale isolamento. Anche se la fine del leader non significa automaticamente fine del gruppo”.

Secondo il sociologo lo strike delle forze americane potrebbe ridisegnare i rapporti di forza tra le diverse componenti del terrorismo islamista: “Al-Qaeda ha subito meno contraccolpi perché, fin dalla cacciata dall’Afghanistan nel 2001, ha sempre praticato una strategia di clandestinizzazione e si è riorganizzata su base regionale, con ‘sezioni’ legate alle varie realtà locali come l'area subsahariana, quella indo-pakistana e quella mediorientale, che paradossalmente è ormai quasi residuale”. Oggi l'Isis, rimasta senza base statuale e territoriale, è inevitabilmente costretto ad approcciarsi a questo modello che prima aveva sempre rifiutato: “Una delle grandi divisioni tra i due movimenti è sempre stata legata al fatto che l'Isis e il suo antenato, il gruppo di Al-Zarqawi, hanno sempre teso a tradurre il loro potere in dominio territoriale. Al-Qaeda al contrario riteneva che non ci fossero le condizioni per un sviluppo simile, né tantomeno per la proclamazione di un califfato, che non è mai stato riconosciuto nemmeno del gruppo di Bin Laden”.

L'Isis non è abituato alla clandestinità, ha sempre cercato di tradurre il suo potere in dominio territoriale

Oggi il timore principale è che, dopo anni di relativa calma, si torni a colpire anche in Europa: “Sicuramente l’Isis cercherà in qualche modo un gesto eclatante, ma un'operazione complessa come quella che ha portato alla strage del Bataclan appare difficilmente riproducibile su quella scala – conclude Guolo –. Ci possono essere invece episodi individuali, perché l'appello è di colpire anche attraverso questo tipo di gesti, che però non dovrebbero avere simili impatti, anche se sappiamo al terrorismo basta poco per produrre molti danni. Un'altra problematicità è quella legata ai cosiddetti Returnees, cioè ai Foreign Fighters di ritorno. Una parte di loro è già tornata in Europa; si tratterà di capire se questi attori siano in grado e vogliano ricostituire una rete clandestina, oppure se al contrario considerino questa esperienza definitivamente chiusa. Resta sicuramente il fatto che con lo Stato Islamico sia venuto a mancare un riferimento statuale e una base sicura di protezione, anche per pianificare le operazioni da condurre al di fuori”.

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