SOCIETÀ

L'Italia è poco attrattiva per giovani e stranieri qualificati

Da circa un decennio l’Italia è tornata ad essere terra di emigrazione. Il saldo tra partenze e rientri di nostri connazionali dice meno 500.000 italiani negli ultimi 10 anni. Tra questi, 250.000 giovani compresi tra i 15 e i 34 anni. È come se il nostro Paese avesse perso il contributo demografico di una città come Padova o Verona. Con loro se ne sono andati 16 miliardi di euro di potenziale produttivo, equivalente a più dell'1% del Pil.

Dai dati presentati martedì 8 ottobre a Roma presso la sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio, contenuti nel nono Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione redatto dalla Fondazione Leone Moressa, emerge che da un lato ci lasciamo scappare i giovani e dall'altro compensiamo con l'ingresso di stranieri, i quali contribuiscono a quasi il 10% del Pil nazionale, ma solo pochi di loro svolgono professioni qualificate.

Il drenaggio delle forze più fresche avviene a fronte di una condizione occupazionale giovanile drammatica: nella fascia tra 25 e 29 anni il tasso di occupazione è del 54,6%, oltre 20 punti in meno rispetto alla media dell’Unione europea, fissata intorno al 75%. Il tasso di disoccupazione per la stessa fascia d’età è di 19,7%, il terzo più alto dopo Grecia e Spagna, e dieci punti sopra la media europea, al 9,2%. Anche il tasso di Neet (chi non studia e non lavora – Not in education, employment or training) è il più alto d’Europa: 30,9%, quando la media Ue è del 17,1%. Inoltre, il livello d’istruzione dei nostri giovani è molto basso: tra i 25 e i 29 anni solo il 27,6% è laureato, quasi 12 punti in meno rispetto alla media europea.

La fuga di giovani è ancora più grave se si rapporta al fatto che l'Italia è in pieno calo demografico: il saldo tra nuovi nati e decessi è negativo da oltre 25 anni e per ogni donna nascono in media 1,32 figli. Di qui a 20 anni, l'Istat prevede che gli over 65 saranno un terzo della popolazione (31,3%). Ciò determinerà squilibri economici e finanziari, dato che proporzionalmente diminuiranno i lavoratori e aumenteranno i pensionati.

L'altro lato della medaglia del rapporto sull'economia dell'immigrazione è dedicato alla presenza di stranieri in Italia, stabile negli ultimi anni: 5,2 milioni di stranieri risiedono in Italia (riferimento a fine 2018), rappresentando l'8,7% della popolazione.

Nel 2018 i lavoratori stranieri erano 2,5 milioni, pari al 10,6% degli occupati totali. La ricchezza prodotta da questi lavoratori è stimabile in 139 miliardi di euro, equivalenti al 9% del Pil. Il problema è che in Italia non riusciamo ad attirare competenze di alto profilo. Le elaborazione della Fondazione Leone Moressa su dati Istat dicono che un terzo degli occupati stranieri (33,3%) si concentra nelle professioni non qualificate, mentre solo il 7,6% svolge mansioni qualificate. Il restante 60% si divide quasi equamente tra operai, artigiani, commercianti e impiegati. 700 mila imprenditori che lavorano in Italia sono nati all’estero (il 9,4% del totale) e, a livello fiscale, sono 2,3 milioni di stranieri versano le tasse in Italia. Da essi proviene un gettito Irpef di 3,5 miliardi di euro (su un ammontare di 27,4 miliardi di redditi dichiarati) e 13,9 miliardi di contributi previdenziali versati.

È interessante notare inoltre che nei settori più "manuali" come l'agricoltura e le costruzioni è in calo il numero di occupati italiani (-1,1% e -1,3% rispettivamente) mentre è in netta crescita quello degli stranieri (+6,1% e +2,9%).

Il nostro Paese appare dunque sempre meno accogliente per molti ragazzi e ragazze italiani, convinti che l'investimento sul futuro in patria non pagherà. Il Regno Unito resta la meta più ambita: più del 20% di loro lo sceglie come destinazione. Seguono la Germania, al 17%, la Svizzera, al 9%, la Francia, all'8%, la Spagna e il Brasile, al 6% e gli Stati Uniti, al 5%.

Allo stesso tempo i numeri dicono che l'Italia è poco attrattiva per lavoratori stranieri con competenze qualificate. È un problema ben noto alle università italiane, che non solo faticano ad attirare cervelli stranieri, ma non riescono nemmeno a trattenere quelli che formano in patria.

L'ultimo rapporto Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia) certifica che l'Italia spende ogni anno 14 miliardi di euro per formare giovani che poi si vedono costretti a varcare i confini nazionali per trovare chi è disposto a far valere le loro competenze acquisite in patria. Di oltre 13.000 ricercatori che hanno ottenuto il dottorato in Italia, meno del 10% riesce a diventare strutturato, ovvero ottenere un posto a tempo indeterminato, nell'università italiana. In particolare il 56% dei ricercatori dopo aver ottenuto due assegni si construirà un futuro all'estero in un altro campo; il 26% otterrà un contratto a tempo determinato (ricercatore di tipo A) per poi abandonarlo; il 5% otterrà il contratto da ricercatore di tipo B (che dopo tre anni consente di scattare professore associato) ma ugualmente dirà addio al mondo accademico.

Non solo quindi non sappiamo attirare personale qualificato, ci lasciamo scappare anche quello che abbiamo pagato profumatamente per formare. Il rapporto sull'economia dell'immigrazione della Fondazione Leone Moressa ci dice che questa tendenza sembra valere non solo in ambito accademico, ma per tutta la società.

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